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Pascoli: un modello tra Ottocento e Novecento letterario

La critica degli anni Cinquanta: Passione e ideologia

2.4. Pascoli: un modello tra Ottocento e Novecento letterario

Dopo l’excursus storico-linguistico, Pasolini introduce Pascoli, cui dedica un intero

capitolo, del ‘55. Come ho già ricordato, si tratta di un testo apparso, qualche mese

prima, sul primo numero di «Officina», un omaggio per celebrare il «centenario della

nascita del poeta» [PI 231]. Prima di procedere con l’analisi del testo, è bene

focalizzarsi sul tipo di influssi che il poeta di San Mauro ha avuto sulla formazione di

Pasolini.

Sin dagli anni universitari, Pascoli ha avuto un certo rilievo per Pasolini, soprattutto

da un punto di vista poetico; la scelta di dedicargli la tesi di laurea «sembra coincidere

con il chiudersi di un ciclo di esperienze letterarie ed esistenziali»128. Sono due le

ragioni che lo hanno indotto ad avvicinarsi a Pascoli, «da una parte la presenza di una

eccezionale tecnica poetica, dall’altra l’esigenza di verificare nel Pascoli una specie di

conciliazione dell’autonomia dell’arte con una sua moralità umana che non esclude un fine utilitario estraneo alla poesia»129. Ma la grandezza del poeta, secondo Pasolini,

risiede soprattutto nella capacità di conciliare termini volgari, vicini al parlato,

all’interno della lingua letteraria. Questa «oscillazione tra i due poli dell’universo verbale pascoliano»130 ha portato Pasolini a considerarlo un simbolo per una nuova

letteratura antinovecentista e antiermetica.

Lo studio della poetica pascoliana comporta anche un’analisi della personalità, delle

«forze psichiche contrapposte che condannano l’io del poeta a una condizione radicale

di solitudine»131. Pasolini rileva gli aspetti di un «egoismo contraddicentesi con i

risultati di una meditazione così feconda e vi riconosce la forza paradossale che

potenzia una coscienza dell’infinito e del mistero interiori, e che trasfigura la realtà

128 BAZZOCCHI-RAIMONDI 1993, p. VI. 129 Ivi, p. XVII. 130 Ivi, p. XX. 131 Ivi, p. XXIII.

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esterna in un nuovo lirismo soggettivo»132. Attraverso queste riflessioni Pasolini arriva a

mettere in discussione se stesso; Pascoli ha infatti assunto per lui il valore di

controfigura e nella lettera inviata a Sergio Maldini, nel ’45, scrive:

Insieme alla mia esperienza di assoluta, macabra solitudine, che mi ha fatto sfociare a certe inaspettate aperture mistiche, si è svolta di pari passo un’esperienza estetica, che rappresentava una continua, estrema salvezza dal nulla […]. Dal misticismo sono sboccato di continuo nell’estetismo, cosί che l’attività di scrittura poetica, ha lentamente assunto in me una funzione assoluta, quasi sproporzionata [L 222-223].

La riflessione interiore coincide, in Pasolini, con una crescita letteraria e linguistica.

Proprio attraverso lo studio dello stile pascoliano, del valore letterario da lui attribuito a

termini propri della lingua parlata, Pasolini è ricorso all’uso del dialetto «nel pieno della stagione ermetica»133, in modo da sperimentare una personale opposizione alla

letteratura novecentesca, che «continuava a porre la propria candidatura egemonica, o

semplicemente a fare resistenza al nuovo»134.

La lettura del saggio in questione permetterà anche di osservare come, in un primo

momento, Pasolini abbia incentrato l’analisi pascoliana sullo stile, per poi spostarsi

nell’ambito psicologico e interiore. Ovviamente i due tipi di ricerca sono correlati, dal momento che l’approfondimento morale «mira deciso alla rivelazione di un carattere

interno alla personalità di Pascoli da riportare poi nuovamente alla fenomenologia dello

stile»135.

