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L’UOMO VITRUVIANO E LA NEUE SACHLICHKEIT

III.5 Nuova Oggettività

È risultato praticamente impossibile per gli storici definire in modo unanime la parola Sachlichkeit, o trovare denominatori comuni tra i differenti movi- menti che ad essa si richiamavano; è stato poi ancora più complesso storiciz- zare a posteriori altri fenomeni che, pur non appellandosi al termine, pro-

con le definizioni formulate da E.H. Gombrich in Freud’s Aesthetic, in “Encounter”, 26 gennaio 1966. Gombrich definisce “espressione” la “forza centrifuga dell’arte” mentre “convenzione” la “forza centripeta”. in Stanford Anderson, Peter Behrens and a New Architecture for the Twentieth Century, Ibid.

[45] La sintesi secondo la quale la posizione di Muthesius è riassumibile nella nozione di ‘Nor- ma’, mentre quella di van de Velde in quella di ‘Forma’ è suggerita da Stanford Anderson, Ibid., in riferimento al testo, Erns Gombrich, Norm and Form, 1966

fessavano la fede in principii in qualche modo simili. È in realtà anche poco chiaro se la definizione di Sachlichkeit sia da intendersi a proposito di que- stioni eminentemente estetiche, ideologiche o semplicemente metodologiche. L’ampiezza degli ambiti artistici e culturali in cui il termine è stato utilizzato ne dimostra di fatto l’indeterminatezza; come un potente slogan, ha caricato su di sé le differenti e contraddittorie possibilità espressive del Moderno e dei suoi significati, cambiando di volta in volta accezione, in funzione di chi se ne face- va interprete. In ogni caso per lungo tempo il ricorso alla parola Sachlichkeit è stato garanzia di autorevolezza e prova di moderna onestà.

Gustav Friedrich Hartlaub, sopra ogni altro, ispirò il pensiero di numerosi artisti quando nel 1925 raccolse alla Kunsthalle di Mannheim poco più di un centinaio di opere di pittori contemporanei[46]. In questa occasione coniò il ter-

mine Neue Sachlichkeit per definire il carattere che legava i quadri in mostra; si trattava, nelle parole di Hartlaub, di una sorta di “realismo” antiborghese e post-espressionista; sostanzialmente la professione di un “Non-Formalismo”, o ancora meglio di un più marcato ‘Anti-Formalismo’ [47]. Fu proprio questa

accezione ad attirare l’attenzione degli architetti di aspirazioni moderniste, che trovarono nelle idee di Hartlaub (non tanto nelle opere dei pittori in mostra) una conferma ideologica alle loro teorie: Mies van der Rohe o Walter Gropius hanno affermato infatti a più riprese di “rifiutare problemi di forma” [48].

Ma in architettura, oltre il suo contenuto ideologico, sachlich diventò presto

maniera: sinonimo di linee rette (contro le sinuose curvature Art Nouveau),

profili nettamente squadrati, decorazione ridotta al minimo se non comple- tamente eliminata, e vicinanza all’estetica “realista” della macchina. Aderendo ad un metodo progettuale sachlich gli architetti dicevano poi orgogliosamente di aver spostato la propria attenzione da superficiali questioni di forma a ra- zionali problemi di funzione.

I “funzionalisti” europei ortodossi, come ad esempio Hannes Meyer, parlando di sachlich Architektur dicevano di aver abbandonato qualunque tipo di ricer-

[46] Neue Sachlichkeit fu il titolo di una mostra di pittura a cura di Gustav Friedrich Hartlaub, tenutasi alla Kunsthalle di Mannheim nel 1925

[47] Fritz Schmalenbach, The Term Neue Sachlichkeit, “The Art Bulletin”, Vol. 22, No. 3 (Sep., 1940), pp. 161-165, CAA, Stable URL: https://www.jstor.org/stable/3046704

[48] Ludwig Mies van der Rohe, Bürohaus, in “G”, I (luglio 1923), ed eng. Philip Johnson, Mies van der Rohe, Ibid., pp. 183

ca estetica, in favore di un’adesione al calcolo, alla scienza e alla tecnologia mo- derne. Meyer invocava un “Nuovo Mondo”: «Nel diagramma dell’era attuale troviamo così ovunque, fra le linee sinuose dei suoi campi di forza sociali ed economici, delle linee rette la cui origine è tecnologica o scientifica. Esse sono prova evidente della vittoria del pensiero umano sulla natura amorfa. Questa nuova conoscenza intacca alla base e trasforma i valori esistenti; dà al no- stro nuovo mondo la sua forma»[49].Abile e dogmatico mitografo, Meyer tra-

