La critica degli anni Cinquanta: Passione e ideologia
2.7 La confusione nella prosa
La volontà di fare chiarezza sulla situazione letteraria italiana prosegue anche nel
capitolo La confusione degli stili, in cui, oltre alla prosa, oggetto di critica è ancora il neorealismo. Un’altra particolarità degna di nota è data dal fatto che Pasolini, in queste pagine, sottolinei nuovamente la relazione che intercorre tra letteratura, politica e
ideologia, facendo proprie le parole di Gramsci, secondo cui la questione della lingua
presuppone altri problemi, in particolare di ordine sociale.
Nelle prime pagine, egli si pone sulla scia gramsciana e si impegna a individuare gli
strati linguistici sopravvissuti nella letteratura novecentesca, ossia «una lingua media
conservata sotto il magma delle avanguardie, di tipo manzoniano […]; una koinè
175
MENGALDO 1987, p. 426.
103
generica, un parlato di formazione recente, […] la lingua dei giornali; una lingua di tipo verghiano» [Ivi 291].
Inizialmente lo scrittore si focalizza sul terzo tipo linguistico, quello veristico fatto
proprio dal neorealismo, che presentava tutti i presupposti per una produzione letteraria
popolare. In seguito ci rendiamo conto, però, di come Pasolini «adoperi la riflessione
gramsciana in funzione polemica nei confronti dell’innovatore neorealistico»177. Egli
infatti considera il neorealismo caratterizzato da una «tendenza anti-sperimentale [che
non lo rende] partecipe di nessun problema, di nessun dolore, di nessun dubbio» [PI
291]. L’attacco di Pasolini è rivolto soprattutto all’incapacità innovativa della corrente
letteraria, che «finisce sempre col riadottare un materiale linguistico superato» [ibidem].
Conseguenza principale di questo atteggiamento è quindi l’impiego, per una produzione letteraria nazional-popolare, «dell’italiano nato, dall’unità della nazione, come lingua
franca, koinè strumentale di uno stato ancora senza tradizione linguistica se non limitata
alle élites aristocratiche» [ibidem]. Pasolini non può accettare una soluzione simile, dal
momento che «per lui una nuova letteratura non può nascere con una vecchia lingua,
come cercavano di fare quei teorici del nazionalpopolare, i quali […] si adattavano a utilizzare un italiano limitato alle élites aristocratiche»178. Non riesce ad accettare che
l’italiano utilizzato per una produzione popolare sia quello parlato e creato dalla borghesia al potere. La lingua da utilizzare, quindi, doveva presentarsi quale prodotto
di una nuova cultura e, come abbiamo già osservato, di una nuova ideologia; lo scrittore
infatti non indugia a sottolineare che «un’innovazione letteraria dovrebbe presentarsi come atto politico contrario a queste tradizioni, quella delle élites dì avanguardia e
quella strumentale […]; niente collaborazione con quelle tradizioni» [PI 292]. Era
177
VOZA 2015, p. 249.
104
convinto che «l’istituzione linguistica, per poter essere radicalmente modificata, avesse bisogno di passare attraverso una catarsi ideologico-culturale»179.
Nonostante i presupposti espressi da Pasolini in ambito linguistico e quindi letterario
in prospettiva di un cambiamento, in queste pagine è possibile scorgere, oltreché il suo
schierarsi a favore del pensiero comunista, una sorta di insoddisfazione nei confronti di
Gramsci, dal momento che egli «non spiega quale dovrebbe essere la ricerca di uno scrittore che volesse calare in un’opera l’ideale nazional-popolare: egli si mantiene su una posizione oggettiva, possibilistica, con atteggiamenti di vera larghezza filologica»
[ibidem].
Nessuna soluzione sembra quindi possibile, «il fallimento starebbe soprattutto,
nell’ambito linguistico, nel mancato avvento di uno stile nazional-popolare»180 .
Pasolini non si arrende, piuttosto si sforza di far più luce possibile sul panorama
letterario primo novecentesco. Ricorre così nuovamente al concetto di bilinguismo, da
lui inteso come divaricazione tra la lingua parlata dal popolo e la lingua letteraria.
Anche in questo caso un concetto linguistico è associato a un fatto storico-politico: «il
bilinguismo si presenta come fenomeno contradditorio in una nazione che, storicamente appena uscita da una lotta per l’unità (nella fattispecie linguistica), tende ora socialmente a una unificazione delle classi, reale (il socialismo) o apparente (il
fascismo)» [Ivi 293].
Dopo essersi reso conto della complessità della situazione storica, politica e linguistica
italiana, Pasolini è sempre più convinto ad approfondirne gli aspetti; procede così all’analisi delle varie tendenze che coloravano lo scenario linguistico-letterario italiano. Egli, tuttavia, scopre con stupore, alcune anomalie, quali la presenza di istanze
179
Ivi, p. XVIII.
105
democratiche nel linguaggio d’élites, oppure elementi per nulla popolari in un linguaggio presentato come anticlassico.
Lo scrittore, infine, riesce a giungere a una conclusione, ritenendo che gli scrittori del
primo Novecento
assumendo a base di una evoluzione letteraria nazionale, una cultura cosmopolita come il decadentismo europeo, compivano una operazione aristocratica: ed è entro questo tipo linguistico, in un certo modo classico […] che si configura la produzione letteraria del primo Novecento italiano. Pur restandovi compresi, o accantonati, i tipi linguistici democratici del primo romanticismo e del realismo [Ivi 295].
