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Il mito non si può spiegare

L’ARCHITETTURA SI DEVE ‘FARE COME’

VI.1 Il mito non si può spiegare

Scrive Aldo Rossi Introducendo l’ “Architettura della città”: «I miti vanno e vengono passando poco per volta da un luogo all’altro. Ogni generazione li racconta in modo diverso e aggiunge al patrimonio ricevuto dal passato ele- menti nuovi. Ma dietro a questa realtà che muta da un’epoca all’altra vi è una realtà permanente che in certo qual modo riesce a sottrarsi all’azione del tem- po. In essa dobbiamo riconoscere il vero elemento portatore della tradizione religiosa. Le relazioni in cui l’uomo si viene a trovare con gli dei della città antica, il culto che egli consacra loro, i nomi sotto i quali li invoca, i doni e i sacrifici che deve loro sono tutte cose legate a norme inviolabili. Su di esse il singolo non ha alcun potere. Io credo che l’importanza del rito e la sua natura collettiva, il suo carattere essenziale di elemento conservatore del mito, co- stituiscano una chiave per la comprensione del valore dei monumenti e per noi del valore della fondazione della città e della trasmissione delle idee nella realtà urbana. [...] Poiché se il rito è l’elemento permanente e conservativo del mito, lo è anche il monumento il quale, nel momento stesso che testimonia il

[1] Michel Foucault, Che cos’è l’illuminismo, in Archivio Foucault, vol III, 1978-1985, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 261

mito, ne rende possibili le forme rituali»[2].

Rossi sottolinea efficacemente alcune delle caratteristiche fondamentali dei miti. Si tratta di racconti che si riferiscono a idee universali, ma a cui ogni generazione aggiunge elementi particolari e contingenti: elementi di continuo dialogo tra natura e cultura. Rossi trova il senso della tradizione nell’idea di una costante rielaborazione dell’archetipo, in un’accezione secondo la quale la tradizione, come il mito, si trova in uno stato di continua evoluzione. L’idea di mito, come quella di tradizione, si riferisce all’autorevolezza di qualcosa che sta in origine, ma allo stesso tempo, nella loro autentica definizione, non escludono possibili reinterpretazioni, riformulazioni o numerose e contrad- dittorie versioni, anche se tanto la tradizione quanto il mito, nel momento in cui vengono praticati e creduti da una comunità, appaiono sempre non sotto- ponibili a critica. Definire dunque il mito ‘racconto tradizionale’ assume qui un significato ancora più emblematico; anche Rossi non può descriverlo con esattezza, neanche provando a considerarlo ‘in funzione di qualcosa’, ma ne comprende chiaramente la natura autorevole anche se mai rigidamente dog- matica. Il mito in Rossi è il tipo ideale, quello che sta in origine (archè-tipo), a cui tutti gli altri si riferiscono diventandone declinazioni, e nella relazione con il quale traggono significato.

Ma forse ancora più interessante è il ruolo che Rossi attribuisce al mito a ser- vizio della sua teoria dell’architettura, definendolo come ciò che rende possi- bile la «comprensione dei monumenti». L’idea di Rossi, tanto semplice quanto significativa, ricalca ancora una volta quanto mostrato in questa ricerca nelle parole di molti autori[3]: legittimando tutto ciò che è opera umana, quindi cul-

turale, il mito è ciò che stabilisce la ‘convenzione interpretativa’ (agisce facendo capire). Declinando il mito in questi termini, Rossi mostra poi un’ulteriore co- stante fondamentale: il mito appartiene sempre alla dimensione collettiva: fonda la comunità, i suoi codici, l’autorevolezza delle sue istituzioni religiose e politi- che, e si manifesta tanto come arte del linguaggio quanto linguaggio dell’arte.

[2] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966, pp. 16-17. Rossi afferma di essse- re debitore del pensiero dello storico francese Numa Denis Fustel de Coulanges e in particolare al suo volume La Cité antique (Parigi 1864) in cui sono contenute considerazioni sul ruolo del mito. [3] L’idea di mito come ‘racconto legittimante’ si ritrova in forme variabili in molti dei testi ci- tati in questa ricerca. Ad esempio in Roger Caillois (Le mythe e l’homme, 1938), Roland Barthes (Mythologies, 1957), Paul Veyne (Les Grecs ont-ils cru à leurs mythes?, 1983), ecc.

