LA CAPANNA PRIMITIVA E LA MACCHINA A VAPORE
I.4 Origine della tecnica: la macchina a vapore
«Pur riconoscendo che i grandi temi mitici continuano a ripetersi nelle zone oscure della psiche, ci si può domandare se il mito in quanto modello esem- plare del comportamento umano non sopravviva anche, sotto una forma più o meno degradata, presso i nostri contemporanei. Sembra che un mito, al pari dei simboli che ne nascono, non scompaia mai dall’attualità psichica: cambia soltanto aspetto e traveste le sue funzioni. Ma sarebbe istruttivo insistere nella ricerca e smascherare il travestimento dei miti a livello sociale».
Mircea Eliade, Miti, Sogni e Misteri [31]
Sul primo numero della rivista “Stile Futurista”, edito nel 1934, venivano mo- strate immagini di locomotive, vagoni ferroviari e automobili[32]. Il breve testo
che accompagnava le immagini, dal titolo “Estetica della macchina”, rivendica- va con grande enfasi il valore espressivo di tutti i prodotti della moderna tecni- ca industriale. Non solo le macchine garantivano un miglioramento della vita dell’uomo dal punto di vista funzionale e pratico, ma erano anche portatrici di un valore simbolico ed artistico: in questi prodotti dell’industria risiedeva il moderno significato dell’arte. Per quanto la rivista esprimesse una visione tardo-futuristica, intrisa peraltro di una pesante retorica a sostegno del regime fascista, rimaneva saldo lo spirito che aveva animato la nascita del movimento: la fede nella macchina.
Aveva infatti scritto Marinetti nel suo celebre manifesto: «Noi futuristi impo- niamo alla macchina di strapparsi alla sua funzione pratica, assurgere alla vita spirituale e disinteressata dell’arte e diventare un’altissima e feconda ispiratrice d’artista che, se non vuol perire nell’impreciso e nel plagio, deve prestar fede soltanto alla propria vita e all’atmosfera in cui respira»[33].
Enrico Prampolini e Luigi Colombo (Fillìa), direttori della rivista, ribadiscono in numerosi articoli l’idea che la macchina costituisca un modello per l’arte e l’architettura; in alcuni casi rivendicano l’evidenza della sua estetica in contra- sto con gli antiquati stili accademici, in altri invocano i suoi meccanismi di
[31] Mircea Eliade, Mythes, rêves et mystères, Editions Gallimard, Parigi 1957, ed. It. Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1976, pp. 20
[32] “Stile futurista. Estetica della macchina. Rivista mensile Arte e Vita” Anno I, N. 1, Luglio 1934-XII [33] Filippo Tommaso Marinetti, Manifeste du Futurisme, Le Figaro, Parigi, 20 Febbraio 1909
funzionamento come paradigma esemplare per la composizione architettonica. Proprio tra le righe del breve scritto “Estetica della macchina” si legge una fon- damentale considerazione a proposito del ‘modo’ in cui la macchina avrebbe dovuto ispirare l’opera degli artisti: «Una macchina non può vivere con dei fronzoli, non può vivere con dettagli inutili: essa ha un ordine di indispensa- bili elementi importanti e sono quelli: una macchina insegna dunque ordine e sintesi»[34].La macchina si compone, dunque, unicamente di elementi necessa-
ri. La macchina è l’elemento archetipico di una nuova architettura.
In questa affermazione risulta in modo evidente l’analogia con le considera- zioni dell’abate Laugier sulla capanna primitiva. Come Laugier si appellava agli elementi essenziali, necessari e naturali della capanna per contestare il decorativismo Barocco, così i futuristi invocavano la medesima essenzialità, portata alle estreme conseguenze nel funzionamento della macchina, per con- testare l’architettura accademica in toto. Nei testi dei Futuristi la macchina acquisisce lo status di origine. In entrambi i casi viene formulata una critica di carattere funzionalistico: ha diritto di esistere ed è bello solo ciò che ‘serve’. Ciò che costituiva l’unica differenza sostanziale era l’accezione attribuita alla parola ‘serve’. È vero però che le modalità narrative della capanna primitiva e della macchina non posso essere equiparate in modo esatto. Se la capanna pri- mitiva traeva legittimità dall’apparire ‘sempre esistita’, originatasi Illo Tempore, gli stadi evolutivi della macchina appartenevano alla storia recente e potevano essere chiaramente datati.
