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IL COLOSSEO E LA COLONNA DI PLASTICA

V.3 La scatola nuda

Per quanto nel contesto della ‘battaglia degli stili’ si discutesse di firmitas (quale è lo stile che può garantire migliori prestazioni strutturali) e di utilitas (quale è lo stile che può ‘servire’ meglio le azioni che è chiamato a ospitare), è evidente che il problema maggiore riguardasse la venustas. Firmitas e utilitas erano certo un presupposto necessario per l’esistenza stessa dell’architettura, ma ormai si sapeva che i medesimi risultati si potevano ottenere con forme e strumenti differenti.

In parole povere, ogni stile conosceva metodi pertinenti ed efficaci per costru- ire e far funzionare la ‘scatola’ (semplice o complessa che fosse); il modo di rivestire la ‘scatola’, invece, era un problema estetico e riguardava unicamente il concetto di venustas. Questo atteggiamento progettuale, palesemente mo- strato nei revivals ottocenteschi, si può ritrovare ogni volta in cui l’architettura racconta e giustifica se stessa in relazione ad un’altra architettura che ha eletto come modello.

Quello che fecero, al contrario, le avanguardie del XX secolo, fu negare esatta- mente questo principio: l’architettura non doveva più imitare alcuna forma del passato. Non si proibiva in toto il principio di imitazione; l’architettura poteva, anzi spesso doveva, imitare qualcosa (l’industria, le automobili, i transatlan- tici, ecc.), ma era fatto divieto di riferirsi all’architettura stessa. «Gli stili sono una menzogna» scriveva duramente Le Corbusier[14], mentre Walter Gropius

si rifiutava di inserire la storia dell’architettura nel programma di studi del Bauhaus. Muthesius, contrapponendo la positiva e moderna Baukunst all’ac- cademica, borghese e sterile Stilarchitektur, aveva sperato nella fine dell’idea stessa di stile[15]. Il Moderno doveva essere uno spirito che animava l’opera

degli autori, non un’adesione a dei principi estetici, i quali, tuttalpiù, sareb- bero forse potuti emergere a posteriori, data l’iniziale comunione di intenti: il Moderno non avrebbe mai dovuto essere uno stile e i moderni dovevano

[14] Le Corbusier, Des Yeux Qui Ne Voient Pas..., in Vers une architecture, 1923, ed. It. Occhi che non vedono, in Verso una Architettura, Longanesi, Milano 1973, pp. 67

[15] Hermann Muthesius, Stilarchitektur und Baukunst, 1902 ed. Eng. Style-Architecture and Building-Art: Transformations of Architecture in the Nineteenth Century and Its Present Condi- tion, The Getty Center for the History of Art and the Humanities, Santa Monica, CA, 1994. Si vedano a proposito i paragrafi “Sachlichkeit” e “Neue Sachlichkeit” al capitolo IV

costruire in ‘nessuno stile’. In Muthesius avevano trovato fondamento le posi- zioni di Ludwig Mies van der Rohe, che, con l’aumentare della propria fama, aveva contribuito a diffondere l’accettazione di questi principii: pragmatica e scientifica ‘arte del costruire’, non più nostalgica ‘architettura’.

Tuttavia, negli anni decisivi della loro affermazione, gli autori moderni subiro- no più che altro delle pesanti sconfitte sul piano pubblico e istituzionale. In un solo decennio l’esito di tre fondamentali concorsi mostrava chiaramente que- sto aspetto. Nel 1922 il grattacielo gotico di John Mead Howells e Raymond Hood vinse il concorso per la sede del quotidiano “Chicago Tribune”, davanti ad altrettanti progetti gotici (uno su tutti quello di Eliel Saarinen), ad altri di gusto classico, a molti eclettici, ma soprattutto prevalendo nettamente sui progetti moderni di Walter Gropius, Ludwig Hilberseimer o Max Taut. An- che se la storia recente mostra come l’estetica spoglia e rigorosa dei progetti modernisti alla fine sia riuscita ad affermarsi, negli anni Venti quelle griglie monolitiche e disadorne di calcestruzzo e metallo sembravano ancora del tut- to inappropriate[16].

