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IL TEMPIO DELL’ARIETE E DELLA LOCOMOTIVA

II.5 Il sacrificio di Sopatro

Nei mesi di Luglio o Agosto, sull’Acropoli di Atene, si celebravano delle par- ticolari feste rituali, chiamate Bouphonia, in onore di Zeus Polieus, protettore della città. L’origine del sacrificio di un bue, centro del rituale, veniva fatta risali- re da Teofrasto ad un primigenio atto cruento compiuto da un certo Sopatro[41].

In un tempo in cui non era ammessa l’uccisione di animali, né per sacrificio, né per alimentazione, Sopatro stava disponendo delle offerte sacrificali su un altare quando un bue, affamato di ritorno dai campi, consumò il banchetto; accecato dalla rabbia prese un’ascia e lo uccise. Tormentato dai sensi di colpa condannò se stesso all’esilio e si rifugiò a Creta. Poco tempo dopo, però, Atene fu condannata a subire una grave carestia; consultata la Pizia gli abitanti della cit- tà decisero di espiare la colpa replicando in un rito l’uccisione del toro e lo stesso Sopatro se ne fece carico. Così gli ateniesi, in una grande processione, ‘misero in scena’ l’atto che li aveva condannati: Sopatro replicò davanti a tutti l’uccisione del bue, e solo l’ascia fu dichiarata colpevole e gettata in mare. Tutti i parteci- panti al rito si nutrirono della carne dell’animale e infine la sua pelle fu riempita con della paglia ed eretta in piedi davanti all’aratro per restituirne un’immagine. Questo breve racconto mostra la caratteristica essenziale della natura del rito: l’imitazione liturgica di un atto primigenio, in cui si manifesta in forma la verità del mito. Se poi, come spesso accade, alla vera vittima si sostituisce un suo simulacro (come i fantocci adornati o l’eucarestia cristiana) si procede ad un secondo grado di rappresentazione. Per gradi successivi di sostituzione, la rappresentazione può infine giungere alla finzione definitiva della ‘messa in scena’ in teatro, in cui il sacro viene trasferito nell’ordinario quotidiano, come suggerisce Victor Turner [42]. La stessa etimologia del termine ‘tragedia’ sem-

bra suggerire questa idea: ‘tragedia’ come ‘canto del capro’ (trágos, capro; oidé, canto). La progressiva sostituzione dell’oggetto del sacrificio in sue rappresen- tazioni comporta che ad un certo punto la sua origine sia dimenticata, ma che i gesti, il linguaggio e le forme che ne derivano continuino a trarre proprio

n. 10, 1950, ed. It. Architettura e Tecnologia, in Vittorio Pizzigoni (a cura di), Ibid., pp. 123 [41] Teofrasto, Sulla devozione fr. 18 (Potscher), presso Porfirio, Sull’astinenza, II, 29-30, in Ro- berto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988, pp. 346

[42] Victor Turner, From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, ed. It. Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna 1986

dall’idea di sacro significato e legittimità.

Il rito è sempre una rappresentazione e, in quanto tale, è sempre sovversione del principio di necessità: ciò che viene sacrificato non può più essere usato o consumato dalla comunità che si priva volontariamente di un bene. «I teologi delfici sapevano che il sacrificio è il segno dello squilibrio della vita rispetto al necessario» dice Roberto Calasso «squilibrio come sovrabbondanza ma anche insufficienza. In tutti e due i casi, nella dissipazione come nella rinuncia, vi è una parte che deve essere espulsa, perché avvenga un’equa distribuzione delle forze, perché “nulla sia troppo”»[43].

In architettura, tutto ciò che è pura rappresentazione, come le volute dei capi- telli ionici o i pilastri appesi di Mies, condivide con il sacrificio la sovversione del principio di necessità. Sono i luoghi in cui si osserva il primato dell’ordine culturale (che risponde a necessità metafisiche), sull’ordine naturale (che ri- sponde a necessità meccaniche)[44]. Il Nomos si sostituisce alla Physis, o meglio

si somma ad essa, e con il simbolo l’uomo diventa veramente tale: «L’uomo è l’animale simbolico» diceva Ernst Cassirer [45].

