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Come abbiamo visto403, il lavoratore può acquisire il superiore inquadramento anche in assenza di un mutamento qualitativo della prestazione: il riferimento è a quei sistemi di inquadramento previsti dai contratti collettivi in cui la progressione di carriera costituisce l’effetto immediato e diretto di determinati presupposti di fatto (come il decorso di un determinato periodo di permanenza nel livello contrattuale inferiore) nonché alla c.d. qualifica convenzionale, consistente nell’attribuzione (pattizia) al lavoratore di una

398 M.BROLLO, Le mansioni del lavoratore, cit., p. 584.

399 F.LISO, op. cit., p. 247.ss

400 E.GHERA, Mobilità introaziendale e limiti all’art. 13 dello statuto dei lavoratori in

Mass. Giur. Lav., 1984, p. 403.

401 V. Cass. Sez. Lav., 14 maggio 1979, n. 2783 (massima) disponibile su

www.iusexplorer.it.

402 V. Cass. Sez. Lav. 15 febbraio 1996, n. 1175 disponibile su www.iusexplorer.it: “Per cui quando (…) non vi sia dequalificazione, anzi mutamento delle mansioni per effetto di passaggio alla categoria superiore e sia assicurata una retribuzione che, seppur ridotta per effetto di impegno lavorativo, quantitativamente minore, resti nei limiti tabellari, è da escludere che ricorrano gli estremi della (…) violazione di legge”.

qualifica superiore a quella corrispondente alle mansioni da lui effettivamente svolte.

Tali ipotesi, in realtà, hanno alimentato una diatriba interpretativa sulla necessità della corrispondenza tra inquadramento e mansioni effettivamente svolte404.

Un primo filone interpretativo, sulla base di una lettura ancorata al dato testuale della disposizione, che prevede che il lavoratore debba essere “adibito” alle mansioni previste dal livello contrattuale “superiore” “successivamente acquisito”, ha riconosciuto in capo allo stesso un diritto allo svolgimento di mansioni “corrispondenti” al proprio inquadramento: da qui l’illegittimità della qualifica convenzionale e di tutti i sistemi di progressione automatica di carriera405.

Tuttavia, l’orientamento prevalente (con l’avvallo della giurisprudenza) ammette la possibilità di uno scollamento fra inquadramento e svolgimento effettivo delle mansioni corrispondenti: l’art. 2103 c.c. di fatto si limiterebbe a disciplinare i problemi di inquadramento (e quindi di trattamento nei sistemi di progressione di carriera) connessi ad un mutamento di mansioni406; la fattispecie della qualifica convenzionale, quindi, si collocherebbe al di fuori della previsione codicistica407.

E ciò risulta confermato da un lato dall’impossibilità per il lavoratore di “invocare la qualifica superiore solo convenzionalmente attribuita per pretendere di svolgere le mansioni ad essa corrispondenti” nonché “per rifiutare l’esecuzione dei compiti a cui era stato fino ad allora adibito”; dall’altro dal fatto che il datore di lavoro “non può invocare tale qualifica convenzionale per disapplicare l’eventuale normativa inderogabile di tutela prevista per la categoria corrispondente alle mansioni effettivamente svolte dal

404 M. BROLLO, op. cit., p. 586.

405 G. GIUGNI, Mansioni e qualifica, (voce) consultabile su www.iusexplorer.it. V.

Cass. Sez. Lav., 20 aprile 1995, n. 4437; Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 1997, n. 10631; Cass. Sez. Lav., 22 febbraio 2006, n. 3859 disponibili su www.iusexplorer.it.

406 F. LISO, op. cit., pp. 147-148; Cass. Sez. Lav., 12 settembre 2002, n. 13326,

consultabile su www.iusexplorer.it. 407 G.CASIELLO, op. cit., p. 127.

dipendente”408.

408 Come, ad esempio, nel caso del licenziamento del c.d. “dirigente apparente”, il quale godrà egualmente della tutela legale contro il licenziamento ingiustificato ove venga dimostrato il livello non dirigenziale delle sue mansioni: C.PISANI, op. cit., p. 160.

CAPITOLO QUINTO

LE FORME DI TUTELA DEL LAVORATORE

CONTRO IL MUTAMENTO ILLEGITTIMO DI

MANSIONI.

