• Non ci sono risultati.

IL TEMPIO DELL’ARIETE E DELLA LOCOMOTIVA

II.1 Vero e arbitrario

Nel 1758 l’architetto francese Julien-David Le Roy pubblicava un volume dai toni romantici, in cui erano raccolti rilievi e disegni di antichi monumenti greci, dal titolo “Les ruines des plus beaux monuments de la Grèce” [2]. Le Roy

sottolineava il primato temporale ed estetico dell’architettura greca, indicando gli ordini romani come pallide e sgraziate imitazioni. Nel 1761 Giovanni Bat- tista Piranesi rispondeva con l’opera “Della magnificenza ed architettura de’ romani”, sostenendo invece il primato dell’architettura etrusca, e conseguente- mente di quella romana come sua erede diretta[3]. In una tavola emblematica

sull’ordine ionico, Piranesi restituisce diversi esempi di capitelli romani (S. Maria in Trastevere, S. Paolo fuori le Mura, S. Clemente, etc.) a fianco dei disegni di Le Roy dell’Eretteo e del monumento di Lisicrate. Alla sommità della tavola è riporta una frase di Le Roy stesso: «I capitelli che si osservano a Roma sem-

[1] Friedrich Nietzsche, Vorarbeitern zur einer Schrift über den Philosophen (1872), in Werke, cit. (Musarion-Ausgabe), vol. VI, p.31, cit. in Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, 1979, ed.It., Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991

[2] Julien-David Le Roy, Les ruines des plus beaux monuments de la Grèce, Parigi 1758 [3] Piranesi, Della magnificenza ed architettura de’ romani, Roma 1761

brano poveri e imprecisi»; le incisioni di Piranesi vogliono palesemente dare prova contraria.

Ma al di là della rivendicazione del primato estetico sul quale dibattevano i due studiosi, la tavola di Piranesi, come anche quelle di Le Roy, mostra con evidenza un fatto importante: le differenze tra i capitelli ionici riportati sono macroscopiche; sembra non esserci alcuna regola. Le volute hanno sviluppo e proporzioni differenti e i loro occhi dimensioni variabili, mentre abaco ed echino hanno forme diverse in ogni caso presentato: tutti i capitelli sono diffe- renti, anche se rispondenti al medesimo ordine.

Osservando queste opere non si può fare a meno di domandarsi come fosse possibile che ancora all’epoca di Piranesi (e oltre) si potesse supporre che le proporzioni degli ordini classici fossero regolate da leggi inviolabili: come si poteva supporre l’assolutezza e la bontà dell’ordine ionico, se a più riprese era stata dimostrata l’arbitrarietà delle sue forme? E, quindi, se gli ordini non trae- vano legittimità dalla corrispondenza a proporzioni geometriche esatte, a cosa si doveva la loro permanenza?

Già nel 1650 Freart de Chambray aveva paragonato gli ordini dei trattatisti ri- nascimentali mettendo in evidenza come ognuno avesse interpretato i precetti vitruviani e i rilievi dell’antico secondo il proprio gusto[4]. Nel 1678 Caramuel

y Lobkowitz aveva poi elaborato una decina di metodi proporzionali diversi per la realizzazione delle volute ioniche, ognuno dei quali basato su rapporti geometrici elementari ed esatti[5]. Claude Perrault, alla fine del XVII secolo,

aveva invece per primo violato una sorta di tabù, affermando che le leggi che regolano la composizione degli ordini non sono assolute: non è possibile dire che alcune siano vere, mentre altre false. La scelta di alcune piuttosto che altre è sempre arbitraria e in accordo unicamente con il gusto dell’autore[6]. «Se-

condo Perrault le proporzioni cambiano costantemente in architettura ‘come la moda’» dice Alberto Perez-Gomez commentando l’opera[7]. Ma se non era

più possibile pensare che ci fosse una verità a guidare l’opera dell’architetto, su

