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Nel V secolo A.C. i Sofisti greci della seconda generazione sollevarono una delle questioni filosofiche che hanno segnato maggiormente la cultura occi- dentale: quella della distinzione tra natura e cultura, Physis e Nomos. Anche Aristotele, nell’Etica, dedica grande spazio all’analisi delle differenze tra questi due termini e alle loro conseguenze[18].

L’interrogativo fondamentale consisteva nello stabilire quali fossero le regole comportamentali fondamentali cui l’uomo avrebbe dovuto conformarsi per la sua vita in società. In che misura dovesse rispondere alle leggi della natura, e quanto era legittimo correggerle istituendo norme culturali.

La questione apparentemente semplice ne nascondeva molte altre, estrema- mente complesse: cosa è la natura e quale può considerarsi la natura dell’uo- mo? È inoltre positiva, spontaneamente buona, o negativa? Come e perché possono considerarsi legittime le istituzioni culturali, soprattutto nel caso giustifichino comportamenti “contro natura”? La vastità di tali questioni ha segnato un dibattito durato secoli, e di fatto ancora in corso, che ha portato alla formulazione di conclusioni del tutto differenti.

[18] Aristotele, Etica Nicomachea. Molta parte della trattazione aristotelica si articola intorno al problema di quali siano gli attribuiti ‘naturali’ dell’uomo, e come egli li possa conoscere ed utilizzare per raggiungere l’armonia. In particolare, in merito a quanto qui sostenuto, si veda nel Libro V, la distinzione tra giustizia ‘naturale’ (indipendente dalle opinioni, quindi universale) e ‘legittima’ (particolare e determinata socialmente).

Hobbes, ad esempio, più di duemila anni più tardi, arrivò a sostenere che la natura dell’uomo è conflittuale, e che per evitare la tendenza spontanea allo scontro (riassunto nell’assioma “Homo Homini Lupus”) era necessaria l’istitu- zione di un potere rigido, impositivo, sovra individuale, che con il monopolio della violenza potesse garantire la pace sociale[19]. Rousseau, invece, idealizzava

l’uomo primitivo nell’immagine del ‘buon selvaggio’, suggerendo che proprio nel- lo stato di natura l’uomo fosse in grado di manifestare le proprie doti più alte[20].

A prescindere dal giudizio di valore, ciò che però viene riconosciuto in modo più o meno unanime fin dalla formulazione del problema è che la Physis è unica e singolare, mentre il Nomos è plurale e declinabile in differenti Nomoi. Il Nomos è quindi legato alla contingenza e all’arbitrarietà e risponde a principi relativi e mutevoli. La Physis, invece, è universale e le sue logiche governate da necessità e spontaneità.

Una volta constatata questa distinzione emerge però con evidenza un ulteriore problema: quello della legittimazione. Se ammettiamo che i Nomoi, quindi le differenti strutture sociali, sono relative ed arbitrarie, come possiamo so- stenere la loro legittimità? Come possiamo cioè affermare che un’istituzione culturale vigente (artistica, filosofica o legislativa) abbia il diritto di prevalere e non possa in qualsiasi momento essere sostituita da un’altra equivalente e al- trettanto arbitraria? Qui avviene il cortocircuito: ogni Nomos particolare deve essere costantemente in grado di affermarsi come più credibile, più giusto, più oggettivo. In una parola, più naturale degli altri. Ogni rivoluzione, culturale o politica che sia, nasce dalla presa di coscienza dell’arbitrarietà di un determi- nato Nomos, la cui mitologia non è più sufficientemente forte per garantire la sua sopravvivenza.

È proprio il mito, nell’accezione di ‘categoria narrativa’ di cui sopra, che con- sente agli individui di credere nella verità del proprio Nomos.