SOMMARIO

: 5.1 La qualificazione giuridica del demansionamento – 5.2

L’autotutela individuale – 5.3 L’azione cautelare – 5.4 L’azione di nullità degli atti e patti contrari alla disciplina legale – 5.5 L’azione di condanna – 5.5.1 (Segue): L’incoercibilità della tutela ripristinatoria – 5.6 La tutela risarcitoria – 5.6.1 Le tipologie di danni risarcibili – 5.6.2 La prova e la liquidazione del danno – 5.7 L’onere della prova della legittimità o illegittimità del mutamento di mansioni.

5.1 La qualificazione giuridica del demansionamento

L’esercizio dello jus variandi datoriale al di fuori dei limiti posti dall’art. 2103 c.c. comporta un illecito demansionamento del lavoratore.

Sotto il vigore del vecchio art. 2103 c.c. con tale termine si indicava la fattispecie della violazione dell’equivalenza: come abbiamo visto, secondo una giurisprudenza consolidata, “il demansionamento era configurabile ogni qual volta le nuove mansioni non consentivano al lavoratore di conservare la professionalità acquisita, anche se erano inquadrate nello stesso livello delle precedenti, ovvero a fortiori erano inquadrate in un livello inferiore”409. Con l’art. 3 del d.lgs. 81/2015 il legislatore ha ampliato l’ambito di

esigibilità ordinario delle mansioni (passato da quelle “solo” equivalenti a tutte quelle nello stesso livello e categoria) prevedendo in deroga a tale regola generale, ipotesi di legittima adibizione del lavoratore a mansioni inferiori410; pertanto alla luce del nuovo art. 2103 c.c. ci troveremo in presenza di un

409 C.PISANI, op.cit., p. 93.

mutamento illegittimo di mansioni (e quindi di un demansionamento vietato) nei casi di assegnazione a mansioni:

- inquadrate nello stesso livello delle precedenti ma di una categoria legale inferiore;

- inquadrate in un solo livello inferiore ma di una categoria legale inferiore; - inquadrate in un livello inferiore a parità di categoria ma in assenza della causale giustificatrice di cui al comma 2 o della previsione del contratto collettivo di cui al comma 4;

- inquadrate in un livello inferiore ai sensi dei commi 2 e 4, ma in assenza di forma scritta della comunicazione del mutamento di mansioni;

- inquadrate in uno o più livelli inferiori o in una categoria legale inferiore ma in assenza delle causali previste dal comma 6 per gli accordi in deroga; - inferiori in forza di accordo ma stipulato non nelle sedi indicate nel comma

6411.

Prima di affrontare il tema delle tutele utilizzabili dal lavoratore contro tali illegittime modificazioni, occorre esaminare quello della qualificazione giuridica del demansionamento.

Se la questione può considerarsi in via generale di scarso rilievo pratico (v. infra), essa, con riferimento alle fattispecie intertemporali assume, invece, un ruolo dirimente412.

Secondo una prima tesi, ampiamente condivisa in dottrina, il demansionamento (illecito) costituisce un atto di esercizio dello jus variandi radicalmente nullo413 in quanto contrario a norma imperativa, e quindi inidoneo a produrre qualsivoglia effetto giuridico414.

411 C.PISANI, op. cit., p. 94.

Ricordiamo che viene ricompresa nella fattispecie del demansionamento anche la sottrazione di mansioni (sempre che non rientri nelle deroghe di cui ai commi 2, 4 e 6) fino al caso in cui il dipendente venga lasciato in condizioni di forzata inattività.

412 E.GRAMANO, Sull’applicabilità temporale del nuovo art. 2103 cod. civ. in Arg.

dir. lav., 1/2016, p. 123. Cfr. Cap. I, par. 1.7.

413 G.GIUGNI, Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli, 1963, p.

368; M.BROLLO, La mobilità interna del lavoratore, cit., p. 246. 414 G.GIUGNI, op, cit., ibidem.

Si è sostenuto come nonostante il “vecchio” secondo comma dell’art. 2103 c.c.415 preveda la sanzione della nullità solo per i “patti contrari”, stante il carattere imperativo della disposizione, la sua violazione determini anche la nullità del negozio unilaterale ai sensi degli artt. 1418, comma 1 e 1324 c.c.416. Altra parte della dottrina, invece, ritiene che il demansionamento integri un

inadempimento contrattuale, e non anche un atto nullo417.

E’ questa la tesi accolta anche dalla giurisprudenza maggioritaria; anche se occorre evidenziare che “poca attenzione è stata dedicata dai giudici al tema della qualificazione giuridica del demansionamento” 418.