Gli elementi puramente simbolici in architettura non hanno nulla a che vedere con le vitruviane Firmitas e Utilitas, ma si relazionano solamente con la Venu-

stas. Allo stesso modo, riprendendo la triade degli attributi della ‘Nuova Arte’

dal “Revue Generale de l’Architecture”, non si tratta di elementi che si confron- tano con le Vrai o con l’Utile, ma unicamente con le Beau; il Bello non come frivolo godimento di elementi formali inessenziali, ma come ciò che, proprio grazie a quegli elementi, è riconoscimento estetico del sacro.

L’elemento simbolico (anche se non-collaborante dal punto di vista struttu- rale) diventa sostanzialmente ciò che consente di distinguere la capanna dal tempio e, per metonimia, l’edilizia dall’architettura. «L’architettura è l’essen- ziale parlar figurato dell’edificio» diceva Joseph Rykwert [46], mentre Antonio

Monestiroli attribuiva a Schelling una frase del tutto simile: «l’architettura è

[43] Roberto Calasso, Ibid., pp. 190

[44] Parlando ordine culturale e ordine naturale si fa riferimento alla distinzione tra Physis e Nomos trattata nel primo capitolo al paragrafo omonimo.

[45] Ernst Cassierer, Philosophie der symbolischen Formen, 1923–29, ed. It. Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Venezia 1966

metafora della costruzione»[47]. I falsi pilastri di Mies, come i molti altri esempi

citati, rappresentano perfettamente queste visioni, infatti senza di essi proprio l’architettura sarebbe venuta a mancare. Se invece, come diceva Giedion «la costruzione è il subconscio dell’architettura»[48] allora Mies, come uno psica-

nalista, faceva emergere la materia che era stata nascosta con pudore fino al quel momento. Ma nel difficile tentativo di trovare una conciliazione tra le parole di Mies e la sua opera, di fronte all’aporia di un appello alla verità che viene tradotto in una falsa struttura, le parole pronunciate da William Lethaby circa settant’anni prima possono mostrare una terza via: «la costruzione è il veicolo dell’architettura che è il pensiero dietro la forma»[49].

L’emblematica affermazione di Lethaby potrebbe suggerire che l’appello alla verità di Mies intende fare riferimento al pensiero prima che alla forma, appel- landosi ad un insindacabile universale. Guardando i pilastri di Mies e le volute ioniche, e tenendo a mente l’aforisma di Tommaso d’Aquino, non si capirebbe altrimenti in quale senso il ‘Bello’ possa essere la luce del ‘Vero’, se non pro- vando ad interpretare diversamente la natura di questo rapporto. Il ‘Bello’ si trova necessariamente al di là delle stringente categoria di verità, ma anche la verità stessa è plurale e costantemente mutevole a seconda del programma a cui viene fatta aderire. L’idea di ‘Vero’ e l’idea di ‘Bello’ hanno sempre a che fare con l’affermazione o la negazione di una necessità e condividono la necessità di essere costantemente messe in discussione. Il loro rapporto in architettura è sempre dialettico: l’idea di verità fonda quella di bellezza allo stesso modo in cui avviene il contrario. Mies afferma che nella sua opera «il bello è la luce del vero», ma proprio nella sovversione di necessità assume certamente valore anche il suo contrario: «il vero è la luce del bello».

[47] Antonio Monestiroli, Nove definizioni di architettura, in D’Alfonso E., Franzini E. (a cura di), Metafora mimesi morfogenesi progetto: un dialogo tra filosofi e architetti, Guerini, Milano 1991 [48] Giedion, Space, Time and Architecture, the growth of a new tradition, 1941, ed. It. Spazio, Tempo ed Architettura, lo sviluppo di una nuova tradizione, Hoepli, Milano 1954, pp. 175 [49] William Lethaby, Architecture, mysticism and myth, 1892, ed. It. Architettura misticismo e mito, Pendragon, Bologna 2003