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La casa non è architettura

CALLIMACO E IL TRANSATLANTICO

IV.3 La casa non è architettura

«Nella creazione architettonica il passato opprime la mente del committente e dell’architetto. Ogni salumaio sogna il rinascimento o altro senza parlare della monumentale asinità dello Stato»[12]. Con queste parole Umberto Boccioni in-

vocava un’architettura futurista; Zeno Birolli le aveva scoperte negli anni Settan- ta tra gli scritti inediti di Boccioni e Bruno Zevi le aveva definite una ‘profezia’. Si trattava degli appunti per un manifesto dell’architettura futurista, scritti probabilmente tra il 1913 e il 1914, in seguito al viaggio di Boccioni a Parigi e dei suoi frequenti incontri con Guillaume Apollinaire. I due sognavano un grande ‘movimento’ d’avanguardia che potesse nascere dall’alleanza di cubi- sti, espressionisti e futuristi. Zevi ipotizza che «se Marinetti avesse divulgato il manifesto di Boccioni, forse avremmo avuto un’architettura futurista»[13].

Come appare evidente già da queste poche parole, Boccioni desiderava un’ar- chitettura nuova, libera dall’eredità del passato e dalla copia della tradizione: un’autentica e necessaria architettura moderna. «Bisogna che l’architetto torni ad un nuovo fondamentale che non è l’arcaismo degli egizi o il primitivismo dei contadini ma è l’architettonico che le condizioni di vita create dalla scienza ci impongono come pura necessità»[14].

In anticipo rispetto a molti altri autori moderni che sostennero queste po- sizioni, Boccioni affermava che la nuova architettura dovesse ispirarsi, nei principii e nelle forme, ai prodotti dell’industria: «Un ferro chirurgico, una nave, una macchina, una stazione ferroviaria portano nella loro costruzione una necessità di vita che crea un insieme di vuoti e di pieni di linee e di piani di equilibri e di equazioni attraverso il quale scaturisce una nuova emozione architettonica»[15]. Aggiungeva poi, per chiarire ulteriormente il modo in cui

gli architetti avrebbero dovuto lavorare: «Nessun ingegnere navale o inventore meccanico penserebbe mai a sacrificare una anche minima potenzialità della propria costruzione per lasciare il posto ad una decorazione o ad una qualsiasi

[12] Bruno Zevi, La profezia di Umberto Boccioni, (editoriale) “L’architettura cronache e storia”, anno XIX, n. 12, aprile 1974

[13] Ibid. [14] Ibid. [15] Ibid.

preoccupazione estetica culturale»[16].

Anche se queste parole non furono pubblicate, è però sicuro che il pensiero di Boccioni influenzò e rafforzò quello di molti suoi contemporanei. Boccio- ni morì a soli trentatré anni nel 1916, e l’anno successivo l’amico Apollinai- re coniò l’espressione ‘Esprit Nouveau’, per descrivere il clima culturale delle avanguardie artistiche di cui faceva parte[17]. Nel 1920 Le Corbusier e Amédée

Ozenfant, a tributo del pensiero di Apollinaire scomparso due anni prima, fondarono la rivista “Esprit Nouveau”, pubblicata fino al 1925, anno in cui Le Corbusier realizzò a Parigi per l’Exposition des Arts Décoratifs et Industriels

Modernes il celebre padiglione omonimo.

Come noto, gli articoli che Le Corbusier e Ozenfant (che si firmava con lo pseudonimo ‘Saugnier’) scrissero per la rivista, costituirono la base di “Vers

une Architecture”, indiscussa pietra miliare della teoria architettonica moder-

na[18]. I presupposti ideologici dei due, di cui solo pochi anni dopo Le Cor-

busier rivendicava la piena paternità eliminando il nome di Ozenfant, erano molto simili a quelli proposti da Boccioni, e del resto rispecchiavano il clima di un dibattito che in diverse forme stava interessando tutta Europa. In “Vers

une Architecture” Le Corbusier elogiava gli ingegneri, «sani e virili, attivi, ed

utili, morali e gioiosi» e denigrava gli architetti «disincantati e disoccupati astiosi e fanfaroni»[19].Era convinto che l’architettura fosse sostanzialmente

responsabile per ogni comportamento umano, ed attribuiva ad una cattiva progettazione la colpa del degrado morale: «La lega contro l’alcolismo, la lega per il ripopolamento dovrebbero indirizzare un appello pressante agli archi- tetti; dovrebbero stampare il manuale dell’abitazione, distribuirlo alle madri di famiglia ed esigere le dimissioni dei professori dell’Ecole des Beaux-Arts»[20].

[16] Ibid.

[17] Apollinaire conia l’espressione “Esprit Nouveau” in occasione di una conferenza pubblica al teatro Vieux Colombier, tenutasi il giorno 24 novembre 1917 dal titolo “L’Esprit Nouveau et des poètes”. Stampato per la prima volta poco dopo la morte di Apollinaire in, “Le Mercure de France”, CXXX, 1 dicembre 1918, 385-396, in John W. Cameron, Apollinaire, Souller, and “L’E- sprit Nouveau”, in “Romance Notes”, Vol. 4, No. 1 (Autumn, 1962), pp. 3-7, University of North Carolina at Chapel Hill

[18] Le Corbusier-Saugnier, Vers une architecture, 1923. Dall’edizione successiva scompare il nome di Saugnier.