Tornando al testo, un’analisi attenta fornisce «una immagine-collocazione del Pascoli

[insieme] a una visione panoramica nitidissima della realtà e dei percorsi della poesia

del Novecento»136. Qui intento di Pasolini è dimostrare come la produzione stilistico-

132 Ibidem. 133 Ivi, p. XXV. 134 MENGALDO 1987, p. 426. 135 BAZZOCCHI-RAIMONDI 1993, pp. XXI-XXII. 136 BORGHELLO 1986, p. 172.

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letteraria novecentesca sia stata in gran parte influenzata dal fenomeno pascoliano: «tra il 1890 e il 1900 l’influenza pascoliana si irradia fino circa al periodo vociano lungo tutto il fronte letterario italiano» [Ivi 43]. In proposito, Mengaldo ricorda come «molti

aspetti del suo sperimentalismo e del suo plurilinguismo [abbiano condizionato] le

diverse correnti e le personalità poetiche più influenti del Novecento»137.

Pasolini intende chiarire il modo in cui il poeta sia riuscito a diventare un emblema

per i dialettali, pur non essendo lui stesso un autore di testi in dialetto; inoltre, cerca di

spiegare come egli sia diventato simbolo della successiva produzione poetica in lingua,

tanto che «i nuovi letterati italiani dalla Ronda all’Ermetismo si iscrivono in quel primo

modulo umano di letterato che è fornito dal Pascoli» [Ivi 237].

Intrapresi e approfonditi gli studi pascoliani, grazie anche all’elaborazione della tesi di

laurea, lo scrittore si sofferma sulla storia stilistico-psicologica del poeta e ricorda come

nel Pascoli coesistano, con apparente contraddizioni di termini, un’ossessione tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso,immobile e spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo […]. Coesistono in lui una forza irrazionale che lo costringe alla fissità stilistica e una forza intenzionale che lo porta alle tendenze stilistiche più disparate [Ivi 233].

L’efficacia della forza intenzionale, che appunto ha spinto Pascoli a sperimentare innumerevoli tendenze stilistiche, ha favorito anche una sua maggior influenza nelle

diverse sezioni letterarie. Come ricorda Asor Rosa, il poeta di San Mauro «costituisce

un punto di riferimento per una poesia che assuma su di sé il peso del conflitto tra fissità

stilistica e pluristilismo, tra l’ossessione che si pone alla base e la pluralità delle sperimentazioni, che la varia e la trasforma»138.

137

MENGALDO 1987, p. 447.

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È qui il centro della questione: quel suo incessante sperimentalismo ha portato Pasolini

a elevare Pascoli a figura di mediazione tra la produzione poetica dialettale otto-

novecentesca e quella letteraria italiana in lingua.

La particolarità di questo autore risiede nell’aver inserito una lingua strumentale, di

koinè, all’interno della lingua poetica, in certi casi arricchendola di lessico familiare,

vernacolo; in questo modo egli ha dato inizio sia alla produzione letteraria, sia al filone

dialettale novecentesco. La ferma convinzione di Pasolini nel considerare Pascoli

l’archetipo dei poeti dialettali novecenteschi è da ricondurre anche a una caratteristica propria della poesia in dialetto, ossia quel ritardo che permette ai poeti di «proseguire le

indicazioni di gusto plurilinguistico e di rivolta anti-letteraria che Pascoli aveva posto

fortemente»139.

Pasolini prosegue sintetizzando l’influsso pascoliano sulle istituzioni delle forme

poetiche contemporanee:

introducendo nella lingua poetica la lingua parlata sotto forma di koinè, il Pascoli prefigura l’organismo stilistico dei crepuscolari […]. Quando tale lingua strumentale nella poesia, anziché apportarvi una riduzione al tono dimesso, vi accentua intenzionalmente la violenza espressiva, prelude a […] certe crudezze autobiografiche di Saba. Quando ancora tale immissione di lingua strumentale si arricchisce, ed è questa la più cospicua novità pascoliana, di lessico vernacolo, […] ci troviamo di fronte allo schema della poesia media dialettale del primo Novecento [PI 234].

È chiaro che l’impatto di Pascoli sulla letteratura novecentesca è stato di notevole rilievo, dal momento che «la lingua poetica di questo secolo è tutta uscita dalla sua

elaborazione» [Ivi 235].

