• Non ci sono risultati.

Giustificazioni per una poesia dialettale e popolare italiana

La critica degli anni Cinquanta: Passione e ideologia

2.3. Giustificazioni per una poesia dialettale e popolare italiana

I primi due capitoli della raccolta, La poesia dialettale del Novecento e La poesia

popolare italiana, sono stati ideati come prefazioni a due volumi antologici, Antologia della poesia dialettale del Novecento che risale al ’52, data d’esordio della nuova fase

critica pasoliniana, scaturita dall’incontro con Gramsci e dagli studi linguistici e

stilistici, e Il Canzoniere italiano, del ’55.

Entrambi i saggi permettono al poeta-critico di delineare un quadro storico-geografico,

oltreché linguistico, dell’Italia tra Ottocento e Novecento. La suddivisione della penisola in regioni consente a Pasolini un proficuo studio filologico delle diverse

parlate, quindi delle differenze di mentalità e di costume tra le zone settentrionali,

centrali e meridionali; inoltre egli sottolinea come le diversità linguistiche regionali abbiano, da sempre, giocato un ruolo negativo per l’unità e la coesione politica del paese.

Il primo capitolo, come si evince dal titolo, è consacrato alla storia della lirica

dialettale del Novecento; tuttavia, in esso sono presenti «anche materiali per una ben

diversa realizzazione letteraria del dialetto»112. Infatti, intento principale dello scrittore è

quello di presentare questo excursus come dichiarazione poetica di una nuova poesia in

dialetto, che non abbia nulla da invidiare alla tradizione poetica letteraria; è lo stesso

Pasolini ad affermare che «i dialetti posseggono una tradizione non meno colta di quella

della lingua» [PI 6]. In proposito, è ancora Asor Rosa a ricordare che nel capitolo

primo,

l’attenzione al dialetto occupa tanta parte. Ma non tanto o non soltanto, come si crede, quale effetto di una esigenza di riproduzione fedelmente mimetica di quella parte della realtà italiana di cui l’imperfetta koinè nazionale non avrebbe potuto dare una rappresentazione veritiera. La

112 SEGRE 1985, p. XI.

65

riflessione pasoliniana sul dialetto ha inteso mettere in rilievo soprattutto le autonome capacità espressive di questi rami bassi della lingua113.

Pasolini risulta essere interessato soprattutto al dialetto di quelle zone marginali

d’Italia in cui, secondo l’esempio del friulano di Casarsa, è possibile scorgere quei caratteri di estrema arcaicità della lingua.

Uno dei tratti originali di questo saggio è quello di iniziare l’analisi linguistica dal Sud

per proseguire verso il nord,«isolare Roma dal resto del Reame e Milano dal resto del Nord […], separare il Friuli dal resto della penisola»114

. Emblematico il fatto che il

capitolo si concluda con il Friuli, posto al vertice di questa sintesi storico-letteraria,

cosicché lo stesso Pasolini possa elevare la propria produzione in dialetto a poesia

nuova e diversa.

Così il punto di partenza è l’Italia meridionale, la Campania in particolare, con il Di

Giacomo di Luigi Russo, il quale si era prefissato di delineare la storia della letteratura

dialettale in rapporto a quella in lingua italiana, polemizzando contro quest’ultima, «se dei grandi scrittori dell’ultimo Ottocento si salvavano quelli più popolari: non c’è per Verga bisogno di dimostrarlo; per il Pascoli nemmeno» [PI 5].

Proseguendo la lettura delle primissime pagine, ci imbattiamo nel concetto di

bilinguismo, che abbiamo visto essere stato illuminante per il metodo analitico di

Pasolini. Il termine è qui utilizzato dallo scrittore per descrivere l’andamento stilistico- letterario dei poeti cosiddetti minori, che tuttavia lui stesso giudica «più ricchi e veri, questi Carducci, D’Annunzio, Pascoli e Verga provinciali» [PI 6]; essi si oppongono al monolinguismo con una reazione antitradizionale a antiaccademica.

È bene ricordare che il concetto di bilinguismo è introdotto, come rammenta Cesare

Segre «non tanto per contrapporre lingua e dialetto, quanto piuttosto due strati della

113

ASOR ROSA 2009, p. XIV.

66

lingua»115; in queste pagine il termine affiora nell’accezione promossa da Gianfranco Contini, ossia bilinguismo inteso in opposizione al monolinguismo, in modo da

distinguere e caratterizzare rispettivamente la poesia dantesca, plurilingue e quella

petrarchesca, monolingue.

