Perché in Sardegna non c' è la mafia Caro Montanelli? Quale ritiene sia il motivo principale per il quale la Sardegna, pur essendo una regione del Sud, con una società e un'economia che non si discostano molto dalle altre regioni del Mezzogiorno, non sia stata sino a ora, se non in maniera irrilevante e sporadica, soggetta alla mafia? Gradirei da lei, che mi risulta abbia vissuto i suoi primi anni in Sardegna, un parere che chiarisse questa positiva non propensione. Giovanni Piga, Caro amico, Il quesito che lei mi pone me lo sono sempre posto anch'io, che di Sardegna sono effettivamente intriso. Che una mafia sarda non sia mai esistita, è un fatto. Il perché è un interrogativo che io, pur non essendo un sociologo né pretendendo di darmene le arie, spiego così. La mafia è il prodotto di una
società in dissoluzione. Il mio vecchio amico Virgilio Titone, storico siciliano un pò pazzo, ma geniale, ne faceva risalire l'origine alla morte di Federico II, il grande Imperatore del Duecento, il cui esercito era formato soprattutto da mercenari saraceni. Rimasti senza padrone né protettore, costoro si rifugiarono nell' interno della Sicilia formandovi delle società di mutuo soccorso, da cui in seguito si sviluppò la mafia. Questo mi sembra che somigli più a un romanzo che a una genesi storica. Quindi mi contento di cominciare da tempi più recenti: quelli della formazione dei grandi latifondi, elemento base della economia siciliana. Lei mi dirà che il latifondo c'era anche nell' Italia continentale, in Toscana, in Emilia, nella Pianura Padana. È vero. Ma qui aveva una caratteristica: che il latifondista, cioè il padrone, sulla terra ci viveva, a contatto coi contadini, e c'investiva i suoi soldi per apportarvi quelle migliorie di cui anche il contadino profittava. Il latifondista siciliano, «il Barone», viveva nel suo palazzo di città, non nella «fattoria» di campagna dove non metteva quasi mai piede lasciandone l'amministrazione al «massaro» che tanto più guadagnava la sua fiducia e cresceva d'autorità quanto più sfruttava il lavoro dei contadini e li vessava. Fu in questa specie di classe media interposta fra padrone e servo (quale il contadino veniva considerato e trattato) che si formò la mafia e crebbe sfruttando sia l'uno che l'altro. Furono loro a fare prestiti a interessi strozzineschi al barone impoverito, a estrometterlo dalle terre, e a sostituirlo nella gerarchia sociale come avviene nel «Gattopardo» di Lampedusa. Ora, lo so, tutto è cambiato perché il latifondo non esiste più e il barone è morto o emigrato. Ma l'origine della mafia è questa, e di questa reca tuttora i caratteri: quelli di una classe nuova e brutale che si sostituiva a quella, in decomposizione, dei baroni. In Sardegna non è mai avvenuto nulla di simile. Latifondi non ce n'erano nemmeno ottanta o più anni fa, quando io, ragazzo, ci vivevo e crescevo. La ricchezza (si fa per dire) non si misurava dagli ettari di terra quasi tutta a pascolo, ma caso mai dai capi di bestiame. La sua popolazione era fatta di solitari pastori, che non conoscevano né padrone
né massaro, vivevano la vita delle loro pecore, nutrendosi dei loro prodotti, e a casa ci tornavano ogni due o tre mesi. Il banditismo nasceva quasi esclusivamente dall'abigeato, non diventava mai brigantaggio e non contaminava la società creandovi centri d'infezione perché il bandito (rispettosamente chiamato «latitante») dalla società si separava per vivere alla macchia fidando sulla solidarietà del pastore, anche lui «fratello separato». A spingerlo a questa vita libera e solitaria era quell'infuso di orgoglio e di coraggio che fa obbligo al sardo di non lasciare impunita nessuna offesa e che nel suo linguaggio si chiama «balentia», valentia. Almeno finché resta nel suo ambito naturale, il banditismo sardo non ha nulla di contaminante. È quando emigra in continente che diventa brigantaggio e delinquenza come quella dei sequestri di persona. Ecco la mia diagnosi, se così possiamo chiamarla. A differenza della mafia che come un cancro infetta e corrompe la società, il banditismo sardo era soltanto una casistica di vicende individuali senza nesso fra loro. I «latitanti» di Orgosolo, i più genuini di tutti, non hanno mai ricattato né sequestrato nessuno. Ci sono cresciuto in mezzo. E mai mi sono sentito più sicuro come fra loro.
«Il santuario dell'identità sarda».