Pasolini prosegue la descrizione del fenomeno e cerca di risalire alle cause di

quell’ossessione psicologica che impedisce al poeta qualsiasi tipo di mutamento e che, tuttavia, ha fatto di lui un modello per la produzione letteraria novecentesca:

139 MENGALDO 1987, p. 443.

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se esaminiamo l’ossessione psicologica che determina [le libere tendenze stilistiche pascoliane], ci troveremo di fronte a una vita sentimentale viziata, […] a una bontà informe e infantile che per rendersi plastica necessita di nominali applicazioni cristiane o socialistiche: a una vita, insomma, ridotta alla funzione poetica. Che è poi il limite dell’intera produzione novecentesca dalla Voce alla reazione rondista ed ermetica [Ivi 236].

Come ho già anticipato, lo scrittore fa di Pascoli e del suo sperimentalismo il punto di

riferimento per qualsiasi reazione antimonolinguistica, tanto che, divenuto emblema

della produzione dialettale novecentesca, «ha continuato la lotta contro il

monolinguismo condotta da crepuscolari e futuristi»140; tuttavia, a Pasolini preme

sottolineare come le sue continue innovazioni stilistiche, siano in realtà limitate

all’ambito linguistico, senza presupporre alcun coinvolgimento ideologico. Riguardo il plurilinguismo pascoliano, il nostro critico così argomenta:

il suo sperimentalismo antitradizionalistico, le sue prove di parlato e prosaico, le sue tonalità strumentali al posto della casistica sensuale religiosa-petrarchesca è di tipo rivoluzionario ma solo in senso linguistico: la figura umana e letteraria del Pascoli risulta solo una variante moderna dell’archetipo italiano, con completa incoscienza della propria forza innovativa […]. I nuovi letterati italiani dalla Ronda all’Ermetismo si iscrivono in quel primo modulo umano nuovo di letterato che è fornito dal Pascoli [Ivi 237].

In chiusura di capitolo, lo scrittore ricorda come le novità stilistiche introdotte dal

poeta siano soltanto quantitative: «l’allargamento linguistico non è quello di un Manzoni o di un Verga, dovuto a un realismo di origine ideologica […]; nel Pascoli l’allargamento linguistico è sempre in funzione della vita intima e poetica dell’io, quindi della lingua letteraria, nel suo momento ancora tradizionale» [Ivi 238].

140 SEGRE 1985, p. IX.

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La lezione pascoliana, con un ritorno a modi stilistici tradizionali, sarà di fondamentale

importanza anche per quanto riguarda il cosiddetto sperimentalismo di Pasolini; è

ancora Asor Rosa a ricordare come

nella ricerca di nuovi nessi tra logica e linguaggio, che stiano al di là del sublime novecentesco, consiste ciò che Pasolini chiama per sé sperimentalismo […]. È una posizione in consonanza con quella pascoliana, e al tempo stesso da questa ben distinta […]. Infatti una volta precisato il meccanismo in base al quale si rende necessaria una riadozione di modi stilistici prenovecenteschi, tradizionali, Pasolini puntualizza che essi si rendono mezzi necessari di uno sperimentare che, nell’accezione ideologica, è assolutamente antitradizionalista: tale da mettere in discussione la struttura e la sovrastruttura dello stato. Lo sperimentalismo pasoliniano presuppone una lotta innovatrice non nello stile, ma nella cultura, nello spirito, mentre il plurilinguismo pascoliano è solo di tipo linguistico141.

Prosegue, in queste pagine, l’analisi circa la figura dell’autore Pascoli, delle tracce da lui lasciate nel panorama linguistico-letterario novecentesco. Prima di introdurre la

personalità di Montale, uno dei maggiori poeti italiani a risentire della lezione del poeta,

il nostro critico fornisce un ritratto del poeta triestino Giotti; si tratta di uno dei primi

scrittori a mostrare come le esperienze stilistiche italiane avessero ormai preso una

piega pascoliana, «convogliandosi nel solco dell’eversione stilistica di questo ambiguo,

infantile, innovatore» [PI 240]. Pasolini ricorda come il triestino seguisse le orme del

Pascoli e prende come modello, per un raffronto, la poesia Siora Teresa; nel testo, oltre a figure tipicamente pascoliane, emerge anche l’ideologia sentimentale tipica del poeta di San Mauro, resa esplicita «dall’immagine di un sonno comune e innocuo di tutti gli

uomini tornati bambini» [Ivi 241]. Lo scrittore, tuttavia, nota «una semplificazione di

tale ideologia sentimentale, [dovuta] ai caratteri dell’estrosità e dell’ironia» [ibidem].

