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Neue Sachlichkeit: individuale e oggettivo

L’UOMO VITRUVIANO E LA NEUE SACHLICHKEIT

III.4 Neue Sachlichkeit: individuale e oggettivo

Hermann Muthesius ricopriva nel 1907 la carica di Soprintendente alle Scuole di Arti e Mestieri per il Ministero del Commercio prussiano. In quell’anno pre- sentò una conferenza pubblica in cui, con toni sostenuti, metteva in guardia artigiani ed industriali dall’imitazione delle forme stereotipate del passato[38].

Il suo discorso suscitò aspre polemiche tra le corporazioni dei lavoratori, ma allo stesso modo trovò il sostegno di numerosi artisti, scrittori ed architetti, che intendevano fondare un gruppo per la ricerca e la divulgazione di nuove forme di invenzione artistica. Nasceva così il Deutscher Werkbund, il cui fon- damentale presupposto ideologico risiedeva nell’idea di Qualität: «Non solo un’opera eccellente e durevole e un uso di materiali perfetti ed essenziali, ma anche un conseguimento di un insieme organico che sia sachlich e per queste ragioni nobile»[39]. Il Politico nazionalista liberale Friedrich Neumann ebbe

un ruolo fondamentale nella fondazione del Werkbund e, in occasione di un discorso che tenne a Dresda, chiarì la propria posizione e fornì un ulteriore fondamento ideologico per il gruppo. L’intenzione era quella di estendere il concetto di Qualität agli oggetti di uso comune per tutto il popolo tedesco: «Non sono molte le persone che hanno i soldi necessari a pagare un artista, dunque molti articoli dovranno essere prodotti in serie; l’unica soluzione a questo grande problema è arricchire la produzione industriale di significato e spirito attraverso il mezzo artistico (künsterlisch zu durchgeistigen)[40].

[38] Cit. in Nikolaus Pevsner, Pioneers of Modern Design, Museum of Modern Art, New York 1949, pp. 15

[39] On the history of the Werkbund, cf. Die Form, vii, 1932, pp. 297-324, in Nikolaus Pevsner, Ibid. [40] Friedrich Neumann, Kunst und Industrie, in F. Neumann, Were, vol. VI, Kiln e Ofladen 1964, or. pub. in “Kunstwart”, 20, ottobre-novembre 1906, in Stanford Anderson, Peter Behrens and a New Architecture for the Twentieth Century, MIT, 2000, ed It. Peter Behrens 1868-1940,

Muthesius, invece, era più interessato al discorso disciplinare ed enfatizzava l’importanza della produzione industriale non solo per opporsi all’imitazione degli stili del passato ma anche per screditare la le varie tendenze Art Nuove-

au e Jugenstil che si erano diffuse tra i suoi contemporanei; era convinto che

si trattasse di innovazioni superficiali, che interessavano unicamente la scelta dell’apparato decorativo e non tanto l’idea di decorazione in sé, additata come responsabile della degenerazione dell’arte. Si trattava solamente di un’altra ma- nifestazione della “Architettura degli stili” e per questo del tutto inadatta al mondo moderno. Il punto di vista di Muthesius si fece poi ancora più definito ed esplicito qualche anno dopo, in occasione dell’esposizione del Werkbund a Colonia nel 1914, quando ebbe luogo il celebre scontro con Henry van de Velde. Muthesius si schierò nettamente in favore della standardizzazione

(Typisierung) mentre van de Velde per l’individualità artistica (Individualität).

«L’architettura e l’intera sfera dell’attività del Werkbund» diceva Muthesius «tendono verso la standardizzazione. È solo tramite la standardizzazione che possono riconquistare quell’importanza universale che avevano durante i pe- riodi di civilizzazione armoniosa. Solo attraverso la standardizzazione, come sana concentrazione di forze, può essere introdotto un nuovo gusto, affidabile e generalmente accettato»[41]. Van de Velde, invece, sosteneva che la standar-

dizzazione avrebbe mortificato il carattere libero degli artisti: «L’artista è es- senzialmente ed intimamente un appassionato individualista ed un creatore spontaneo. Non si sottometterà mai volontariamente ad una disciplina che lo obblighi al rispetto di una norma, di un canone»[42].

Nikolaus Pevsner, che aveva osservato da vicino gli stravolgimenti causati dal- la fondazione del Werkbund, aveva felicemente constatato negli anni ’30 che le posizioni di Muthesius avevano avuto la meglio. Secondo Pevsner proprio in occasione dell’esposizione di Colonia del 1914, in particolare nell’iconica fabbrica di Walter Gropius, che eleggeva come emblema della standardizza- zione, poteva essere individuata la nascita del Movimento Moderno, nel quale vedeva finalmente un’estetica adatta al proprio tempo. Fedele al proprio ruo- lo di storico, ma non astenendosi da una chiara presa di posizione, Pevsner intendeva fornire tutte le prove del fatto che l’evoluzione fosse avvenuta in

Electa, Milano 2002

[41] Die Form, Loc cit. pp. 316-317, in Nikolaus Pevsner, Ibid., pp. 17 [42] Ibid.

maniera naturale e necessaria, che le forme del Movimento Moderno fossero dunque quelle più giuste e in qualche modo inevitabili. Una delle questioni che Pevsner poneva in evidenza era quella legata al concetto di canone, a cui van de Velde si era opposto. Ogni epoca aveva aderito ad un canone, diceva Pevsner: tanto gli autori greci quanto quelli gotici, ad esempio, non si sareb- bero mai pronunciati in favore dell’individualità, e anzi non ne concepivano in alcun modo la nozione. Il canone era ciò che aveva stabilito nelle diverse epoche la convenzione necessaria per la realizzazione delle forme artistiche e senza di esso non sarebbe stato possibile condividere alcuna architettura che potesse risultare “bella” o “utile” per il proprio tempo.

