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L’ascesa di Dionisio e la conclusione della prima guerra

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 33-36)

«Poco tempo dopo Dionisio cadde malato e morì: era stato signore di Siracusa per trentotto anni» (Diodoro, 15, 73, 5): scarna e brutale la pro-sa di Diodoro nel dichiarare la fine di una stagione lunga e travolgente che coinvolgendo la Sicilia intera (e non solo) aveva rimescolato un as-setto antico gettando nel contempo le premesse che avrebbero portato alla maturazione dell’ellenismo occidentale. Dionisio muore nel 367,

d’inverno; d’inverno era iniziata l’ascesa di colui che «da scrivano e da modesto uomo qualunque, diventò tiranno della più grande delle città greche» (Diodoro, 13, 96, 4). Volgeva al termine il 406, il cartaginese Imilcone aveva appena conquistato Agrigento, i Sicelioti presi da terrore si ritiravano verso Siracusa o verso la penisola, nella speranza di essere più sicuri oltre lo Stretto. È in questo clima teso di incertezze e paura che a Siracusa si riunisce l’assemblea destinata a dare una svolta decisiva alla storia della città. Si può ancora una volta riflettere sugli esiti imprevisti delle istituzioni democratiche e sulla forza esercitata sul demos riunito

da un oratore abile: sta di fatto che in quell’occasione Dionisio sa in-fiammare il popolo contro gli strateghi che fino a quel momento ave-vano condotto la guerra, riuscendo a farli destituire e a farne nominare altri. Inutile dire che lui è tra questi. Non solo: una volta designato, egli si muove immediatamente per screditare anche i nuovi strateghi e per stringere ancora di più il legame con un’assemblea che in lui finalmente trovava un riferimento sicuro.

È la drammaticità del momento, si capisce bene, ad alimentare il bi-sogno di una guida, sotto la pressione continua di eventi vorticosi e di timori molto concreti resi ancor più aspri dai racconti dei fuggitivi e dallo sguardo alle carte: l’avanzata dei Cartaginesi da Selinunte a Imera, Agrigento e Gela sembra infatti evidenziare il loro obiettivo finale, la

Le guerre di Dionisio i

parte orientale dell’isola, il cuore della Sicilia greca. Dionisio non delu-de e si comporta da capo saldo e affidabile nell’affrontare la prima emer-genza, la richiesta di aiuto che viene da Gela presidiata provvisoriamente dallo spartano Dessippo. L’intervento di Dionisio nella città vicina è doppiamente fulmineo: sul fronte politico egli elimina fisicamente gli oppositori e si libera dell’ormai inutile e troppo ingombrante spartano, su quello squisitamente militare torna precipitosamente e con forze co-spicue (duemila fanti e quattrocento cavalieri) a Siracusa, dove mette a segno il punto decisivo.

Nella sua città egli trova concittadini ignari e stupidamente festosi, gente che va a teatro, che perde tempo, che si affida a incapaci e a tra-ditori e non si rende conto del pericolo che incombe. Lì dove c’è inco-sciente leggerezza, egli astutamente getta paura e agitazione: nell’as-semblea del giorno successivo, dopo aver mosso nuove accuse contro gli altri strateghi del collegio, riesce a ottenere quanto probabilmen-te voleva sin dall’inizio: «Finalmenprobabilmen-te alcuni parprobabilmen-tecipanti al consesso proposero a gran voce di nominare Dionisio generale unico con pieni poteri [strategos autokrator]» (Diodoro, 13, 94, 5). Non finisce qui: con

tutti gli uomini validi fino ai quarant’anni si porta a Leontini, allora piazzaforte siracusana, dove con una nuova macchinazione riesce a farsi assegnare una guardia personale di seicento soldati; forte di essa e di un folto esercito in cui non mancano mercenari e banditi torna a Siracu-sa, si installa nel porto e, finalmente, si dichiara apertamente tiranno; quindi avvia un’astuta politica matrimoniale che lo vede apparentarsi con la famiglia di Ermocrate. Così, con azioni degne dei tiranni del passato, con soldati, guardie personali e matrimoni accorti, inizia la tirannide di Dionisio, «la più grande e la più durevole che la storia conosca» (Diodoro, 13, 96, 4).

