Angelo De Murtas, La Nuova Sardegna, 11 giugno 2000.
Di norma la distinzione dei ruoli è ben chiara e rigida: di là i banditi, costretti a nascondersi, all'occorenza a fuggire, in ogni caso ad esercitare clandestinamente la loro poco lodevole attività; di qua i carabinieri, statutariamente obbligati a dar loro la caccia e, appena possibile, ad arrestarli. E se le cose andassero in modo diverso da quello dovuto? se, si vuol dire, i banditi non si nascondessero né fuggissero, e se da parte loro i carabinieri, incontrandoli per strada, fingessero di non vederli o li salutassero compitamente? Furono proprio queste le condizioni di convivenza felice, benchè paradossale, che si instaurarono ad Orgosolo nel giugno del 1917, dopo che la corte d'assise di Sassari ebbe sancito la fine della lunga 'disamistade'. Questo accadde con l'assoluzione dei dieci componenti del clan dei Succu-Corraine chiusi già da diversi anni nelle carceri di Nuoro e, insieme a loro, i latitanti, tutti appartenenti allo stesso clan, che, meno compromessi di altri, si erano costituiti alla vigilia del processo. Dovettero invece restare alla macchia gli altri banditi (erano Onorato Succu e Domenico Musio, accusati ciascuno di quindici omicidi, Antonio Succu e Antonio Musio, cinque omicidi ciascuno, e Battista Corraine e Nicolò Succu, ritenuti responsabili rispettivamente di quattro e di tre delitti), per i quali neppure in quel clima di lieto idillio vi poteva essere possibilità di assoluzione. Si è detto: dovettero restare alla macchia, ma era espressione largamente impropria, poichè Onorato Succu e gli altri poterono tornare a Orgosolo, vivere nelle loro case, prendersi cura del loro bestiame e delle loro terre. Carabinieri e polizia
fingevano di non vederli; accadde, anzi, che qualche componente delle forze dell'ordine avesse con loro rapporti cordiali. Tornando s'erano scoperti più poveri di quanto fossero un tempo, un poco perché i loro quindici anni di latitanza non erano sicuramente valsi ad aumentare la consistenza dei loro armenti né a rendere più fertili le loro terre, e un poco perché le generali difficoltà dell'economia che la guerra faceva pesare sull'Italia non risparmiavano né la Sardegna né Orgosolo. Non ebbero difficoltà, però, a porre rimedio al deperimento del loro patrimonio mettendo a frutto le loro riconosciute capacità professionali nel campo del furto di bestiame, attività che non veniva considerata particolarmente riprovevole purché esercitata in modo corretto, cioè in territori che non fossero quello d'Orgosolo. Nel 1919 Onorato Succu, deciso a condurre un'esistenza quanto possibile regolare, prese moglie; la sposa era Serafina Manca. Le nozze, celebrate da don Antonio Paddeu, parroco di Mamoiada, nella chiesa di San Leonardo, furono seguite, come prescriveva la consuetudine, da un gran pranzo al quale non mancarono di partecipare le autorità locali, non escluso qualche carabiniere. Vita tranquilla, agiatezza economica, una casa, una moglie: poteva un bandito desiderare di più? Tutto sarebbe andato per il meglio per un tempo indefinito se a turbare quell'ammirevole clima di buona armonia non fosse intervenuto un malaugurato incidente. L'etnologo Franco Cagnetta, che ha ricostruito con scrupolo minuzioso la storia di Onorato Succu, sostiene che era stato probabilmente lo stesso ministro degli interni a disporre che le forze di polizia non si curassero del bandito e dei suoi compagni. Ma di questa benevola disposizione non doveva essere informato il brigadiere Giovanni Michele Maiorca, il quale la sera del 20 agosto 1920 - da pochi giorni aveva preso servizio ad Orgosolo -, mentre al comando di una pattuglia di carabinieri compiva una perlustrazione nelle campagne, s'imbattè in un gruppo di pastori, tutti armati di fucile. Il sottufficiale si accostò a quello che sembrava essere il più maturo e autorevole e gli chiese il porto d'armi. L'altro, stupito da quella iniziativa del tutto
inconsueta, si limitò a rispondere: «Ma io sono Onorato Succu». Seguì uno scambio di battute sempre più concitate, fino a quando dal fucile d'uno dei pastori partì un colpo che uccise il brigadiere. Vi fu un momento di confusione, del quale i pastori profittarono per fuggire. Onorato Succu e i compagni furono costretti a tornare alla vita alla macchia. Il governo, in grave imbarazzo, non poté che porre una taglia sulla loro testa e disporre che il brigadiere Maiorca avesse funerali solenni. Ma per i banditi si preparavano i giorni d'un trionfale riscatto. Poche settimane più tardi, il 6 ottobre, un ragazzo di quattordici anni, Antonio Tolu, figlio d'un ricco possidente, mentre sorvegliava un gregge al pascolo fu sopraffatto da alcuni uomini mascherati, trascinato per ore per luoghi scoscesi, infine gettato in fondo a una grotta la cui imboccatura fu bloccata con un macigno. L'indomani suo padre Michele ricevette la richiesta del riscatto: per liberarlo i banditi chiedevano centomila lire, somma a quei tempi enorme. Michele Tolu non possedeva tanto denaro, né avrebbe saputo come procurarselo. Sapeva, però, come indurre i rapitori a restituirgli il figlio. Riuscì a mettersi in contatto con Onorato Succu e gli chiese aiuto; il bandito gli suggerì di spargere la voce che lui stesso e i suoi compagni si sarebbero adoperati perché il ragazzo fosse lasciato libero. Tanto bastò perché pochi giorni dopo Antonio Tolu tornasse a casa