Pasolini prende spunto dalla definizione continiana di bilinguismo, per poi elaborare

una personale concezione e «abbozza uno schema dove all’affermazione del bilinguismo segue una specializzazione letteraria dello strato alto, poi una discesa di

questa lingua speciale verso lo strato basso, conservatore e l’assimilazione delle attitudini psicologiche ed estetiche di questo strato»116. Per lo scrittore infatti il concetto di bilinguismo è da intendere come opposizione tra lingua letteraria e lingua d’uso quotidiano, mentre «raccoglie sotto l’etichetta del monolinguismo la lingua della tradizione poetica più codificata»117.

All’interno di questo excursus non è difficile imbattersi nell’opposizione tra lingua parlata dal popolo e la lingua letteraria; basti guardare alla città di Roma, in cui

coesistono il filone della poesia dialettale, popolare e veristica, inaugurato dal poeta

Belli, e quello iniziato da Trilussa, che, forte della sua appartenenza alla piccola

borghesia, sarà artefice di una poesia diversa, dato che egli «non hai mai scritto del

popolo, né per il popolo» [PI 55].

È così che risulta possibile individuare, nel bilinguismo linguistico, un’allusione alle

distinzioni di classe: chi appartiene alla piccola o media borghesia, difficilmente

utilizzerà una parlata caratterizzata da termini dialettali o popolari; al contrario si servirà

di una lingua strumentale, intesa come koinè nazionale, «un parlato di recente

formazione in quanto parlato, come lingua dei rapporti pratici interregionali» [PI 290].

115 Ivi, p. XXIII. 116 SEGRE 1985, p. VI. 117 Ivi, p. VIII.

67

È notevole ciò che Asor Rosa ha riferito circa la correlazione tra l’istanza linguistica e quella storico-sociale, dal momento che rivela quelle che sono le reali intenzioni dello

scrittore, e così argomenta:

I saggi di Passione e ideologia ci fanno capire che per [Pasolini] la questione della lingua è assai più che un problema di stile inteso in senso calligrafico e letterario. Quando egli individua nella situazione italiana presente una rinascita di bilinguismo, egli descrive con gli strumenti propri dell’analisi linguistica una condizione peculiare, storica della nazione italiana nel suo complesso, e cioè la sua imperfetta e manchevole unità politica, le crepe sociali non mai rimarginate […]. Il bilinguismo dunque prima che una teoria è un dato di fatto ed esplicita un trauma storico e sociale che fa dell’Italia e della sua borghesia qualcosa di diverso da tutte le altre nazioni e borghesie europee moderne118.

Siamo ancora negli anni Cinquanta ma Pasolini inizia a maturare, seppur ancora a uno

stato potenziale, quei sentimenti di ostilità nei confronti della borghesia al potere,

borghesia liberale, «la cui vita democratica non ha potuto che essere artificiosa per il

fatto che in Italia essa non ha avuto le premesse storiche che invece erano state in

Francia (Gramsci); della borghesia che ha dato il fascismo» [PI 292].

Franco Fortini, parafrasando le parole di Gramsci, ricorda come «la debolezza della borghesia nazionale, l’incapacità a prendere coscienza di sé, abbia favorito la scissione tra letteratura d’avanguardia e letteratura regionale»119

.

È indubitabile che, dietro questi pensieri di Pasolini, vi sia l’avvicinamento a Gramsci e

al marxismo, due eventi che, come abbiamo avuto già modo di osservare, hanno influito

sul tipo di atteggiamento assunto dallo scrittore nei confronti della società; da un lato vi è, da parte sua, l’accettazione dei migliori risultati raggiunti dalla borghesia negli anni

118

ASOR ROSA 2009, p. XIII.

68

addietro, ma dall’altro vi è una forte speranza, illusoria, «che sia imminente un’affermazione delle teorie marxiste e, nella vita civile, delle classi popolari»120

.

Tornando alla Campania, a Napoli, Pasolini inizia la rassegna dei poeti dialettali di

fine Ottocento che maggiormente hanno influito anche sulla successiva produzione

lirica; grande spazio è riservato a Di Giacomo, al suo lirismo che manca di una realtà

oggettiva, presupposto essenziale per una poesia realistica. Ma la giustificazione per la

sua poesia la fornisce Pasolini affermando che

la convenzionalità del canto dialettale, che si differenziava dalla lingua per una sua polemica minore contro di essa, e anche per una implicita coscienza della inferiorità delle proprie ragioni (riscattata dalla sua libertà nel trattare contenuti prosaici, banali, ironici) era una giusta misura iniziale per il Di Giacomo [PI 8].