L’importanza di Giotti, nel panorama letterario italiano, non si ferma qui; Pasolini esalta anche l’aspetto dialettale delle sue poesie, seppur limitato ad alcuni termini. Si tratta di

141 ASOR ROSA 2009, pp. XVII-XVIII.

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parole espressive «contenenti quella estrosità e quell’umorismo di cui si diceva. Il

dialetto, in quanto tale, non conta che limitatamente, sul perfezionamento del Pascoli

operato da Giotti» [Ivi 242]. Poco oltre, Pasolini fornisce una esaustiva spiegazione di

quanto sia stato importante l’apporto del poeta triestino alla produzione poetica dialettale, dal momento che ha perseguito l’aspirazione irrealizzata del Pascoli e così argomenta:

Il passaggio di Giotti, non è da una lingua maggiore a una minore […]. La lingua maggiore, era già stata ridotta dal Pascoli, e poi, nel nostro secolo, dalla rivoluzione crepuscolare, a lingua minore […], sussistendo però in essa, le sue caratteristiche di lingua letteraria. Come osserva Contini, il grande desiderio irrealizzato del Pascoli, era di evadere dalla lingua maggiore da lui già ridotta a minore, verso il dialetto. Giotti per primo, nel Novecento, attua questa aspirazione tipicamente pascoliana al dialetto: non come a una lingua ancillare, ma come una lingua allo stesso livello dell’italiano [ibidem].

Ritroviamo qui la stessa operazione compiuta dal nostro scrittore circa la poesia

dialettale, che eleva e introduce nel filone della produzione lirica in lingua.

Emblematico è stato l’influsso di Pascoli su Montale, il cui «vocabolario della

metafisica regionale o terrigena è, sia pur rozzamente, elaborato dal Pascoli, […]. Il procedimento stilistico montaliano che si definisce nel caricare di un senso cosmico un

umile oggetto, è implicito nella teoria pascoliana del particolare» [Ivi 235]. Che

Montale possa essere considerato un successore di Pascoli, in ambito poetico, lo si può

dedurre anche dal fatto che «nella Bufera si accentuano certe tonalità classicistiche e

certe movenze pascoliane» [Ivi 257].

Si tratta di considerazioni proprie di Pasolini che in genere la critica non condivide.

Mengaldo, per esempio, si pone sulla scia del critico bolognese Bonfiglioli che, nel suo

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particolare e quella montaliana dell’oggetto»142

, oltre a mettere in dubbio una continuità

tra Pascoli e la tradizione poetica del Novecento italiano. Nei vari articoli che

Bonfiglioli ha scritto a riguardo emerge una volontà «insistente di respingere entro i

rigidi confini ideologico-culturali ottocenteschi l’esperienza pascoliana»143. Mengaldo

si è così interrogato sulla formazione letteraria di Montale, nella quale sono sicuramente

rintracciabili richiami materiali a Pascoli, ma questi elementi «assumono qui tutt’altra

funzione significativa»144. Dallo studio delle opere montaliane egli rintraccia, per

quanto concerne temi ricorrenti e abitudini linguistiche, piuttosto «apporti dannunziani e

crepuscolari»145 che Pasolini, al contrario, non ha preso in considerazione. Secondo Mengaldo l’errore del nostro scrittore risiede nell’aver attribuito «a Pascoli una funzione di avvio e stimolo che spetta piuttosto alla maggior poesia europea del secondo

