• Non ci sono risultati.

L’UOMO VITRUVIANO E LA NEUE SACHLICHKEIT

III.6 Antica soggettività

Alcuni termini sono ricorsi spesso in queste righe; in alcuni casi come sino- nimi, in altri per definire posizioni contrastanti. “Canone” indicava per gli umanisti le proporzioni armoniose della figura umana da riprodurre in archi- tettura, ma per Henry van de Velde significava la rigida tipizzazione auspicata da Muthesius. “Principio” veniva tanto utilizzato da Wittkover per mostrare le caratteristiche dell’architettura rinascimentale, quanto da Johnson e Hitchcock per definire quelle dello “Stile Internazionale”, ma anche da Francesco Mi- lizia a proposito delle indicazioni pratiche contenute nel suo compendio[55];

per quanto contenga l’idea di qualcosa che sta in origine, “principio” è stato poi spesso utilizzato per descrivere le avanguardie. “Standard”, invece, è stato utilizzato con accezione positiva, ad esempio, da Le Corbusier, tanto come sinonimo della téchne degli antichi autori del Partenone, quanto della tecnica industriale utilizzata per produrre un’automobile, mentre con accezione nega- tiva dai detrattori dell’idea di produzione industriale in serie[56]. Si potrebbero

fare ulteriori esempi, coinvolgendo altri autori e sicuramente anche altri ter- mini ricorrenti; parole evocative e allo stesso tempo dal significato variabi- le, ma sempre fortemente autorevoli. Chi si affidava ad esse per motivare la propria opera lo faceva sempre con l’intento di risultarne legittimato. Parole che appartengono alla collettività perché indicano e definiscono proprio la dimensione collettiva, e che quindi in qualche modo sollevano il singolo dalla responsabilità della scelta e inseriscono la sua peculiare “verità” all’interno di una più vasta e condivisa apparentemente universale e/o oggettiva.

Ma in che cosa consiste (se esiste) la differenza tra le parole “standard”, “canone” e “principio”? L’uomo vitruviano, in fondo, è tanto principio quanto standard o canone; ma è anche semplicemente un’idea quindi qualcosa di estremamen- te meno definito dei possibili significati attribuibili a queste tre parole. L’idea di Sachlichkeit si potrebbe definire a ragione con ciascuno di questi termini, ma in realtà nessuno di essi ne potrebbe garantire una definizione esaustiva; anche i precetti Beaux-Arts, o ancora le differenti manifestazioni scolastiche dell’ “Architettura degli stili” si potrebbero descrivere con le stesse parole. Così

[55] Francesco Milizia, Principii, 1781, cit. a capitolo II, nota 46 [56] Le Corbusier, Vers une Architecture, 1923

anche il moderno “Anti-Formalismo” si basa su uno standard stabilito dalla misurazione scientifica della necessità, che è anche canone e principio. Gli autori tradizionalisti trovavano il canone nel proprio uomo ideale, così come in fondo lo ricercavano anche gli avanguardisti moderni. Al di là dei significati particolari che queste parole assumono quando vengono utilizza- te per sostenere o screditare posizioni teoriche, permane l’idea che sia im- prescindibile avere un terreno comune sul quale accordarsi o scontrarsi; che debba esistere cioè una convenzione interpretativa all’interno della quale col- locare necessariamente l’architettura. Le idee di canone, principio o standard assolvono esattamente a questa necessità, dimostrando di fatto che l’opera di architettura, per quanto almeno dal Rinascimento firmata dal proprio autore, è sempre collettiva. L’opera d’arte, diceva Jacques Derrida, per essere tale ha sempre bisogno della firma del proprio autore, ma anche della controfirma dei propri spettatori che la “riconoscono” in quanto tale[57].L’idea di cano-

ne potrebbe essere, come esempio paradigmatico, esattamente quell’elemen- to culturale che garantisce riconoscimento e comprensibilità. Senza questa idea, o altre che si sostituiscono ad essa ma svolgono lo stesso ruolo, non ci sarebbe architettura. Più che normare le forme, il canone è ciò che stabilisce i significati delle differenti parole che costituiscono il vocabolario del discorso architettonico. E studiando la permanenza di queste idee come fossero degli efficaci sistemi mitologici non ci si dovrebbe dunque sorprendere della mol- teplicità dei possibili significati e, quindi, di differenti professioni di fede in altrettante verità.

Diceva acutamente Paul Veyne che, quando si parla di verità, l’unica costante davvero universale è che esistano verità contraddittorie, tanto in uno stesso animo, quanto a maggior ragione in quello di una comunità, e che queste arbi- trarie verità siano sempre in qualche modo “interessate”. «Tutti i popoli danno una spintarella ai loro oracoli o ai loro indici statistici per farsi confermare ciò che desiderano credere» diceva ancora Veyne, e aggiungeva poi qualche riga dopo «Se qualcosa merita il nome di ideologia questa è proprio la verità»[58].

Paul Veyne parla di differenti “programmi di verità” all’interno dei quali si possono inscrivere le credenze che fondano ed animano l’esistenza delle so- cietà umane e li paragona a dei palazzi. Per evidenziarne la mutevolezza e la

[57] Francesco Vitale (a cura di) Jacques Derrida. Adesso l’achitettura, Libri Scheiwiller, Milano 2008 [58] Paul Veyne, Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes?, Ibid., pp. 149, pp. 195

transitorietà ricorre poi ad una metafora particolarmente emblematica, che nel nostro caso sembra descrivere, questa volta non metaforicamente, le vi- cende raccontate in queste pagine: «Nessuno di questi palazzi, infine, è opera di un discepolo dell’architettura funzionale; o meglio non vi sarà niente di più mutevole della concezione che gli architetti successivi si faranno della raziona- lità e non vi sarà niente di più immutabile dell’illusione secondo la quale ogni palazzo sarà ritenuto adeguato alla realtà; si prenderà infatti ogni dato di fatto come verità oggettiva. L’illusione di verità farà sì che ogni palazzo sembrerà rientrare pienamente entro i limiti della ragione»[59].