[4] Roland Freart de Chambray, Parallele de l’architecture antique avec la moderne, Paris 1650 [5] Juan Caramuel y Lobkowitz, Architectura civil recta y obliqua, 1678, Lamina XVIII - XLI [6] Claude Perrault, Ordonnance des cinq espèces de colonnes selon la méthode des anciens, 1683 [7] Claude Perrault, Ibid., Paris 1683 ed. Eng. Ordonnance for the five kinds of columns after the method of the ancients, The Getty center for the history of art and the humanities, Santa Barbara 1993, Introduction by Alberto Pérez-Gómez

cosa poteva trovare fondamento la ricerca del bello? Era legittimo sostenere che ogni autore potesse esprimerne la propria particolare visione? E soprattut- to, una volta sovvertita la regola, fino a che punto ci si poteva spingere? Le considerazioni di Perrault sembrano anticipare la fondamentale teoria este- tica di David Hume, quella relativizzazione soggettiva del bello che segnerà una cesura fondamentale nella storia dell’arte dal Settecento in poi[8]. Estre-

mizzando per aforismi, nella teoria di Perrault si osserva la transizione dalla visione oggettivista secondo la quale, con Tommaso d’Aquino, «il bello è la luce del vero», a quella soggettivista che, con Hume, afferma che «il bello è negli occhi di chi lo contempla».

Prendiamo però ancora ad esempio l’ordine ionico. Se è vero che, ancor prima che venisse ammesso in modo esplicito, non era possibile individuare un uni- voco metodo proporzionale o una vera regola compositiva, è però indubbio che proprio quella forma abbia continuato a manifestarsi per secoli. Osservan-

[8] David Hume, Of the Standard of Taste, 1757

do l’impressionante intervallo temporale e geografico in cui è stata utilizza- ta, anche ammettendo l’arbitrarietà e la relatività delle sue forme, si dovrebbe ammettere almeno una discreta vicinanza ad un principio universale. Com’è possibile che una forma tanto arbitraria come quella di due volute tra colonna e trabeazione, nata nel VI secolo a.C. nell’odierna Turchia, potesse arrivare (ad esempio) a rappresentare gli ideali democratici americani del XIX secolo, sopravvivendo alla sua continua ri-significazione col passare delle epoche? Fedeli all’impostazione seguita finora, si può tentare di comprendere la per- manenza di queste forme particolari non tanto da un punto di vista epistemo- logico, ma da quello mitologico, ipotizzando che sia dovuta al protrarsi di una forma rituale. Dal punto di vista della permanenza, le volute ioniche rappre- sentano sicuramente un paradigma mitologico e proprio per questa ragione hanno potuto manifestarsi in versioni differenti e contraddittorie. Questa dif- ferenza sarebbe indice della necessità di guardare oltre le stringenti categorie antitetiche di verità e gusto; manifesta la presenza dell’universale nel partico- lare e del particolare nell’universale.

È molto probabile che le volute ioniche trovino la propria origine in una serie di pratiche rituali ancestrali tradotte nelle forme di templi ed altari. Anche se non è possibile risalire con esattezza ad una origine di queste pratiche, e ammettendo la possibilità di molte origini, è proprio considerando alcune forme dell’archi- tettura come simboli liturgici, che si possono comprendere le ragioni della loro permanenza; nel rituale e nella liturgia, e non nella regola proporzionale, si pos- sono intuire i significati delle forme, comunicati nella tradizione. E si potrebbe aggiungere che anche la ricerca di costanti proporzionali è essa stessa liturgia. In ogni caso, anche se non è più possibile ricostruire l’origine di un rituale in relazione al mito, rimane però l’idea di sacro; pur non potendo svelare il significato esatto di un simbolo, l’aura del rito permane nella memoria collet- tiva. Anche se non è possibile conoscere le liturgie che animarono la nascita dell’ordine ionico, le sue forme hanno continuato per secoli a conferire all’ar- chitettura un’autorità insindacabile.