Di fatto, alcune sentenze (poche) hanno accolto la ricostruzione del demansionamento come atto nullo e quindi inefficace419; altre invece hanno

qualificato l’illegittimo esercizio dello jus variandi come inadempimento contrattuale: si sono pronunciate in questo senso le Sezioni Unite con la sentenza n. 6572 del 2006420, le quali hanno ritenuto che poiché “l’illecito [il demansionamento] consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal contratto [divieto di dequalificazione], il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 c.c.”.

Anche la Corte Costituzionale nella sentenza che ha esteso il privilegio generale sui mobili al credito per danni da demansionamento, fa riferimento alla violazione dell’“obbligo” del datore di “adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto”421.

415 (Ora comma 9, nell’attuale formulazione).

416 M.BROLLO, op. cit., ibidem.

417V.FERRANTE, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Giappichelli,

Torino, 2004, p. 274 s., il quale ha sostenuto che se veramente il legislatore avesse inteso sancire la nullità dell’atto datoriale di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori, non ci sarebbe stato bisogno di colpire con la nullità i patti tendenti al medesimo risultato: la nullità dei patti discenderebbe già logicamente da quella degli atti unilaterali del datore.

418 E.GRAMANO, op. cit., p. 121.

419 V. Cass. Sez. Lav., 28 ottobre 1997, n. 10627; più di recente Cass. Sez. Lav., 8 aprile

2014, n. 8209 consultabili su www.iusexplorer.it. 420 Sentenza leggibile in www.iusexplorer.it.

Nella stessa direzione anche altre pronunce della Suprema Corte che, come abbiamo visto422, si sono spinte fino ad affermare un più generale diritto del lavoratore all’esecuzione della prestazione423.

Non sono mancate tuttavia sentenze che hanno qualificato l’atto datoriale come nullo, ma facendovi discendere conseguenze in termini di inadempimento (e non di mera inefficacia)424.

La scarsa attenzione prestata al tema della corretta qualificazione del demansionamento si spiega in virtù del fatto che la giurisprudenza riconosce ormai pacificamente, e indipendentemente dalla qualificazione del demansionamento, il diritto del lavoratore (previo esperimento dell’azione di condanna) ad essere reintegrato nelle mansioni precedenti o ad altre ad esse “equivalenti”425.

La questione, però, è tornata a rivestire un ruolo centrale con le prime sentenze emesse sotto il vigore della nuova disciplina, le quali, come abbiamo visto, si sono occupate dell’individuazione dei confini dell’efficacia temporale del “nuovo” art. 2103 c.c. e quindi delle tutele applicabili alle fattispecie di demansionamento che si pongono a cavallo delle due norme, fornendo soluzioni contrapposte426.

422 V. Cap. III, par. 3.1.

423 V. Cass. Sez. Lav. 17 settembre 2008, n. 23744: “è costante giurisprudenza che l’art.

2103 c.c., prescrivendo nella sua prima parte di adibire il lavoratore alle mansioni di assunzione o a quelle successivamente acquisite, fonda il correlativo diritto soggettivo, la cui lesione da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento e determina gli obblighi, oltreché di corrispondere la retribuzione, anche di risarcire il danno da dequalificazione”.Cfr. Cass. Sez. Lav., 2 agosto 2006, n. 17564; Cass. Sez. Lav., 6 marzo 2006, n. 4766 consultabili su

www.iusexplorer.it.

424 Cass. Sez. Lav. 19 novembre 2010, n. 23493; Cass. Sez. Lav., 10 novembre 2008, n.

26920 disponibili su www.iusexplorer.it.

425 V. Cass. Sez. Lav., 11 luglio 2014, n. 16012 in www.iusexplorer.it. Cfr. par. 5.5. e ss.

426 Accogliendo la tesi del Tribunale di Ravenna laddove il giudice dovesse accertare che

la condotta del datore realizzata prima dell’entrata in vigore dell’art. 3, d. lgs. n. 81/2015, costituisca illecito demansionamento ai sensi della vecchia norma, la conseguenza sarebbe la tutela reale di reintegrazione nelle mansioni precedenti o in mansioni ad esse “equivalenti”. Accogliendo la tesi del Tribunale di Roma, invece, “quand’anche venisse accertato un

illecito demansionamento realizzato anteriormente alla riforma, la tutelareintegratoria sarebbe esclusa, lasciando spazio esclusivo a quella risarcitoria, nell’ipotesi in cui le nuove mansioni, non equivalenti alle precedenti, rientrino nel medesimo livello di inquadramento contrattuale e siano, pertanto, legittime alla luce della più recente disposizione”: E.GRAMANO, op. cit., p. 119. Cfr. Cap. I, par. 1.7.