[19] Le Corbusier, Ibid., ed it. Verso una architettura, Longanesi, Milano 1973 pp. 6 [20] Ibid., pp. 234

Le Corbusier, disegno durante una lezione in America Latina, 5 ottobre 1929 in William JR Curtis, Le Corbusier, Ideas and Forms, 1986

Scriveva poi che i suoi contemporanei non erano in grado di trovare i giusti ri- ferimenti per un’architettura moderna: «occhi che non vedono» gli aeroplani, le automobili o i transatlantici. Ripeteva come un mantra: «Una grande epoca è cominciata. Esiste uno spirito nuovo. Esiste una quantità di opere improntate a uno spirito nuovo; si ritrovano soprattutto nella produzione industriale»[21].

Tra i paradigmi esemplari di buona costruzione erano mostrati i transatlanti- ci: l’Empress of Asia (1913), l’Empress of France (1914), L’Aquitania (1914), il Lamorciere (1921), ecc. Le parole con cui Le Corbusier accompagnava questi riferimenti erano composte come una convincente metafora meccanica: era chiaro che non si dovevano costruire case ‘a forma di’ transatlantico, ma veni- va suggerito che gli architetti dovevano adottare un principio progettuale ana- logo. Prima di tutto la funzione, poi la forma: poteva dirsi bello solo ciò che funzionava bene. Ma soprattutto, ad uno sguardo più attento, contava ancora di più la promessa della funzione ed una forma che potesse inequivocabilmen- te significare la funzione.

In realtà solo alcuni dettagli o componenti dei grandi transatlantici meritava- no attenzione anche dal punto di vista estetico (potevano cioè essere imitati dal punto di vista formale); Le Corbusier li aveva accuratamente selezionati e attribuiva loro un’importanza capitale. Sulla copertina della prima edizione di

“Vers une Architecture”, quando ancora erano riportati i nomi di entrambi gli

autori, era mostrato un ponte esterno di passeggio: superfici lisce, per la mag- gior parte metalliche, verniciate di bianco, sulle quali spiccavano componenti strutturali (travi, pilastri, parapetti e infissi) rivettati, non mascherati né deco- rati. Con la volontà di fondare una nuova estetica su riferimenti certi, univoci, e soprattutto persuasivi, Le Corbusier sceglieva sapientemente gli esempi da includere e quelli da omettere nella sua trattazione; mostrava gli scafi e i ponti esterni ma evitava di mostrare, o citare, gli spazi interni dei transatlantici, dove gli ospiti trascorrevano la maggior parte del tempo durante il viaggio: grandi e lussuosi saloni neoclassici, barocchi, eclettici e spesso semplicemente kitsch. I frequentatori dei locali di prima classe, distanti dall’élite intellettuale a cui ap- parteneva Le Corbusier, preferivano ancora circondarsi di decorazioni, stuc- chi, modanature e generici simboli che attestassero il loro status privilegiato, nonostante gli ordini architettonici fossero ormai ridotti a generico citazionismo

[21] Ibid., pp. 69, pp. 85, Una grande epoca è cominciata, Programma dell’esprit Nouveau, n.1, ottobre 1920

di un passato (o di un lontano) più o meno sconosciuto.

Ma Le Corbusier, sulla scia di Adolf Loos, intendeva liberare l’uomo moder- no da ornamenti inessenziali, e presentava questa scelta come una stringente, scientifica ed indiscutibile necessità, facendo leva sull’evidente meraviglia che all’inizio del XX secolo suscitavano automobili, aeroplani e transatlantici. L’ar- chitetto, come un sacerdote, unico conoscitore della verità, avrebbe dovuto semplicemente guidare deterministicamente l’uomo verso il suo destino. Senza analogie, metafore e racconti, il discorso di Le Corbusier sarebbe però stato notevolmente più debole, soprattutto nel proporre un sovvertimento così radicale della pratica architettonica. Le Corbusier non intendeva ricostruire filologicamente le origini del proprio pensiero. Evitava intenzionalmente di menzionare chi prima di lui aveva sostenuto idee simili (forse nemmeno li conosceva): da Horatio Greenhough, che molti anni prima aveva già espresso la necessità dell’arte di attingere all’industria[22], a Jean Nicholas Louis Durand

e il suo discorso su decorazione e funzione, a Joseph Gwilt che nel 1842 già diceva: «La bellezza in architettura è il risultato di un’idoneità allo scopo valida tanto per gli edifici quanto per le macchine»[23]. Fino alle influenze più certe

e dirette: Hermann Muthesius, Peter Behrens, Anatole de Baudot, Auguste Perret, e molti altri.

Ancora una volta un racconto risultava più persuasivo ed efficace di un ra- gionamento, soprattutto nel momento in cui si articolava intorno a questioni, figure ed immagini che erano già argomento fondamentale di pensiero e di- battito di un’intera epoca.