La prima macchina a vapore era stata inventata da Thomas Newcomen nel 1711 per estrarre acqua dalle miniere, e le cronache dell’epoca evidenziavano con stupore come una sola macchina potesse svolgere il lavoro di 500 cavalli. Il modello era stato poi migliorato nella seconda metà del XVIII secolo da James Watt, con l’introduzione del condensatore separato, e il suo utilizzo era stato trasferito dalle miniere alla produzione industriale. Il suo impatto fu talmente dirompente, e la sua immagine così iconica, che la macchina di Watt diven- tò presto il simbolo privilegiato della rivoluzione industriale. La portata dei cambiamenti economici e sociali che ne derivò fu talmente ampia che Reyner Banham coniò la definizione di ‘Steam Machine Age’ [35].
[34] Enrico Prampolini e Luigi Colombo (Fillìa), Estetica della macchina, “Stile Futurista Esteti- ca della macchina. Rivista mensile Arte e Vita”, Ibid.
In occasione delle Esposizioni Universali del XIX secolo la macchina di Watt era una delle principali attrazioni nelle grandi Galeries des Machines. Sottratta al suo uso produttivo e consegnata alla contemplazione, appariva come un severo monumento cinetico di ferro. Il sistema trilitico acquisiva per la prima volta la dimensione del movimento perpetuo e automatico. Come la dinamo di Adams era il simbolo della ‘forza’ che muoveva un’intera epoca.
Nella grande macchina a vapore si era trasferito lo stesso spirito civilizzatore del mitico fuoco vitruviano; anche in questo caso il controllo della sua energia costituiva l’invenzione tecnica all’origine di una civiltà.
I racconti che descrivevano l’immagine della macchina, così come quelli a proposito della capanna primitiva, creavano la comunità. La macchina non era solo uno strumento di produzione ma una metafora forte di come l’uomo avrebbe dovuto agire in comunità e comprendere i fenomeni naturali. Il paradigma meccanico aveva addirittura permeato l’intera visione che l’uomo aveva del cosmo; il pensiero scientifico ne aveva supportato la razionalità del modello. Come disse Lewis Mumford: «Il nuovo mondo che l’astronomia e la meccanica hanno inaugurato è basato nei fatti su una premessa dogmatica che ha escluso da principio non solo la presenza dell’uomo ma il fenomeno della vita. Sulla base di questa nuova premessa il cosmo stesso apparì come un sistema meccanico, comprensibile solamente in riferimento ad un modello meccanico»[36].
La macchina arrivava a costituire un nuovo, inedito, stato ‘naturale’ dell’uomo industriale: il paradigma del funzionamento del cosmo e la ragione dell’esi- stenza delle strutture sociali. L’uomo moderno aveva ora il compito di domi- nare le forze della macchina come un tempo era stato in grado di dominare quelle della natura. Il metodo di questo dominio, declinato ad un grado supe- riore, avrebbe interessato ogni aspetto della vita dell’uomo e avrebbe costituito la ‘meccanizzazione’ della sua società. Siegfried Giedion la ‘naturalizzava’ così: «Quale significato ha la meccanizzazione per l’uomo? La meccanizzazione può venir paragonata agli agenti naturali, come l’acqua, il fuoco, la luce. È cieca e non ha una direzione determinata. Aspetta quindi di venire imbrigliata»[37].
[36] Lewis Mumford, The Myth of the Machine, Harcourt, Brace Javanovich, Inc., New York, 1967, pp. 33 (traduzione dell’autore)
[37] Siegfried Giedion, Mechanisation takes command 1948, ed. It. L’era della meccanizzazione, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1967, pp. 661