Date queste premesse, la cosiddetta prima guerra siculo-punica pro-cede rapida verso la conclusione: forte di un grande esercito di fanti e cavalieri e di un’altrettanto considerevole flotta («cinquanta navi cata-fratte»: così Diodoro, 13, 109, 2) e con l’aiuto degli Italioti, Dionisio parte in difesa di Gela. Le cose in un primo tempo non sembrano andar bene: nonostante forze e strategie, l’esercito greco è battuto e Dioni-sio è costretto a ritirarsi in città per decidere il da farsi. La soluzione è ardita, la prima di una serie che sarebbe stata lunga: ingannando i Cartaginesi con fuochi e baccano per far loro credere di essere ancora dentro le mura, il tiranno provvede a sgomberare sia Gela, sia, subito dopo, Camarina.

Ma la Sicilia di questa fine secolo è attraversata da sentimenti forti: alla paura di fronte ai Cartaginesi della cui ferocia si fa ormai leggenda, alla pena per chi è costretto ad abbandonare la propria patria si aggiun-ge presto l’ostilità verso Dionisio salutato come eroe ma già sospettato di aver organizzato tutto per rafforzare il proprio potere. Così, nella dinamica dei fatti e nell’interpretazione che di essi già i contempora-nei danno, si intrecciano inestricabili i due fili della tirannide e della lotta contro Cartagine: «Il sospetto era che avesse combinato tutto di proposito, sfruttando la paura dei Cartaginesi per signoreggiare impunemente sulle altre città» (Diodoro, 13, 112, 1). Alcuni cavalieri tentano di spargere sfiducia e lo anticipano a Siracusa dove ne seque-strano beni e consorte, ma essi non tengono in conto velocità e astuzia dell’uomo che contrariamente alle aspettative ripiomba in città e con l’aiuto dei mercenari elimina senza processo gli avversari e ancor di più ne espelle.

Ripreso il controllo di Siracusa è tempo per lui di riconsiderare la situazione del conflitto. Dionisio accoglie volentieri la proposta di Imil-cone di arrivare a un accordo: dopo le vittorie folgoranti del 409, e pro-prio a ragione dell’improvviso e spregiudicato intervento del tiranno, l’avanzare dei Cartaginesi era diventato, infatti, più faticoso; e in più già si spargeva tra i soldati una pestilenza, un nemico sotterraneo e sempre incombente per grandi eserciti in movimento, spesso in condizioni pre-carie. Per i Punici anche la tardiva caduta di Gela si configurava come un successo incerto, dovuto forse più alla ritirata strategica dei Greci che a una reale superiorità cartaginese; ci si avvia così verso la pace, in Sicilia come in Grecia propria: stando alle sincronie tanto care a Diodoro, in-fatti, due guerre si concludono in quell’anno (404): quella peloponne-siaca in Grecia e «la prima dei Cartaginesi contro Dionisio in Sicilia» (Diodoro, 13, 114, 3). Poco importa che in realtà l’offensiva punica contro l’isola fosse iniziata prima dell’emergere del Siracusano: era chiaro che era sotto la sua stella che si era aperto il nuovo periodo siceliota, segnato dal confronto tra le due potenze che si contendevano il controllo dell’i-sola e delle sue città. Il tradizionale policentrismo stava lasciando spazio a un’opposizione polare che preparava il terreno a un nuovo modo di concepire lo spazio territoriale e politico, come già evidente dal dettato dell’accordo: «La pace fu dunque stabilita alle seguenti condizioni: ai Cartaginesi andava il dominio oltre che sugli antichi coloni, anche sugli Elimi e sui Sicani; agli abitanti di Selinunte, Agrigento e Imera, e inoltre a quelli di Gela e Camarina era concesso di abitare le proprie città, ma

prive di cinta muraria, ed era loro imposto di pagare tributi a Cartagi-ne; Leontini, Messina e i Siculi restavano tutti autonomi; Siracusa era sottoposta a Dionisio e le due parti si restituivano i prigionieri e le navi catturate» (Diodoro, 13, 114, 1-2).

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