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b) Università di Sassari: primo rapporto sulla criminalità “Sardegna, è nata la nuova «mala» Finiti i sequestri,

aumentano rapine e attentati in area urbana”.

Costantino Cossu.

SASSARI. La Sardegna ha una sua specificità anche nelle forme di

criminalità. È il primo dato che emerge dal rapporto di ricerca coordinato da Antonietta Mazzette per il Dipartimento di economia, istituzioni e società dell’Università di Sassari. Si tratta del primo rapporto dell’ateneo sassarese, di un nuovo rapporto dopo quello della commissione d’inchiesta del 1972 che rivela i mutamenti della criminalità sarda. La particolarità dell’isola è già stata messa in evidenza più volte, con riferimento alle strutture economiche e sociali della Sardegna e alla loro arretratezza. Ciò che è del tutto nuovo, nel rapporto che ora viene reso noto, è che la criminalità isolana è messa in relazione, invece, con i mutamenti radicali che proprio quella struttura economico-sociale ha subito per effetto di un processo di modernizzazione pluridecennale, ormai giunto a compimento. Siamo, insomma, a un vero e proprio salto di paradigma. La specificità delle forme di criminalità rispetto al quadro nazionale non è più da ricercare nel passato, ma in un presente in cui la tradizione, antichi codici di valore compresi, gioca ormai un ruolo residuale. Si scopre allora, leggendo il rapporto, che, se rispetto alla maggior parte dei reati la Sardegna è in linea con i dati nazionali, ci sono due categorie di delitti che nell’isola sono sensibilmente più frequenti: gli omicidi e gli attentati. E che tutt’e due queste categorie di crimine hanno

tassi di frequenza particolarmente alti in una zona che non è più la Sardegna centrale. Alla Barbagia si aggiunge la fascia costiera occidentale, da Olbia sino a Tortolì. Antonietta Mazzette e Camillo Tidore, che si sono occupati della parte del rapporto dedicata agli omicidi, hanno scoperto che la motivazione tradizionale di questo crimine, la vendetta, è praticamente scomparsa, sostituita, al primo posto tra le cause che spingono ad uccidere, dai «futili motivi» (il 25 per cento del totale). Un segnale che dei vecchi codici ormai sopravvive solo la forma, ovvero il ricorso alla violenza come modalità diffusa di regolazione sociale. La sostanza non ha più nulla a che fare con la reale articolazione dei rapporti tra gli individui all’interno della comunità. I “balentes” di oggi non sono più agenti di un codice di giustizia alternativo a quello della modernità; sono balordi che usano la pistola per risolvere una lite al bar.

Gli attentati. Di questa parte della ricerca si sono occupati Maria Grazia

Giannichedda e Carlo Usai, che rilevano come questo tipo di reato sia relativamente nuovo in Sardegna. Nel passato era molto meno presente. È solo a partire dal 1985 che gli attentati cominciano a crescere con un andamento vertiginoso, sino al picco del 1991: 385 in un anno. Oggi le frequenze di questo delitto sono il triplo di quelle della Sicilia e di poco inferiori a quelle della Calabria. Più della metà degli attentati sono compiuti nella provincia di Nuoro: il 52,3 per cento contro il 22,9 di Sassari, il 20,3 di Cagliari e il 4,5 di Oristano. Se si considerano, però, i dati comune per comune, c’è una sorpresa. Il primo posto va a Olbia: 16,8% rispetto al 9,7 di Nuoro. Il terzo e il quarto della classifica sono occupati da Fonni e da Orgosolo. Al quinto c’è Buddusò. Dal punto di vista dell’analisi qualitativa, Giannichedda e Usai rilevano come la stragrande maggioranza degli attentati resti impunita, quasi mai si arriva ai colpevoli. Altro dato importante è che questo tipo di delitto non è esclusivo delle zone interne né di aree povere e marginali, come dimostra il dato clamoroso di Olbia ma anche l’alta frequenza di attentati lungo tutta la fascia costiera da Santa Teresa a Tortolì, zona turistica con tassi di reddito pro capite in

crescita. Infine, soltanto il 9 per cento circa delle vittime ricoprono incarichi politici o amministrativi e solo il 4 per cento sono poliziotti o carabinieri. Dato che ha una sua rilevanza se si vuole spiegare il fenomeno attentati. Spiegazione che Giannichedda e Usai legano a quattro principali moventi: le estorsioni, la concorrenza tra piccole imprese, la pressione verso autorità o istituzioni pubbliche, i contrasti di famiglia o di vicinato. Con una netta prevalenza delle prime due tipologie, a conferma del fatto che anche per gli attentati la radice del problema non affonda più nel passato e invece ha molto a che fare con il processo di modernizzazione, o meglio, con le particolari caratteristiche che quel processo ha assunto in alcune zone della Sardegna. In alcune aree urbane, ad esempio Olbia, la modernizzazione sembra essersi compiuta senza residui. E qui siamo in presenza di forme di criminalità molto simili, nei modi e nei moventi, a quelle di qualsiasi altra area urbana. Nelle zone, invece, dove più forte era il peso della tradizionale struttura economico-sociale e dei suoi codici di valore, sembra essersi realizzato una sorta di equilibrio, in cui alcuni aspetti del vecchio (l’uso della violenza come strumento di regolazione dei rapporti sociali) convivono con una società ormai pienamente inserita nel contesto dell’economia mondializzata. Un’analisi che pare confermata anche dal capitolo della ricerca dedicato alle rapine, tipico reato urbano, di cui si sono occupati Stefania Paddeu e Camillo Tidore. Al contrario di quanto avviene per omicidi e per attentati, la media sarda di questo delitto è nettamente inferiore a quella nazionale, con una prevalenza della provincia di Cagliari, la più urbanizzata dell’isola. Il dato interessante è che mentre Cagliari e Sassari, nel periodo dal 1993 al 2003, viaggiano su un trend di stabilità, per Nuoro e provincia il tasso di rapine è in costante ascesa. Spariscono i sequestri di persona e aumentano, di anno in anno, le rapine. Un altro segnale di modernizzazione, in un quadro, dentro il quale la violenza è ancora una costante. «Occorre spiegare - scrive Giovanni Meloni nel capitolo «La criminalità in Sardegna, un’interpretazione» - perché, nonostante i notevoli mutamenti economici e

sociali, che hanno determinato la scomparsa del banditismo classico, legato al codice della vendetta, si conservi pur sempre, in determinate aree dell’isola, un tasso di violenza assai elevato. L’ipotesi che qui avanziamo parte dalla constatazione che i processi economici, mentre hanno mutato la struttura della società delle aree interessate (eliminando la pastorizia transumante), non hanno risolto i problemi sociali di fondo». Il vecchio, insomma, sopravvive come forma senza più contenuti. La violenza, slegata dagli antichi codici, diventa uno degli aspetti di una modernità realizzatasi solamente a metà. Con il rischio che il peggio del vecchio e il peggio del nuovo si puntellino a vicenda. Rischio che vale, in Sardegna, per la criminalità e per molte altre cose.

(30 giugno 2006)

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