Per dimostrare l’assurdità delle affermazioni di van de Velde, Pevsner si ap- pellava ancora una volta ad una concezione dell’architettura e dell’arte antica di secoli: quella secondo la quale l’opera sarebbe prima di tutto figlia di una

Karl Arnlod, vignetta satirica, Von der Werkbund Austellung, 1914

Henri van de Velde propone la sedia individuale, Hermann Muthesius la sedia standardizzata, l’artigiano, invece, la sedia per sedersi

collettività e non dell’individuo, espressione della sua cultura, della sua fede, e formulata in accordo con una regola, o canone, quale sintesi di questi fattori. Canone e standardizzazione, in Pevsner, diventavano sinonimi e le scelte degli architetti del Movimento Moderno che aveva deciso di sostenere venivano na- turalizzate nelle sue parole, con riferimento ad un modo di concepire l’archi- tettura universalmente accettato. Pevsner, però, ignorava o taceva che in occa- sione dell’esposizione di Colonia molti artisti del Werbund si sentirono offesi dalle parole di Muthesius; l’eccessivo accento posto sulla standardizzazione sembrava destinato portare ad una rigida e sterile imitazione e riproduzione seriale. Gropius stesso, che Pevsner elevava ad emblema del canone moderno, aveva in realtà pianificato, con Karl Ernst Osthaus, uno scontro con Muthesius e addirittura ipotizzato una secessione dal Werkbund [43].

In realtà la grande diatriba risiedeva probabilmente nella possibilità di conce- pire interpretazioni discordanti dell’idea di canone: si trattava di un modello da imitare in maniera esatta o di uno strumento ideale passibile di differenti traduzioni in forma?

In quell’occasione, Peter Behrens era intervenuto nel dibattito senza aderire pienamente a nessuna delle due opposte fazioni, ma ne aveva in realtà cercato una sintesi, aprendo una terza via fondata su una visione pienamente umanista; da un lato ammorbidiva il rigido e impersonale determinismo di Muthesius e dall’altro ammetteva, con dovute limitazioni, l’arbitrio dell’artista sostenuto da van de Velde. Behrens non si riferiva tanto, come Pevsner, agli autori greci e gotici che effettivamente praticavano un’architettura non autoriale e fondata sulla téchne delle maestranze, bensì agli umanisti del rinascimento italiano. Secondo Behrens l’individualità risiedeva nella standardizzazione così come la standardizzazione nell’individualità; non si trattava di forze antagoniste ma complementari e dialettiche. Il lavoro di Brunelleschi, Alberti o Palladio po- trebbe essere in qualche modo definito negli stessi termini; l’adesione ad un canone era certo evidente, ma allo stesso tempo era innegabile la cifra indivi- duale dell’artista. Secondo Behrens, in modo analogo, non era legittimo cadere nell’ingenuità di giustificare l’opera dei moderni negando completamente la loro autorialità, bensì ammettere nella permanenza dell’idea di canone anche la sua libera interpretazione: «la convenzione che diventa espressione»[44].

[43] Cit. in Stanford Anderson, Peter Behrens and a New Architecture for the Twentieth Century, Ibid. [44] I termini “convenzione” ed “espressione” sono stati scelti da Stanford Anderson in accordo

Avvalendosi dei termini utilizzati da Ernst Gombrich in un noto scritto, si potrebbe parlare del rapporto fra Norma e Forma[45]. La Norma sarebbe quindi

assimilata alla nozione di standardizzazione di Muthesius, mentre la Forma a quella di individualità di van de Velde. Nella visione di Behrens, invece, la

Norma sarebbe prerequisito necessario per la Forma, allo stesso modo in cui la Forma manifesta e conferma la verità della Norma; una non potrebbe esistere

senza l’altra.

Mito e Rito sono legati dal medesimo rapporto di reciproca dipendenza. Il mito stabilisce il canone e fornisce un metodo; il rito mette in forma ed azione i precetti del mito. Ne esistono versioni sempre mutevoli, complesse e variabi- li, ma ognuna appare universale e necessaria a chi ne professa la verità. Con Behrens si manifestava la permanenza della nozione di canone nell’ac- cettazione delle sue possibili variazioni; con l’affermazione del Movimento Moderno, invece, così come definito da Pevsner, la medesima nozione passava dall’accezione mutevole di Norma a quella statica di Dogma, in modo che po- tessero essere ammessi al suo interno coloro che ne rispettavano pedissequa- mente le regole ed esclusi, invece, i trasgressori. Ma nell’affermazione del Dog-

ma si tornava inevitabilmente all’esistenza di uno stile (quello del Movimento

Moderno) che in proprio i Moderni, affermando la verità della Sachlichkeit, avevano cercato di negare.