Ottocento»146. Considerare Pascoli l’archetipo di tutta la produzione letteraria italiana novecentesca «ha il grave torto di non tener conto del contatto vitale con le maggiori

avanguardie europee del tardo Ottocento e del primo Novecento»147. Mengaldo giunge

così ad argomentare la propria tesi di una influenza dannunziana su Montale, dopo

un’attenta analisi delle opere di entrambi i poeti, da cui rileva «la presenza della lezione linguistica dannunziana nella predilezione di Montale per taluni processi formativi delle

parole […]. È nota la ricchezza di parasintetici a prefisso in- nelle raccolte montaliane»148, sul modello appunto dannunziano. Anche sul piano lessicale i prestiti

non mancano:

Le garanzie in merito potranno essere di varia natura: l’appartenenza della ripresa a un contesto tematico che pure rimanda a precedenti dannunziani; il fatto che il vocabolo o l’uso metaforico 142 BORGHELLO 1986, p. 211. 143 Ivi, p. 216. 144 MENGALDO 1996, p. 22. 145 Ivi, p. 26. 146 MENGALDO 1987, p. 449. 147 MENGALDO 1996, p. 77. 148 Ivi, p. 63.

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appaiano propri soltanto di D’Annunzio; la coincidenza, se non letteraria del sintagma completo, di suoi costituenti facilmente memorizzabili (si veda la corrispondenza non tocche radure/non tocche verzure, dove poco importa la commutazione del sostantivo se resiste anche l’elemento suffissale)149

.

È soprattutto in Ossi di seppia che si scorge la maggior parte dei debiti lessicali nei confronti di D’Annunzio.

L’autore delle Laudi ha inoltre rappresentato un valido riferimento anche per il

«costituirsi della tecnica metrica montaliana»150. Dunque la critica novecentesca ha in

qualche modo sminuito il valore di Pascoli come antecedente della poesia di Montale,

preferendo D’Annunzio, la cui «opera rappresentò un punto di passaggio obbligato anche per la sua capacità di trasportare in sé i dati costitutivi del nuovo statuto

ideologico e culturale della decadenza europea, di cui seppe sviluppare talune

componenti fondamentali»151. Ha inoltre chiarito come la letteratura italiana

novecentesca non sia scaturita principalmente dalla lezione di Pascoli, come ha

sostenuto, al contrario, Pasolini. L’autore di Myricae ha sicuramente consegnato alla generazione successiva «una serie di riscontri di ordine sintattico, ritmico e metrico»152.

È ancora Mengaldo, tuttavia, a ricordare come le somiglianze «tecniche e lessicali [tra

Pascoli e i poeti successivi] non saranno sempre riprese dirette, ma potranno

presupporre degli intermediari. Così tutto un lessico umile e quotidiano introdotto da

Pascoli è già acclimatato, prima che nella lirica di Montale, nelle pagine dei

crepuscolari»153.

Tornando a Pasolini, abbiamo già avuto modo di osservare, scorrendo il capitolo La

poesia dialettale del Novecento, come l’impatto del poeta di San Mauro, sui poeti 149 Ivi, p. 37. 150 Ivi, p. 70. 151 Ivi, p. 80. 152 Ivi, p. 137. 153 Ivi, p. 140.

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dialettali meridionali, sia stato cospicuo, in particolare in regioni quali Molise e

Abruzzo. Una spiegazione del fenomeno è fornita dallo stesso Pasolini che, a proposito

dell’immissione della lingua parlata all’interno della tradizione poetica italiana, ricorda:

La realizzazione del Pascoli, che doveva essere di estrema importanza nella storia letteraria dell’italiano, doveva subire un arresto, contro il giudizio del Croce o il gusto rondiano […]. Tuttavia, involuta nella lingua, aveva trovato modo di progredire sotto la lingua, nel mondo dialettale, in diramazioni che hanno dato i dialettali pascoliani dal realismo napoletano escluso in poi [Ivi 265].

È ormai nota l’importanza dell’esperienza pascoliana nella letteratura novecentesca, ossia come egli sia riuscito ad attuare un abbassamento della lingua verso il parlato e a

dare risalto al sermo humilis. Pasolini, tuttavia, pur riconoscendo la portata

dell’operazione, non perde occasione per sottolineare come l’autore, con la mescolanza degli stili, non abbia attuato un ingrandimento del mondo, ma soltanto «una dilatazione

dell’io» [Ivi 295].