[19] I concetti qui brevemente riassunti sono contenuti nella celabre opera di Thomas Hobbes,

Leviathan: Or the Matter, Forme and Power of a Commonwealth, Ecclesiasticall and Civil, 1651

[20] L’espressione “buon selvaggio” (eng: “Noble Savage”) compare per la prima volta in The

Conquest of Granada di John Dryden del 1672. La definizione viene adottata dalla cultura del

“Primitivismo” del XVIII secolo, che sosteneva che la corruzione dell’essere umano sarebbe figlia della civilizzazione, mentro l’uomo allo stato di natura sarebbe un essere in perfetta armonia. Jean Jacques Rousseau contribuì più di chiunque altro a diffondere questa idea. A titolo di esem- pio si legga la prima frase del suo Émile (1762): «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo».

Dice a proposito Joseph Campbell: «Il mito integra l’uomo nella società e la società nella natura»[21]. In altri termini il mito opera come termine medio tra

individuo e Nomos, e tra Nomos e Physis.

Il mito non è quindi un semplice filtro attraverso il quale l’individuo osserva la propria realtà sociale, trasfigurandola e conferendole significato; non è un sistema interpretativo a posteriori. Il mito è un sistema costitutivo, che nasce contemporaneamente con le istituzioni sociali che instaura e funziona in rap- porto con esse come garante. Non a posteriori quindi, ma neanche a priori, perché non potrebbe esistere a prescindere dalla specifica società che lo rac- conta. Mito e società, come Nomos e Physis intrattengono un rapporto dialettico. Una semplice definizione di Roland Barthes riesce a sintetizzare chiaramen- te questi rapporti complessi. Il mito, dice Barthes, è quel tipo particolare di racconto (antico o moderno, scientifico o narrativo, reale o fantastico) che

naturalizza l’ordine culturale [22].

Il mito riesce cioè a trasferire gli attributi dell’ordine naturale (spontaneo e universale, Physis) a quello culturale (relativo ed arbitrario, Nomos). Riesce così a sottrarre l’ordine culturale alla critica, facendolo apparire vero e neces- sario come tutto ciò che è naturale.

Sostenere che esista una mitologia dell’architettura significa affermare che al- cune teorie dell’architettura operano come i miti descritti da Barthes: quando con toni particolarmente assertivi rivendicano pretese oggettività, si compor- tano proprio in questo modo.

Il caso del tetto piano è un valido esempio in questi termini. Abbiamo infatti osservato appelli all’oggettività, alle condizioni reali o al significato originario. In ognuno di questi casi, e i molti altri che tratteremo in seguito, si è cercato di fondare il proprio operato su termini insindacabili; in altre parole si è cercato in qualcosa di naturale la giustezza del proprio ordine culturale. Da questo punto di vista la forza legittimante di Mies, May o Behne è puro materiale mitologico, mentre la pacatezza relativizzante di Tessenow sicuramente no. L’architettura è sempre opera culturale e le sue forme arbitrarie, relative e con- tingenti, ma dietro questa affermazione apparentemente banale, si nasconde

[21] Joseph Campbell (with Bill Moyers), The Power of Myth, 1988 (libro tratto dal documenta- rio Joseph Campbell and the power of Myth, con Joseph Campbell e Bill Moyers, pubblicato in sei puntate negli Stati Uniti da PBS, 1988), ed It. Il potere del mito, Guanda, Parma 1988

un’altrettanto constante ricerca di naturale universalità. Alle teorie corrispon- dono altrettante forme. Anzi, ad una medesima teoria possono corrispondere forme differenti, così come ad una medesima forma possono fare eco diverse teorie. La costante universale è però la ricerca stessa di una ragione, il deside- rio di avvicinarsi all’origine e nella sua ricerca comprendere le logiche della natura e del cosmo.