La Nuova Sardegna, 6 giugno 2003, pag. 2.NUORO. Ha scelto la quiete della campagna nuorese per ritemprarsi. Lunghe giornate di relax intervallate da sedute di massaggi ed esercizi in palestra. Attorniato dai componenti del suo staff e dalle guardie del corpo, che ormai possono essere considerate suoi figli. Francesco Cossiga, Presidente emerito della Repubblica, ha scelto Su Gologone «per respirare la mia aria, l’aria della Sardegna» in questa torrida primavera. Massima riservatezza e tranquillità. Unico segno della presenza di «qualcuno importante» nell’hotel ristorante ai piedi del massiccio del
Corrasi: due auto dei carabinieri nel piazzale. Nel silenzio del giardino interno, gli uccellini si rincorrono cantando sotto il pergolato mentre intorno ai tavolini alcuni uomini in giacca e cravatta chiacchierano sottovoce e scrutano con misurata distrazione quel che accade. Senza farsi sfuggire niente. Entrare nel cortile è come sottoporsi a un esame radiografico. Non si nota nulla, ma nell’aria si respira qualcosa di strano. «Il Presidente ci ha detto di accompagnarlo da lui, in palestra», spiegano i suoi collaboratori più stretti, lasciando intendere che è una concessione eccezionale, quasi clamorosa. Francesco Cossiga è impegnato a camminare sul «tapis roulant», attorniato dal fidatissimo Mario Carta e dai ragazzi della scorta. Indossa una polo a maniche corte grigia, calzoni corti rossicci, calzettoni alti neri. Un sorriso smagliante scioglie subito la tensione. «Sono venuto qui per respirare l’aria della mia terra - attacca il presidente, dopo essersi accomodato su una poltroncina accanto a un tavolino sul quale troneggia un piatto colmo di fettine di kiwi -. È una sensazione particolare. Si sta davvero bene, sembra di essere a casa. Come a Sassari, dove sono nato, a Chiaramonti dove è nata mia madre e a Siligo e Bonorva che mi hanno donato la cittadinanza onoraria». L’Ortobene si staglia sullo sfondo, dai finestroni della palestra si vedono le prime case del quartiere di Mughina. «Nuoro è una città incredibile, è il santuario dell’identità sarda - ha esordito Francesco Cossiga -. A Nuoro hanno sviluppato musei e biblioteche, sono nate case editrici, ci sono centri di ricerca e di studio. Sì, è davvero l’Atene sarda. Città e territorio dalle mille contraddizioni. Ma per capirlo basta leggere i libri dei grandi Sebastiano Satta, Grazia Deledda e Giuseppe Dessì o dell’altro grande scrittore Salvatore Satta che è morto sapendo solo di essere un grande giurista e un grande avvocato e invece era anche un grande scrittore. Da quei libri emergono la tristezza, la litigiosità, l’individualismo dei sardi. Ecco perché in Sardegna non è pensabile la mafia: i sardi si sentono molto uniti fra loro solo quando sono fuori, altrimenti sono individualisti. E purtroppo c’è da pensare che Carlo V non avesse torto quando diceva che
siamo “pocos, locos y male unidos”>>. […] Nella quiete di Su Gologone il Presidente Cossiga ha invece colto l’occasione per parlare di Sardegna. Del cuore della Sardegna. Delle zone interne che stanno soffrendo la crisi dell’industria. Delle coste che potrebbero dare ricchezza. Delle campagne. «Cattedrali nel deserto? È facile dirlo adesso, dopo la crisi del petrolio che ha messo in ginocchio l’industria petrolchimica pubblica e privata - ha spiegato -. Qui in Sardegna c’erano tra i migliori impianti del mondo dal punto di vista ingegneristico, ma con l’aumento del prezzo del petrolio i costi sono saliti alle stelle. E poi in Italia era difficile che potesse esistere qualche industria petrolifera accanto all’Eni e infatti sono tutte scomparse. Diciamo pure che l’Eni le ha dato una mano per farle cadere e oggi è rimasta solo l’Eni. «Non conoscendo la mentalità del sardo, si è creduto che il banditismo con il sequestro di persona e altro fosse dovuto al fatto della disoccupazione e che occorresse una civilizzazione coatta di tipo italico: questo è stato un grosso errore - ha ammesso con un sorriso amaro Francesco Cossiga -. Un errore fatto anche dai miei amici Paolo Emilio Taviani, allora ministro dell’Interno e Vicari capo della polizia. E alcuni sardi, anch’io stesso, gli abbiamo dato un mano, al solo scopo di far venire qui l’industria. Che come l’industria petrolifera italiana è finita con il “salto” della Montedison, divisa a pezzi e venduta all’estero. «Credo che qui abbiamo sbagliato il tipo di industrializzazione, anche se non sono cattedrali nel deserto. Da noi sarebbe invece stata necessaria un’industria su cui gravassero poco i prezzi del trasporto - ha continuato il Presidente emerito della Repubblica -. Ora ci sentiamo penalizzati per il costo dell’energia, per cui credo che la bozza di Piano della commissione presieduta da Paolo Savona abbia visto giusto mettendo come priorità assoluta quella energetica e dicendo che l’investimento dello Stato per garantire la continuità territoriale anche dal punto di vista energetico debba consistere nel legarci ai gasdotti che vengono dall’Algeria». «E poi teniamo presente che noi sardi abbiamo altre grandi possibilità - ha aggiunto Francesco Cossiga, illuminandosi e spostando lo sguardo verso
il massiccio del Corrasi, quasi perdendosi in quel fantastico scenario naturale -. Una è il turismo. Da sfruttare razionalmente senza le esagerazioni di una tutela del territorio, che è comunque necessaria per continuare a far valere le nostre bellezze. Ma sarebbe stata una follia tenere la Costa Smeralda senza sviluppo e sarebbe una follia se avessimo continuato a tenere Arbatax e Tortolì senza aeroporto. Anzitutto, è l’ambiente per l’uomo e non viceversa. E non possiamo trascurare le due coste, orientale e occidentale, belle quanto e forse più di quelle dei capi di sopra e di sotto. Dovremo cercare di avere un turismo residenziale, senza dimenticare che il turismo di lusso deve esistere perché serve come richiamo, anche se ha poco a che vedere con la Sardegna. Ma non esiste solo la Costa Smeralda, ci sono gioielli come Bosa, Lanusei. E infine, dobbiamo sviluppare le nostre tradizioni, agricola e pastorale, l’artigianato, di supporto al turismo, perché chi si abitua ai prodotti sardi li vuole sempre». […]