Una parte della dottrina427 ha sottolineato come, in realtà, tra il riconoscimento della nullità dell’atto di disposizione datoriale e la qualificazione della condotta datoriale in termini di inadempimento non vi sia contraddizione428. “La contrarietà a norme imperative non può riguardare che singoli atti o patti che, nel disporre di diritti contrariamente a quanto disposto da una norma imperativa, rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 1418, comma 1, Cod. Civ., con le relative conseguenze”; ma l’applicazione di tale canone non è incompatibile con la qualificazione della condotta datoriale alla stregua di un inadempimento.

Al fine di chiarire i confini dell’efficacia temporale del nuovo art. 2103 c.c. occorre piuttosto stabilire se il demansionamento sia rappresentato “dal singolo atto di disposizione del datore di lavoro o se non sia, invece, l’intera condotta che comporta una perdurante adibizione del lavoratore a mansioni inferiori”. La seconda opzione, si è osservato, è quella “maggiormente aderente alla

disciplina delle mansioni”.

L’art. 2103 c.c. (in tutte le sue formulazioni) si apre con la dizione “il lavoratore deve essere adibito (…)“, disciplinando la fattispecie nella prospettiva della posizione soggettiva del lavoratore: per cui “quello in capo al lavoratore è un diritto alle mansioni429, rispetto al quale, per converso, sorge in capo al datore di lavoro un obbligo di adibire il lavoratore proprio a quelle mansioni e non ad altre”. La violazione di tale obbligo costituisce pertanto un inadempimento datoriale, “che non può che realizzarsi con una condotta [intesa quale comportamento che perdura nel tempo] di adibizione del lavoratore a mansioni da questi non esigibili”.

“’Generatore del diritto’ del lavoratore ad agire in giudizio a fronte di un demansionamento, non è il singolo atto di disposizione del datore, ma la adibizione a mansioni inferiori che si sia concretamente realizzata e protratta

427 E.GRAMANO, op. cit., p. 124 ss.

428 Anche C.PISANI, op. cit., p. 103 sostiene come “la formula ‘deve essere adibito’ di

cui al comma 1 [dell’art. 2103 c.c.], sancisce un’obbligazione di non fare a carico del datore di lavoro e/o un limite legale all’esercizio dello ius variandi”. Sia di nullità che di inadempimento parla anche M.BROLLO, op. cit., p. 246.

429“Diritto alle mansioni” da tenere distinto dal quel generale “diritto soggettivo all’esecuzione della prestazione” individuato da talune sentenze della Cassazione.

nel tempo”. Di fatto, ragionando per assurdo, il datore potrebbe comunicare, anche con atto scritto, l’adibizione a mansioni inferiori ma a tale comunicazione poi nei fatti potrebbe non seguire alcun mutamento delle prestazioni concretamente svolte dal lavoratore: in questo caso, nonostante l’atto astrattamente illegittimo, il prestatore non avrebbe alcun diritto da far valere in giudizio in quanto ne mancherebbe il presupposto, ovvero l’avvenuto demansionamento.

“Il demansionamento vietato, così, non può identificarsi nel singolo atto datoriale, bensì in una condotta del datore di lavoro che, violando l’obbligo negativo di non demansionare e ledendo così il diritto alle mansioni del lavoratore, pone in essere un vero e proprio inadempimento”.

“Ciò non contraddice la tesi che quello esercitato al di fuori dei confini della norma di cui si tratta è un atto di esercizio di potere esercitato contra legem e quindi nullo”. Ma anche in questo caso “il porre in essere un atto nullo non è di per sé sufficiente a determinare un demansionamento, il quale va identificato invece, nella perdurante adibizione del lavoratore a mansioni inferiori”430. Quindi si ritiene che correttamente il Tribunale romano abbia “ricondotto

il demansionamento alla categoria dell’‘illecito permanente’, concludendo per l’applicabilità della nuova norma a quella porzione di demansionamento realizzato successivamente al 15 giugno 2015”431.

La categoria dell’illecito permanente è il frutto di un’ampia elaborazione della giurisprudenza di legittimità: richiamando la distinzione tra fatto istantaneo e fatto permanente elaborata dalla scienza penalistica in relazione

430 Il demansionamento, tra l’altro, non sempre consegue ad una singola decisione del datore di variare le mansioni: pensiamo al lavoratore cui gradualmente vengono assegnati compiti che esulano dalla prestazione esigibile o al progressivo svuotamento delle mansioni per cui il prestatore vede nel tempo ridotte le proprie responsabilità e quindi sminuito il proprio ruolo aziendale. In questi casi sarebbe difficile individuare il momento del perfezionamento dell’atto di disposizione datoriale.

