L’intransigenza pasoliniana tra gli anni Sessanta e Settanta
3.5. Mass media e perdita di individualità
Nonostante i ripensamenti sul Sessantotto, Pasolini è fermo circa la sua idea di un
disinteresse, da parte dei giovani, per la cultura; piuttosto che migliorarsi
intellettualmente, essi preferiscono abbruttirsi e soddisfare le proprie esigenze attraverso
dei surrogati della cultura. È quanto lamenta nell’articolo Droga e cultura, pubblicato nel dicembre del ’68. Secondo lo scrittore «chi si droga lo fa per riempire un vuoto che dà smarrimento e angoscia» [SPS 1168]. Questo vuoto è probabilmente determinato
dall’avvento di un nuovo tipo di società, incentrata non più sui valori etici e morali, ma sulla produzione e il consumo, una società alienante che induce alla perdita della
propria personalità. Infatti Pasolini ricorda come ognuno di noi faccia uso di droga,
«facendo cinema, altri stordendosi in altre attività. L’azione ha sempre una funzione di droga. Ciò che salva dalla droga è sempre una forma di sicurezza culturale» [ibidem].
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poter migliorare la propria condizione di vuoto esistenziale e per iniziare a lottare in
nome di una coscienza critica fondata.
Abbiamo visto come sono molti gli articoli, all’interno di entrambe le rubriche, in cui
lo scrittore delinea le caratteristiche poco democratiche della borghesia al governo, in
grado di privare ogni cittadino della propria personalità, costretto a seguire schemi e
modelli imposti dalle trame di un sistema che non è dato conoscere, e privato,
inconsapevolmente, della libertà di scelta. Sicuramente la televisione è quello strumento
mediatico di cui il Potere si serve per creare una massa omologata di cittadini ignoranti,
sui quali è più facile agire, anche con la forza, senza temere forme di resistenza. È
quanto Pasolini denuncia in uno scritto, sempre nel dicembre dello stesso anno,
Giornalisti, opinione e TV, in cui presenta la televisione come una «forma degradante
della comunicazione di massa» [Ivi 1164] gestita dal Potere, che così facendo «tiene in
soggezione l’ascoltatore» [Ivi 1165]. In risposta a un giornalista elenca gli elementi negativi del rapporto che si crea tra i telespettatori e la televisione:
Tra video e spettatore non c’è possibilità di dialogo […]. Non c’è niente da fare, il video consacra, dà autorità. Anche i personaggi comici, umili, stanno lì con l’aria di aver ricevuto una benevola manata sulla spalla da chi è più potente di loro […]. È un medium di massa: essa infatti, quale fonte di informazione centralistica, è manipolata per ragioni extra-culturali e la sua diffusione deve tener anticipatamente conto del bassissimo livello medio della cultura dei destinatari, a cui si asserve per asservirli […]. In realtà non si tiene conto di nessuna esigenza reale dei vari gruppi sociali di cittadini, ma si tiene conto di una media irreale. Così che la cultura televisiva è tipicamente alienante [ibidem].
Lo scopo della televisione è dunque quello di ipnotizzare gli spettatori con un tipo di
cultura povera di contenuti, una cultura di massa che miri esclusivamente ad abbassare
il livello culturale degli individui. Per questo è ritenuta strumento alienante, ed è per tale
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nelle trasmissioni televisive, nelle quali non c’è un reale ascolto critico, inoltre non è
richiesto un giudizio su quanto discusso.
Anche la stampa è un bersaglio tipico di Pasolini, in quanto strumentalizzata dalla
borghesia al governo, che gestisce e manipola la diffusione delle notizie. In un articolo
apparso su «Vie Nuove» nel maggio del ’62, Pasolini esprime il suo rammarico per il fatto che i suoi scritti subiscono la denigrazione della stampa borghese, che li priva della
loro originalità: «i miei romanzi e le mie poesia perdono a vista d’occhio il loro
significato per aggiunte o falsificazioni continue […]. I significati delle mie parole hanno una reale depressione espressiva […]. Siamo alle origini dell’epoca dell’alienazione industriale» [BB 204]. La polemica contro la stampa giornalistica, responsabile di intervenire e modificare gli articoli, continua, qualche anno dopo, anche
sul «Tempo». In occasione della festa delle matricole universitarie, per cui «i poliziotti
fanno loro largo, come quando passa il Papa» [SPS 1209], Pasolini ricorda una poesia
scritta l’anno prima sugli studenti, pubblicata su «Nuovi Argomenti» e in seguito sull’«Espresso», che si è avvalso della libertà di modificarne il titolo e parte del testo, cosicché la poesia è giunta alla massa studentesca col titolo Vi odio, cari studenti. Oltre
alla stampa, Pasolini denuncia la poca perspicacia dei giovani lettori, capaci soltanto di
«ricevere un prodotto letterario come si riceve un prodotto di massa, alienandolo dalla
sua natura, attraverso la più elementare semplificazione» [SPS 1209]. Pasolini lamenta
il fatto che i lettori abbiano considerato soltanto il passo in cui egli afferma di
simpatizzare per i poliziotti piuttosto che per gli studenti, senza capire realmente cosa
volesse intendere con quell’espressione. La maggior attenzione dello scrittore rivolta ai
poliziotti, figli di poveri, è data dalla consapevolezza che quegli individui non sono altro
che vittime dell’odio razziale causato dal potere; Pasolini ricorda infatti che «il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri, ha la possibilità anche di fare di questi
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Pasolini è deluso e preoccupato, dal momento che nessuno tra i lettori si sia soffermato
su una simile considerazione. Da quanto accaduto, egli ottiene la conferma del fatto che,
a parte qualche eccezione rappresentata dalle manifestazioni in città quali Trento, Pisa e
Firenze, i giovani studenti, contro cui polemizza, raffigurano una massa indistinta di
ignoranti borghesi, perfettamente omologati al sistema capitalistico, impegnati non nella
sua abolizione, bensì a conservarlo.