Per quanto riguarda il valore d’uso del dialetto, Mengaldo tende a sottolineare come «accanto a una dialettalità adibita a esigenze di rappresentazione realistica […], l’uso

del dialetto inteso come strumento letterariamente più vergine si potrà coniugare a una

ricerca decadente di poesia pura o a una volontà di ritorno alle origini»121.

La poesia di Di Giacomo si caratterizza, tuttavia, per un realismo venato di fantasia,

tanto da considerare «i suoi libri fasi non di una evoluzione, ma di un affinamento

lirico» [PI 12].

Altro poeta dialettale napoletano illustre è stato Ferdinando Russo, il cui

atteggiamento poetico si caratterizza per un realismo che tende alla rappresentazione

piuttosto che al commentare cantando, tipico invece del Di Giacomo; infatti «a questo

suo immergere la realtà in una musicalità canzonettistica è da imputare l’inattuazione

del suo realismo» [PI 8].

120

SEGRE 1999, p. XXV.

69

Sulla scia del Russo si riconosce un’altra figura di rilievo, Giovanni Capurro, che ben si inserisce nel clima popolaresco; lo stesso Pasolini ricorda come egli sia «dotato di una

vigoria linguistica naturale, un’eredità rivelante una nascita plebea, impressa nella sua

personalità» [ibidem].

Per una sintesi della storia dialettale napoletana le linee guida sono dunque Di Giacomo

e Russo, tanto diversi nell’esporre i contenuti, ma anche tanto prossimi perché «legati in un comune premondo napoletano» [PI 19].

Ciò che caratterizza la poesia di Russo è la sua vicinanza a Verga, data la sua

inclinazione a regredire all’interno del parlante, in modo da rendere il più realistico possibile il mondo popolare, dipinto grazie e soprattutto «alla maniaca congestione di

particolari che finisce per avere le migliori qualità di una vera ricerca […]; il gergo, considerato dalla critica come contingente documentario, diviene un modo funzionale di

potenza espressiva» [PI 22].

Dalla Campania si passa alla Sicilia, patria di Giovanni Verga, alla poesia dialettale propria dei poeti Di Giovanni e Vann’Antò, contraddistinta da orgoglio regionale e da un sentimento umanitaristico di tipo socialistico.

Pasolini si impegna a consegnare, a noi lettori, un quadro esaustivo circa la produzione

poetica di Di Giovanni, il cui realismo si discosta da quello puntiglioso e fotografico di

Ferdinando Russo; riguardo il suo metodo rappresentativo della realtà, egli riferisce che

Di Giovanni usa i metodi realistici fuori dalla chiarezza oggettiva e preordinata della cronaca e fuori dalle contrazioni dialogiche degli pseudo-realismi digiacomiani: egli ne fa un pretesto per una rappresentazione di vita popolare ma lasciata al suo mistero, irriducibile a una compartecipazione. Se anche lui si cala nel suo parlante, lo fa spinto da una passione linguistica tanto più violenta […]. Non ritorna dentro il vecchio parlante nel suo naturale meccanismo linguistico, padrone di tutta la realtà, con una mera ambizione di cronaca: ma con l’ingenua violenza di chi vi cerchi una ingenuità verbale quasi sacra. [Ivi 25].

70

Di Vann’Antò Pasolini ricorda come la sua poesia dialettale non sia permeata dal

realismo, tipico della lirica di Di Giovanni, anche se «resta la sottintesa aspirazione a

una poesia popolare in quanto dedicata al popolo siciliano, alla sua vita contadina» [Ivi

28]. Di questo poeta, tuttavia, è bene sottolineare la sua vicinanza a quella seconda

generazione pascoliana di dialettali, come dimostra la raffigurazione «del suo mondo

georgico assimilato a quello dei Canti di Castelvecchio» [Ivi 29].

Dopo la Sicilia si passa all’altra isola italiana, la Sardegna, promotrice dell’autonomia

regionale, verso la quale Pasolini non indugia ad assumere toni polemici; egli infatti non

accetta le autonomie regionali perché ne conosce il carattere reazionario e «coglie nei

poeti che si staccano dalla produzione dialettale di routine, le tracce di situazioni sociali

locali e personali»122.

Prosegue l’analisi linguistica delle regioni, attraverso la Calabria si passa in Puglia,

dove si intravedono altri segnali di una influenza pascoliana all’interno della tradizione poetica dialettale. Ci riferiamo alla poesia di Antonio Nitti che, con le sue Liriche

dialettali, si inserisce in una dimensione italiana e, secondo il nostro scrittore, egli

mostra «una maggiore capacità di riflessione sul proprio ambiente, su una Bari guardata

e di cui rimane impresso qualche aspetto locale» [PI 38]. Pasolini trova una

giustificazione per l’inserimento della poesia dialettale all’interno della tradizione letteraria, grazie alla mediazione del Pascoli, a quel suo influsso che «nel Novecento si

è realizzato nei dialetti, là dove nella lingua si era interrotto per cedere il passo a

movimenti letterari anti-tradizionalisti analoghi ma più forti e alle reazioni letterarie della Ronda e dell’ermetismo»[PI 39].