Nel 1926, invece, un giuria presieduta da Victor Horta, sanciva la vittoria del progetto di Paul Nenot[17] per il Palazzo delle Nazioni di Ginevra; si trattava di

un progetto di gusto classico, anche se con notevoli stilizzazioni dell’apparato decorativo; non si trattava di una riproduzione fedele di un qualche ordine ar- chitettonico particolare, ma consisteva in un’astrazione dei suoi elementi e dei suoi principi fondamentali[18]. La maggior parte dei candidati aveva presentato

progetti accademici e tradizionalisti, ognuno dei quali consisteva in una parti- colare declinazione dello stile classico: alcuni semplificati e stilizzati, altri en- fatizzati e pesantemente decorati, altri ancora palladiani o tendenti al Barocco. Tutti questi autori, e alla fine anche la giuria, erano persuasi che le forme e la composizione classica fossero in grado di esprimere meglio, in un linguag-

[16] Stanley Tigerman, Chicago tribune tower competition and late entries, Rizzoli, New York 1980 Katherine Solomonson, The Chicago Tribune Tower Competition: Skyscraper Design and Cultural Change in the 1920s, Cambridge University Press, 2001

[17] In realtà la faccenda è leggermente più complessa. Il concorso non stabilì inizialmente un vincitore, ma attribuì gli onori del primo posto a diversi progetti a pari merito. Dopo alcune consultazioni la giuria decise poi di affidare l’incarico a Nenot, affiancandogli, però, gli architetti Julien Flegenheimer, Carlo Broggi e József Vágó.

[18] Concours d’Architecture pour l’édification d’un Palais de la Société des Nations a Geneve, Im- primerie spéciale de S.A.D.E.A., Société d’Editions, Geneve 1927

gio comprensibile a tutti (nonostante le differenze di provenienza geografica o estrazione sociale) gli ideali di pace, giustizia e democrazia di cui si faceva promotrice la Società delle Nazioni. I progetti di Le Corbusier, Hendrikus T. Wijdeveld, Richard Neutra o Hannes Meyer, invece, risultavano troppo dirom- penti, moderni e ‘aggressivi’ per una simile commissione, e nonostante alcuni dei giurati ne avessero lodato il coraggio, non furono presi in considerazione. Poco tempo dopo l’inizio del cantiere del Palazzo delle Nazioni, nel 1932, Bo- ris Iofan, con un progetto classicista e marcatamente monumentale, veniva proclamato vincitore dell’ambizioso concorso per il Palazzo dei Soviet a Mo- sca, il cui stile diventò subito identificativo del regime staliniano, anche se la costruzione non procedette mai oltre le fondazioni. Il concorso aveva attirato l’attenzione di numerosi modernisti, forse incoraggiati dalla precedente af- fermazione delle avanguardie costruttiviste e suprematiste in Unione Sovie- tica, ma anche in questo caso i progetti di Walter Gropius, Le Corbusier, Moisej Ginzburg, o dei fratelli Viktor e Leonid Vesnin non sembrarono adatti per rap- presentare il potere dello stato sovietico ed esprimere al popolo i suoi contenuti[19].

[19] Giuseppe Samonà, Il Palazzo dei Soviet: 1931-1933, Officina Edizioni, Roma 1976 Viktor e Leonid Vesnin, Progetto di concorso per il Palazzo dei Soviet, Mosca, 1932

Da un lato era semplicemente troppo presto perché alle opere dell’avanguar- dia moderna potessero essere attribuiti significati ‘positivi’ e potessero quin- di essere usate con disinvoltura per grandi realizzazioni pubbliche, dall’altro proprio i moderni tendevano a negare il fatto che l’architettura potesse ‘espri- mere un significato’, cosa che invece era chiaramente ricercata nelle opere che citavano gli stili storici. I moderni, proprio dal momento che credevano nella pura necessità, nella razionalità o nell’ ‘oggettività’, rifiutavano l’aspetto retorico dell’architettura, allo stesso modo in cui consideravano assurdo che, ad esempio, un aeroplano potesse rivelare un significato diverso dalla pura espressione tecnica dello spirito del proprio tempo.

La posizione di Hannes Mayer era inequivocabile: «La mia poesia non signi- fica nulla; è e basta. Il mio dipinto non ha alcun significato. Contro l’interpre- tazione: la letteratura del silenzio: interamente radicale»[20]. Disse, a proposito

della sua proposta per il Palazzo della Società delle Nazioni: «la nostra Società delle Nazioni non simbolizza nulla»[21].