Anche se non citate esplicitamente, alcune delle idee espresse da Rossi sem- brano particolarmente debitrici delle teorie di Carl Gustav Jung. Per definire la propria teoria dell’inconscio collettivo, Jung sostenne che alcune immagi- ni appartengono, e anzi costituiscono, la porzione inconscia della vita cultu- rale delle comunità umane: queste immagini si possono dire ‘archetipi’, e si trasmettono ereditariamente di generazione in generazione attraverso i miti. Scrive Jung: «Il concetto di archetipo, che è un indispensabile correlato dell’i- dea di inconscio collettivo, indica l’esistenza nella psiche di forme determina- te che sembrano essere presenti sempre e dovunque. La ricerca mitologica le chiama ‘motivi’; nella psicologia dei primitivi esse corrispondono al concetto di ‘représentations collectives’ di Lévy-Bruhl; nel campo della religione com- parata sono state definite da Hubert e Mauss ‘categorie dell’immaginazione’. Adolf Bastian, molto tempo fa, le ha denominate ‘pensieri elementari’ o ‘pen- sieri primordiali’. Da questi riferimenti dovrebbe risultare abbastanza chiaro che la mia idea di archetipo – letteralmente una ‘forma preesistente’ – non è isolata, ma è riscontrabile anche in altri campi della conoscenza»[4].

Il mito in Jung è sempre sovraindividuale e mai sottoponibile a critica, dal momento che non appartiene alla sfera del conscio, e dunque coloro che lo vivono non lo possono spiegare. Il mito è sempre vissuto ‘da dentro’; chi si trova ‘dentro’ non è in grado di riconoscerne i confini, né di pensare che ci sia ‘qualcosa’ al di là di essi, ma percepisce lo spazio definito dal mito come pro- pria realtà. Il mito è il vocabolario attraverso cui si traduce il mondo; criticare il mito significa cambiare il significato dei fatti culturali, come cambierebbe il significato delle parole se qualcuno decidesse di inventare un nuovo voca- bolario. Nel momento in cui (osservando ‘da fuori’) lo si prova a spiegare, razionalizzare, analizzare con metodi appartenenti ad altre mitologie (inclusa quella scientifica), il mito si atrofizza e muore nella riduzione univoca dei suoi significati molteplici ed immediati. Scrive ancora Jung: «Lo psicologo si trova di fronte alle stesse difficoltà del mitologo quando gli si richiede una definizio- ne esatta o una spiegazione univoca e concisa. Chiara, perspicua e inequivo- cabile è soltanto l’immagine stessa quale si presenta nel suo contesto abituale. In questa forma essa manifesta tutto il suo contenuto. Ma non appena si tenta di astrarre l’ ‘essenza reale’ dell’immagine, questa si confonde e si volatilizza.

[4] Carl Gustav Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in Opere, Volume nono, Tomo primo, Bollati Boringheri, Torino 1980 (scritti 1934-1955), (ed. 1997), pp. 55

Per comprendere la sua funzione vitale, bisogna lasciarla nella sua complessità di organismo vivo, anziché studiarla, secondo i metodi della scienza natura- le, sull’anatomia del suo cadavere, o secondo i sistemi storici, sull’archeologia delle sue rovine. Con ciò naturalmente non si vuol negare la ragion d’essere di questi metodi, purché si riconoscano i loro limiti di competenza»[5].

Hermann Usener, mitologo d’eccellenza, quasi mezzo secolo prima, aveva già espresso una visione simile, affermando la salda convinzione che non sia pos- sibile ridurre razionalmente il mito ad una spiegazione. Ricercando l’origine del pensiero religioso, e quindi culturale, nella formazione dei nomi degli dei, Usener scrive: «La mitologia, secondo la logica con cui essa richiede di esser coltivata, non è che raccolta e cernita di materiale. Sua ovvia configurazio- ne, in questo senso, è quella alfabetica e qui essa darà tanto maggiori risultati quanto più tenderà alla completezza e quanto meno, invece, alla spiegazione dei fatti. Qualsiasi tentativo di approdare ad una trattazione sistematica non produce che insensatezze, tanto in generale che in particolare»[6].

Una concezione che risuona ancora nelle parole di Karol Kerenyi, che a pro- pria volta ricorda chiaramente una nota visione platonica[7]: «L’unico modo

giusto di comportarsi nei suoi riguardi (del mito) è di lasciar parlare i mitolo- gemi per se stessi e prestar loro semplicemente ascolto»[8].