122 SEGRE 1985, p. IX.

71

Ho già fatto cenno al fatto che le città di Roma e Milano costituiscono un caso a parte,

in modo da «istituire un asse Porta-Belli che violenta la geografia a vantaggio della

storia»123.

A proposito del poeta dialettale, Pasolini rammenta come «la sua più grande ambizione

sia quella di annullarsi nell’anonimia, farsi inconscio demiurgo di un genio popolare della sua città, portavoce di un’assoluta allegria locale» [PI 49]. Soltanto il poeta

romano Belli, attraverso la regressione nel parlante, è riuscito a dare una

rappresentazione della realtà romana, una «documentazione degli ultimi giorni di

un’epoca anteriore alla nostra […]; di una società la cui immagine riusciamo a formulare solo attraverso uno sforzo di fantasia» [PI 50].

Al contrario, Trilussa «non regredisce nell’uomo del popolo: egli resta nel romanesco parlato dalla sua classe sociale che è la piccola-borghesia»[PI 53].

Il diverso atteggiamento dei due poeti romani nei confronti del popolo rispecchia la loro

diversa appartenenza di classe. Inoltre, la distanza temporale tra i due è ampia, e lo

stesso Pasolini ricorda che

la vita popolare inquieta [è quella] che il Belli ritrae con assoluta fedeltà alla lingua. Scomparso questo mondo, giunta la borghesia al potere e consolidatasi, spostata la morale corrente, nazionale, dalla Chiesa al laicismo, comincia nei parlanti una nuova storia che va compresa sotto il titolo di rivoluzione sociale; ma i poeti romani ignorano questa evoluzione degli strati bassi cantati dal Belli, immersi a partecipare alla sistemazione ideologica della nuova classe dirigente di cui fanno parte [PI 53].

La critica pasoliniana che emerge in questo passo intende mostrare come i tempi siano

cambiati e la storia sia progredita; se prima fare poesia significava dare una voce al

popolo, inteso come emblema della collettività, dunque regredire nel parlante per

adottarne il linguaggio familiare, ora per fare della buona poesia è necessario servirsi

123 SEGRE 1999, p. XXII.

72

della lingua strumentale propria della classe borghese al potere, adatta all’espressione del rigoroso moralismo, arido e pratico, di quell’ambiente.

Ma colui che, comportandosi da mediatore tra la lingua del poeta Belli e la parlata

romanesca piccolo-borghese, ha dato inizio a una nuova poetica dialettale è stato il

poeta romano Dell’Arco, «per cui il dialetto si fa un mezzo d’espressione in certo modo più raffinato della lingua, attraverso cui esprimere contenuti puramente lirici» [PI 60].

Ecco che la parlata dialettale assume una nuova fisionomia, atta alla creazione di una

poesia nuova.

Pasolini prosegue l’analisi linguistica risalendo la penisola, giungendo così alle

regioni settentrionali; in Piemonte incontriamo il poeta Pacotto, che «si colloca nel

margine tra la poesia dialettale popolare e la poesia dialettale che potrebbe essere

chiamata pascoliana» [PI 75]. Inizia così a delinearsi un distacco, da parte dei poeti, dal

dialetto popolare, dunque veristico, proprio del Belli, in favore di un innalzamento della

poesia dialettale.

Lo scrittore fornisce una presentazione del poeta piemontese e della sua produzione

poetica, cercando di rendere esplicito il motivo della raffinatezza della sua poesia:

In Pacot il distacco dalla poesia dialettale popolare comincia a farsi cosciente, a essere una poetica. Ma la stessa ubicazione geografica del Piemonte veniva a aggiungere a questa prima forma di squisitezza altre suggestioni: a differenza che in un cittadina dell’Abruzzo, a Torino vive una cultura universitaria, europea, e d’altra parte non vi ha forza una tradizione autonoma come a Roma e a Milano che a quella cultura isoli […]. La squisitezza [di questa poesia] consiste nella scelta di motivi intimisti, nel paesaggismo sfumato in allegorie un po’ liberty [PI 75].

In Liguria troviamo Firpo, un poeta che come altri dialettali «si compiace della libertà di usare il dialetto con una dignità pari a quella dell’italiano letterario» [PI 78].