A questo punto emerge, nuovamente, il nome di Pascoli, un vero e proprio punto di
riferimento all’interno di tutto il volume. Il poeta è citato in quanto promotore, alle soglie del Novecento, di un abbassamento linguistico verso il parlato nell’ambito della poesia. Pasolini, tuttavia, non perde occasione per far luce circa la mescolanza stilistica
del poeta:
Strana è la mescolanza degli stili in Pascoli, se pur prevale in lui e conta, il sermo humilis […], parlando del Pascoli, le sue tendenze (che giustapponevano, anziché mescolare gli stili) erano un’estrema remora di classicismo che si mescolava a un’ irrazionale inventività romantica; ma in definitiva, l’abbassamento linguistico ottenuto, non era che una dilatazione dell’io e tendeva a costituire una nuova forma di fissazione [Ivi 295].
Pasolini si convince così dell’esistenza, all’inizio del Novecento, di una letteratura
classica che nasconde, dietro di sé, tracce romantiche e come questa «contraddittorietà
implichi, la più ardua confusione ideologica e politica, insieme che letteraria» [Ivi 296].
Allo scrittore non resta che informare i lettori della situazione linguistica e letteraria che
si profila a inizio secolo, per cui parla della «formazione di una lingua letteraria che […] tende a innovazioni restauratrici di un nuovo tipo di classicismo, incanalando in questa tendenza sia il sopravvivente realismo […] sia il sermo humilis pascoliano»
106
[ibidem]. La particolarità è la compresenza, in essa, della lingua poetica e di quella
prosastica; il risultato è dato non da un «abbassamento della poesia, ma da un
innalzamento della prosa» [ibidem] al livello della poesia.
Qualcosa, tuttavia, sembra cambiare: Segre parla di una svolta «di cui l’autore comincia a sentirsi e sarà più tardi, corresponsabile all’epoca di questi saggi, ossia di un abbassamento [della poesia] al livello della prosa, del razionale»181.
Infatti, proseguendo la lettura del capitolo, è possibile scorgere i limiti che Pasolini
addita a questa lingua letteraria, che appare
ristretta rispetto all’area dell’esprimibile, dell’oggettivo e dello storico. Si era prodotta una rigorosa selezione linguistica, per cui le parole usate nel loro semantema storico erano tabù prosaiche, dato l’adattamento di tutta la lingua alla poesia. Quindi dilatazione del semantema a un fine che in apparenza era espressionistico, mentre in realtà si trattava di un espressionismo retorico, internamente classicistico [PI 296].
Egli così avanza anche la possibilità di una seconda tendenza letteraria, opposta alla
precedente e «regressiva rispetto alle su descritte innovazioni novecentesche […]; tale
corrente portava a una sincronia ottenuta in senso contrario, con l’adattamento di tutta la poesia alla prosa. Ne conseguiva un allargamento linguistico capace di contenere un
nuovo orizzonte storico e politico» [ibidem]. Le particolarità di questa lingua, che ha
trovato ampia diffusione durante il secolo scorso, sono «l’antiretorica e la mescolanza degli stili, oltre alla riscoperta […] del concreto-sensibile» [Ivi 298].
A questo punto Pasolini riprende il discorso sul neorealismo, in modo da chiarire la
sua posizione nei confronti di questa corrente letteraria postbellica. In un primo
momento lo scrittore ne evidenzia i meriti, in quanto capace di «instaurare subito alcuni
stilemi per rappresentare ai sensi questa realtà» [ibidem], ulteriormente concretizzata
attraverso il cinema. Procede poi con una sintesi del quadro storico degli anni Quaranta,
181 Ibidem.
107
dominati da una ideologia di tipo socialistico che avrebbe comportato nuove istituzioni linguistiche: permane ancora l’idea di un rapporto di subordinazione reciproca tra lingua e politica.
In realtà la concomitanza tra nuove scelte stilistiche e socialismo non ha dato esiti
positivi, per quanto concerne la produzione letteraria; infatti lo stesso Pasolini ricorda
come «la nuova instaurazione stilistica verso uno stile nazional-popolare si sia presentata come un’utopia» [Ivi 299]. Lo scrittore, pur condividendo alcune istanze neorealistiche, prende le distanze dalla corrente, dal momento che scorge, al suo
interno, «oltre all’aristocratico populismo […] tracce rondiste ed ermetiche» [ibidem]. Risulta così evidente la polemica pasoliniana contro gli «stilemi istituzionalizzati dal
neorealismo, considerati appendici del conformismo della cultura borghese
novecentista»182.
Dal quadro linguistico-letterario delineato, Pasolini è costretto ad accettare la sconfitta,
«corrispondente a quella degli ideali resistenziali, al soffocamento della sperata palingenesi sociale […]. Anche i marxisti parteciperebbero di tale fallimento, per i loro sospetti verso il plurilinguismo, la loro preferenza per la lingua di koinè»183. A riguardo
si è espresso ancora Mengaldo, secondo il quale
nel matrimonio tra sinistra ufficiale e neo-realismo covavano le premesse del divorzio [perché] la politica linguistica e culturale del marxismo ortodosso e, all’origine di essa, il progetto politico della sinistra di un’alleanza coi ceti borghesi, comportavano diffidenze verso le tendenze particolaristiche, umili [ ] che l’animus neo-realistico conteneva in sé184
.
Le parole pronunciate da Cesare Segre, a proposito delle difficoltà di Pasolini a
interpretare il panorama letterario novecentesco, sono un ottimo strumento
chiarificatore: 182 VIGHI 2000, p. 238. 183 SEGRE 1985, p. XX. 184 MENGALDO 1987, p. 458.
108
Se nei primi due capitoli Pasolini è al massimo della sua capacità di sistemazione del passato remoto e prossimo, in questo mostra il massimo dello sforzo di interpretare il presente. Lo scacco dipende dalla maggior complessità del panorama della prosa rispetto a quello della poesia in decenni di grossa trasformazione linguistica […], dalla mancanza di una scelta decisa tra interpretazione storica e impegno militante, tra ideologia e passione185.