incolume. Era una prima vittoria, che nei fatti attribuiva ai banditi un autorevole ruolo sociale. Ma ve ne fu subito dopo un'altra, ancor più significativa. Il 5 novembre fu rapito un altro ragazzo, il tredicenne Pasquale Farina, figlio tardivo di un vecchio possidente, Francesco. Anche questa volta il riscatto richiesto fu di centomila lire. Escluso che fosse il caso di cedere alle pretese dei rapitori, restavano due possibilità: ricorrere ai carabinieri, oppure a Succu e ai suoi. In una pubblica assemblea fu scelta la seconda soluzione, che il sottufficiale veneto che comandava la stazione, il brigadiere Pradal, aveva sconsigliato benché, evidentemente, non sapesse che fare per ottenere la liberazione del ragazzo. Lo sapeva molto bene, invece, Onorato Succu, al quale era stato chiesto d'intervenire. Il bandito convocò una sorta di
tribunale del quale facevano parte i capi delle principali famiglie del paese e davanti a quel consesso interrogò coloro sui quali potevano cadere ragionevoli sospetti. Ne trasse una somma d'indicazioni che gli consentirono di andare quella sera stessa a casa dei fratelli Michele e Pasquale Sio e di costringerli, minacciandoli, a confessare d'avere rapito il ragazzo. Da soli? No, insieme a Francesco Buesca, a suo padre Salvatore e a Francesco Filindeu. Nel giro di poche ore catturò uno per uno tutti i rapitori e, convocato in casa sua il brigadiere, gli consegnò i cinque prigionieri, che in seguito furono processati e condannati. Ai carabinieri non restò che andare a prelevare il ragazzo nel luogo nel quale era tenuto prigioniero e riconsegnarlo ai suoi. Tanto valse a consolidare il prestigio dei banditi e a ristabilire i rapporti di serena convivenza fra loro e le autorità costituite, alle quali, sebbene non potessero ammetterlo, il fatto che i fuorilegge, per una paradossale inversione di ruoli, fossero in qualche modo divenuti i garanti della sicurezza pubblica non doveva riuscire sgradito. Quello che s'era in tal modo instaurato era dunque un generale stato di cose altamente soddisfacente per tutti e dal quale tutti - poteri costituiti, banditi, ordinari cittadini - trassero vantaggio per diversi anni. A sciupare tutto fu l'avvento del fascismo, evento rovinoso per Orgosolo come per ogni altro luogo e ogni altro aspetto. Nel dicembre del 1926 Nuoro divenne il capoluogo d'una nuova provincia; come prefetto vi fu mandato Ottavio Dinale, interprete fedele degli atteggiamenti ringhiosi del regime mussoliniano. Poteva un personaggio di tal genere, poteva il fascismo del quale era il proconsole, tollerare il fatto che nella nuova provincia restasse alla macchia un buon numero di banditi? In particolare per il governo fascista e per il suo prefetto era intollerabile il fatto che restasse libero e attivo Onorato Succu,'l'uomo - come fu scritto in seguito - che dalla macchia proponeva compromessi agli imbelli governi socialdemocratici e trovava persino ministri compiacenti che con lui scendevano a patti'. Il tacito patto che per qualche anno aveva assicurato ad Orgosolo qualche tranquillità perdeva ogni valore: ciascuno, banditi da
una parte, carabinieri dall'altra, riassumeva il proprio ruolo naturale. Il solerte prefetto fece quanto doveva essere fatto: lanciò appelli e proclami e mobilitò tutte le forze dell'ordine, le quali, a loro volta, intensificarono la loro attività e misero alla frusta i loro informatori. Quella sorta di crociata non restò priva di risultati. La sera del 29 marzo 1927 il brigadiere Giovanni Baita, che comandava la stazione dei carabinieri di Mamoiada, venne a sapere che Onorato Succu e alcuni altri banditi soggiornavano in un ovile di un ricco proprietario, Raimondo Meloni, in una lontana campagna chiamata “sas Fossas”. A tarda notte partì con le forze delle quali disponeva, in tutto sei carabinieri. Dopo ore di marcia la pattuglia giunse a breve distanza dall'ovile divenuto rifugio dei banditi. L'attacco fu preparato con qualche sapienza tattica: due carabinieri a un lato dell'ovile, altri due al lato opposto, il brigadiere con gli altri due militari davanti alla porta dell'ovile. Intendevano attendere l'alba, ma l'abbaiare di due cani, che denunciava la loro presenza, li costrinse a un'azione precipitosa. Un carabiniere, Pietro Melis, spalancò la porta della capanna, ma fu ucciso da una scarica di fucilate partita dall'interno. Ne seguì un'intensa sparatoria durante la quale si vide un uomo balzare fuori dalla capanna e sparire nella macchia. Il conflitto non durò a lungo, perché poco dopo dall'ovile si levò una voce che annunciava: «Ci arrendiamo». I carabinieri irruppero nella capanna: vi trovarono due morti, Onorato Succu e il latitante Francesco Carta, di Austis, un ragazzo ferito - era Pasquale Podda, di diciassette anni - e, incolumi, due pastori. Poco più tardi nel folto della macchia fu trovato il corpo dell'uomo che aveva tentato di fuggire: era Eligio Salis, di Orgosolo, da pochi mesi alla macchia. Il ragazzo ferito fu portato all'ospedale di Nuoro, ma vi morì dopo poche ore. Era finita dunque: della «disamistade» di Orgosolo era stata cancellata l'ultima traccia. In quei giorni un oscuro cantore popolare compose ingenui versi di compianto per la morte di Onorato Succu, «il famoso gigante della foresta, anima invulnerabile e gentile»: il prefetto fascista poteva sconfiggere i banditi, ma non le leggende che, morendo, lasciano dietro di sé.