73

Il capitolo si conclude col Friuli, in modo tale che lo scrittore possa porsi come

simbolo e modello di una nuova poesia dialettale, avvalendosi del fatto che «la

fisionomia di questa parlata [è] così acremente estranea ai dialetti italiani, ma così piena

di dolcezza italiana, incorporata dalla sua arcaicità a dati naturali, quasi che fosse una

cosa sola con l’odore del fumo dei focolari» [PI 108]. Soltanto qualche pagina dopo, egli prosegue con la mitizzazione della parlata friulana affermando che «il friulano non

è un dialetto dell’italiano, infatti permette un distacco dai colorismi del vernacolo; ha

una pronuncia potenzialmente letteraria» [PI 112].

Gli obiettivi di Pasolini, in questo primo capitolo sono, in definitiva, due.

Ripercorrere la storia della poesia dialettale otto-novecentesca gli ha permesso di

elaborare un vero e proprio manifesto di poetica per una nuova poesia, per innalzare la

parlata dialettale a strumento finalizzato a esprimere contenuti lirici. Ecco così chiarito

anche il motivo per cui intraprende l’analisi linguistica dal sud Italia: come abbiamo

potuto osservare, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nelle regioni meridionali, il dialetto in poesia veniva utilizzato per regredire nel mondo contadino-

popolare e rifletterne la voce; si trattava di un uso mimetico, verista della lingua, sul

modello di Verga. È lo stesso atteggiamento di Pasolini, che si è «immerso nel non suo

ma materno dialetto friulano a cercarvi e trovarvi una verginità espressiva e

un’alternativa ed evasione dalla strada maestra della lirica novecentesca»124 .

Risalendo la penisola, è stato possibile notare come i poeti iniziassero a utilizzare il

dialetto in modo cosciente, a sfruttarne la libertà d’uso con una dignità pari a quella dell’italiano letterario. Emblematico il caso del parmigiano Pezzani, poeta appartenente «alla fase moderna della letteratura dialettale, essendo in lui l’uso del dialetto [finalizzato al] ritorno in un mondo dialettale più ai margini della lingua che nel cuore

del popolo» [PI 87].

124 MENGALDO 1987, p. 441.

74

Altro esempio è fornito dal poeta romagnolo Tonino Guerra, il cui realismo è

«autenticato da una ben definita coscienza politica» [PI 90]; siamo al termine degli anni

Quaranta e Pasolini inizia a rendersi conto delle difficoltà che l’uso del dialetto implica, nel momento in cui «l’italiano che non era mai stato una lingua strumentale ma solo istituzionale e letteraria, comincia a essere una lingua parlata» [PI 92]. Tuttavia lo

scrittore, per giustificarne l’utilizzo e per favorire la produzione di una poesia nuova, ricorda che «la più profonda analisi del fenomeno dialettale ne rivela gli elementi

raffinati o, perlomeno, una sua raffinatezza polemica contro la lingua» [Ivi].

Il secondo obiettivo di Pasolini è quello di osservare le trasformazioni che

attraversarono la nazione durante gli anni Cinquanta, attraverso un’analisi filologico-

linguistica delle diverse parlate dialettali.

È stato già riscontrato come per il nostro scrittore lo studio di un determinato fenomeno

linguistico possa riservare una critica socio-politica; il concetto di bilinguismo ne è un

esempio: il divario e allo stesso tempo la coesistenza di una lingua strumentale, tipica

della classe borghese e di una parlata popolare, propria delle classi meno agiate,

rispecchia la non ancora raggiunta unità politica italiana, indebolita dall’antidemocraticità fascista.

Ritroviamo un altro esempio di subordinazione tra un fatto politico e uno linguistico in

riferimento all’occasione perduta, da parte della poesia dialettale, per una polemica politica durante il regime, un valido supporto per l’antifascismo letterario, che in quegli

anni aveva come protagonisti noti poeti e narratori. Infatti lo stesso Pasolini ricorda come «la polemica contro l’accentramento dello Stato fascista [avrebbe conciso] con la polemica contro il centralismo linguistico, l’unità linguistica e quindi la tradizione» [Ivi].

75

Questa sorta di coordinazione tra l’analisi linguistica di un dato fenomeno e la conseguente applicazione del risultato all’ambito sociale si può dire rappresenti il fine pratico del volume.

Infatti il secondo capitolo non è esente da tale metodo d’indagine. Protagonista è la poesia popolare, di cui si tenta di ricostruire le origini storiche, geografiche e poetiche.

Ma, come vedremo, dall’ambito linguistico, attraverso le ricerche demopsicologiche, si arriverà a quello socio-politico, per cui la poesia popolare sarà intesa come il prodotto