Geoffrey Scott, introducendo il suo brillante studio sull’architettura dell’uma- nesimo affermava: «L’architettura, si dice, deve essere ‘l’espressione degli sco- pi ai quali è destinata’, o ‘l’espressione del modo in cui è realmente costruita’ oppure ‘l’espressione dei materiali che essa impiega’; ‘l’espressione della vita elevata’; ‘l’espressione della vita nazionale’; ‘l’espressione del temperamen- to’ dell’artigiano oppure quella del proprietario o di quello dell’architetto, o, all’opposto ‘accademica’ e deliberatamente indifferente a questi fattori. Deve, ci vien detto, essere ‘tradizionale’ o ‘dotta’, cioè rassomigliare a ciò che è sta- to fatto da architetti greci, romani, medievali o georgiani, oppure essere ‘ori- ginale’ e ‘spontanea’, sforzarsi cioè di evitare questa rassomiglianza; oppure deve trovare qualche felice compromesso fra questi due opposti, e così via indefinitamente»[23].

La somma delle affermazioni elencate da Scott dimostra la relatività e la con- tingenza di differenti Nomoi e di altrettanti miti legittimanti. Ciò che però costituisce una costante è l’idea che l’architettura debba essere ‘espressione’ di qualcosa, debba cioè essere simbolo, funzionare come un linguaggio e ‘essere fatta come qualcosa’, sia esso un precedente storico, le proporzioni dell’essere umano o della natura, o ancora i metodi scientifici del calcolo. Tanti miti re- lativi e contingenti costituiscono in realtà le molteplici accezioni di un grande mito generale, costante e fondativo. In questo senso non solo l’architettura si serve del mito per affermare la propria stessa esistenza disciplinare, distin- guendosi con essa tanto dall’edilizia quanto dall’arte figurativa, ma l’architet- tura condivide con il mito alcune caratteristiche ontologiche. L’architettura, come il mito è un essere ibrido, a metà tra il discorso e il simbolo, e come il mito di fatto indefinibile[24].

[23] Geoffrey Scott, The Architecture of Humanism: A Study in the History of Taste, 1914, ed It. L’architettura dell’umanesimo, Laterza, Bari, 1969

[24] Si fa riferimento alla frase di Jean Przyluski: «Il mito è un essere ibrido a metà tra discorso e simbolo». cit, in Gilbert Durand, Les Structures anthropologiques de l’imaginaire, 1960, ed. It.

L’architettura, come il mito, è uno strumento di comprensione e relazione dell’uomo con la natura e, allo stesso tempo, un atto primigenio e universale di fondazione dell’ordine culturale.

Quando Aby Warburg racconta le credenze, i riti e la struttura sociale degli indiani Pueblo del Nuovo Messico, evidenzia in primo luogo la loro visione cosmologica, secondo la quale l’universo ha forma di casa.

«Il tetto della casa-universo ha le falde a forma di scala. Sopra i muri poggia l’arcobaleno, mentre sotto, da un ammasso di nubi gronda la pioggia, disegna- ta con dei trattini. Nel mezzo - vero signore della casa-universo del temporale - compare il feticcio, Yaya o Yerrick, privo di attributi serpentini»[25].

Questo esempio, una riduzione del cosmo attraverso la rappresentazione di un elemento propriamente umano come la casa, dimostra il processo di forma- zione del mito e la sua capacità di dare significato alla vita degli esseri umani. Il mito nella sua enorme complessità e nell’innumerevole quantità delle sue manifestazioni si riconduce sempre ad un principio universale. L’universali- tà del mito, nelle parole di Blumenberg è «appropriazione antropomorfa del mondo e l’accrescimento teomorfo dell’uomo»[26]; attributi che con necessaria

attenzione potrebbero definire l’architettura stessa.

Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, Bari 1973, pp. 460

[25] Aby Warburg, Schlangenritual Ein Reisebericht, 1923 (conferenza presso la casa di cura di Kreuzlingen), pubblicato nel 1938 sul “Journal” del Warburg Institute, ed It. ll rituale del serpente, Adelphi, Milano 1998, pp. 21

[26] Hans Blumenberg, Arbeit am Mythos, 1979, ed.It., Elaborazione del mito, Il Mulino, Bolo- gna 1991, pp. 88