sformava il linguaggio metaforico in figurativo: la metafora delle “linee rette” tracciate da scienza e tecnologia, diventano materia ed elemento compositivo imprescindibile per l’architettura. Meyer rifiutava l’autorialità e concepiva l’o- pera d’arte, in termini marxisti, come figlia del popolo ed espressione delle sue necessità; si schierava contro la borghesia degli stili accademici e l’espressioni- smo intellettuale ed elitario, estremizzando l’idea di Typisierung propagandata da Muthesius [50]. «E la personalità? Il cuore? L’anima? Siamo per un’assoluta

segregazione. Che siano relegate nei loro campi specifici: l’impulso amoroso, il godimento della natura e le relazioni sociali»[51]. Meyer sosteneva quindi

che l’architettura dovesse essere semplicemente il risultato di una misurazione esatta del “necessario” su basi “oggettive”: Zielarchitektur ovvero architettura che si rivolgeva ad un chiaro fine, ad un obiettivo.

Anche Ernst May, nel dare forma alla nuova struttura urbana di Francoforte, spendeva le proprie energie nel tentativo di stabilire uno standard abitativo. Le sue imponenti Siedlungen, diceva, erano figlie del calcolo e migliore soluzio- ne possibile per le necessità dell’abitare; nessuna scelta progettuale dipende- va dall’arbitrio dell’autore, né tantomeno dalla peculiare richiesta del singolo committente. May, che in quegli anni aveva fondato e dirigeva la rivista Das

Neue Frankfurt, promuoveva l’idea per cui un alloggio perfetto si potesse ot-

tenere semplicemente sommando scienza delle costruzioni, principi igienici fondamentali e moderna psicologia; sicuramente nulla a che vedere con l’idea di un bel disegno di architettura dalle proporzioni armoniose. In un artico- lo dal titolo “L’alloggio minimo” esponeva così il giusto metodo progettuale:

[49] Hannes Meyer, Die Neue Welt, “Das Werk” n.7, 1926, in Francesco Dal Co (a cura di), Han- nes Meyer. Scritti 1921-1942. Architettura o Rivoluzione, Marsilio, Padova 1977

[50] Hannes Meyer, Uber Marxistiche Architektur, 13/06/1931, archivio Meyer, in Francesco Dal Co (a cura di), Ibid.

«Una ricerca approfondita dal punto di vista dei fondamenti sociologici e bio- logici dell’edilizia residenziale avrà come conseguenza che per il futuro non si metterà più a disposizione dell’uomo soltanto un alloggio qualsiasi ma si potrà stabilire un minimo vitale per determinati gruppi di persone, suddivisi in base al loro numero e alle loro capacità economiche e si studierà la soluzione mi- gliore al fine di procurare a ciascuno la sua “razione” di alloggio»[52].

Dagli Stati Uniti, però, giungeva una netta critica. Philip Johnson e Henry Russel Hitchcock, osservando con grande curiosità i fenomeni europei, sten- tavano a credere alle parole di Meyer, di May o dei loro discepoli e ricercavano, invece, gli elementi estetici per definire un nuovo “Stile Internazionale” [53].

I due storici attaccavano violentemente l’idea di standard promulgata dai “fun- zionalisti”: «La Siedlung implica che si progetti non per una famiglia data, ma per una famiglia tipica. Questo mostro statistico, la famiglia tipica, non ha esistenza personale e non si può difendere contro le teorie sociologiche degli architetti. […] Troppo spesso i funzionalisti costruiscono le Siedlungen euro- pei per qualche superuomo proletario del futuro»[54].

Tuttavia Johnson e Hitchcock, pur rifiutando il canone funzionalista, ne in- troducevano uno differente, questa volta di carattere stilistico, che potesse de- finire la categoria che cercavano; si chiedevano sostanzialmente quali fossero le caratteristiche comuni a cui si potevano ricondurre le opere di autori di differente provenienza, tanto geografica quanto ideologica. Nel compilare la propria raccolta di architetture stabilivano tre principii fondamentali: volume piuttosto che massa, regolarità piuttosto che simmetria e assenza di decora- zione applicata.

[52] Ernst May, L’alloggio minimo, in “Das Neue Frankfurt”, anno III, n. 11, Novembre, 1929, ed it. L’alloggio minimo, in Das Neue Frankfurt 1926-1931, a cura di Giorgio Grassi, Dedalo, Bari 1993, pp. 169

[53] Henry Russel Hitchcock, Philip Johnson, The International Style: Architecture since 1922, W.W. Norton & Company, New York, 1932

[54] Henry Russel Hitchcock, Philip Johnson, Ibid., (edizione W.W. Norton & Company 1995) pp. 103-104 (traduzione dell’autore)