431 Ed escludendo così la tutela reintegratoria.

Tutta la ricostruzione qui riportata, nonché i virgolettati, sono di E.GRAMANO, op. cit., pp. 124-126.

L’Autrice ha osservato come la ricostruzione del demansionamento operata dal Tribunale di Ravenna quale “atto datoriale generatore del diritto del lavoratore al ripristino delle precedenti mansioni”, pur nel silenzio della sentenza che sul punto non esplicita le ragioni della opzione ermeneutica adottata, sembra conciliarsi con la tesi del demansionamento quale atto nullo [nel senso ora visto di singolo atto]: il Tribunale di fatto afferma espressamente “a nulla conta che esso (il demansionamento) continui nel vigore della legge successiva”.

all’art. 158 c.p., essa ha affermato come, mentre l’illecito istantaneo realizza i propri effetti “nel momento in cui la condotta incide nella sfera giuridica del danneggiato con effetti esteriorizzati e conoscibili”, nel caso di illecito permanente gli effetti pregiudizievoli si verificano “momento per momento, ed in ogni momento sorge il diritto al relativo risarcimento”432.

In particolare, la Suprema Corte ha precisato come il carattere permanente debba riferirsi “non al danno” ma al “comportamento contra jus dell’agente” e quindi “al rapporto eziologico tra questo ed il danno stesso”: così “se nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero elemento genetico dell’evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l’esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti)”, “nel fatto illecito permanente il comportamento contra jus, oltre a produrre l’evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendo così coesistenza dell’uno e dell’altro”433.

L’illecito permanente, inoltre, postula che l’agente si trovi nella possibilità materiale di cessare in ogni momento la perdurante condotta lesiva: “l’illecito permanente cessa nel momento in cui ha termine la condotta volontaria del soggetto che sia in grado di far cessare lo stato continuativo dannoso o pericoloso da lui posto in essere”434.

Come si è osservato “tutti gli elementi richiesti dalla giurisprudenza ai fini della sussistenza di un illecito permanente ricorrono puntualmente con riferimento al demansionamento”435.

Tra l’altro, la stessa Cassazione aveva (già) qualificato il demansionamento quale illecito permanente allorché aveva dovuto individuare il giudice munito

432 Cass. Sez. III., 20 dicembre 2000, n. 16009; Cfr. Cass. Sez. III, 9 febbraio 1991, n.

1246; Cass. Sez. III, 19 giugno 2015, n. 12701 disponibili su www.iusexplorer.it.

Ricordiamo che la Cassazione ha elaborato la distinzione tra fatto illecito e istantaneo occupandosene, in particolar modo, in tema di prescrizione dei diritti.

433 Cass. Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183; Cfr. Cass. Sez. II., 21 novembre 2007,

n. 24258; Cass. Sez. I., 2 maggio 2006, n. 10116 disponibili su www.iusexplorer.it. 434 Cass. Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183.

di giurisdizione nelle controversie relative a demansionamenti nel pubblico impiego iniziati prima del 30 giugno 1998436 e proseguiti successivamente437.

436 Si tratta della data che segna il discrimine temporale tra giurisdizione amministrativa e quella ordinaria nel contenzioso del lavoro pubblico ai sensi dell’art. 45, comma 17, d.lgs. n. 80/1998 (poi abrogato e sostituito in modo analogo dal successivo art. 69, comma 7, d.lgs. n. 165/2001).

437 V. Cass. Sez. Un., 31 Marzo 2009, n. 7768: “(…) ove il lavoratore-attore riferisca le

proprie pretese ad un periodo in parte anteriore e in parte successivo al 30 giugno 1998, la regola del frazionamento della competenza giurisdizionale tra giudice amministrativo in sede esclusiva e giudice ordinario, in relazione ai due periodi interessati, trova temperamento in caso di illecito permanente, sicché, qualora la lesione del diritto del lavoratore abbia origine da un comportamento illecito permanente del datore di lavoro, occorre fare riferimento al momento di realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza, con la conseguenza che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario allorché tale cessazione sia successiva al 30 giugno 1998”; Cfr. Cass. Sez. Un., 24 marzo 2005, n. 6328; Cass. Sez. Un., 28 febbraio 2007, n. 4635; Cass. Sez. Un., 19 dicembre 2005, n. 27896 consultabili su www.iusexplorer.it.