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Come si fa la guerra

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 120-123)

Non c’è un modo solo di fare la guerra e il iv secolo segna un momento di cambiamento sia nelle tecniche militari che nella percezione ideolo-gica della guerra stessa. Si abbattono inveterati tabù e diventano via via più invasivi ed efficaci gli interventi di quei reparti – arcieri e frombo-lieri – dotati di armi non adatte ai cittadini per bene ma che già dalle prime battute della guerra del Peloponneso (a Sfacteria, ad esempio) avevano dimostrato non solo la loro efficacia, ma anche la loro ammis-sibilità in un esercito che non si poteva più contentare dei tradizionali, e per questo eticamente accettabili, opliti e cavalieri. Con gli armati alla leggera, così, penetra un nuovo modo di concepire l’azione sul campo e, in qualche modo, una diversa idea di virtù guerriera che un poco distor-ce l’immagine classica del cittadino soldato nutrito di letture omeriche e allenato nella palestra della polis.

Non solo: certo, ci si continua a scontrare in campo aperto e anche le guerre siculo-puniche sono punteggiate di una serie di battaglie che entrano a buon diritto nei libri di storia come momenti decisivi nel mi-surare la superiorità bellica di una o dell’altra parte. Ma in questi scontri con la forza militare si misura anche la capacità egemonica dei conten-denti, la forza che ciascuno sa o può imprimere su un territorio più vasto di quello di singole città. Non si tratta più, infatti, di proteggere una sola comunità con la sua chora e di riscrivere, o poco spostare, confini

soven-te suggeriti dalla morfologia o da antichi patti; non si tratta nemmeno di assicurarsi una corona di alleati e di organizzare forze militari in cui comunque siano salve le singole componenti e con esse le identità cit-tadine pur occasionalmente unite contro lo stesso nemico. Nient’altro che questo è, infatti, la symmachia: avere gli stessi amici e gli stessi

ne-mici. Si tratta piuttosto di appropriarsi di porzioni di territorio ben più ampie di quello solitamente pertinente a una singola polis, di assicurare

un’efficace rete di protezione in vallate interne, approdi, punti sensibili, di “militarizzare” una regione rendendola capace di sostenere non solo le battaglie, ma anche gli attacchi di sorpresa, i movimenti repentini dei mercenari, le fughe e gli inganni. Il diapason si raggiunge in Africa, dove nulla possono i pur valenti soldati di Agatocle di fronte a tattiche sco-nosciute, in cui la conoscenza del territorio (delle sorgenti, dei ripari, del vento) era indispensabile per agire con rapidità puntando su imboscate e agguati.

La guerra mostra tutta la sua capacità distruttiva, spostandosi dal campo aperto alle città senza più conoscere distinzione tra soldati e civili, tra adulti armati e inermi – anche questa una virata ben nota. Le pagine di Diodoro, nella loro vivacità mimetica, costituiscono una testimonianza eccezionale di questo cambiamento che riguarda alla pari Punici e Greci: le descrizioni della caduta di Selinunte, Imera e Agrigento e poi di Mozia sono da tal punto di vista sostanzialmente omogenee, e vedono prevalere l’urgenza del totale annientamento della comunità nemica concepito non già come punizione estrema (così ave-vano fatto gli Ateniesi a Melo nel 416), ma come modalità necessaria per guadagnare posizioni concrete sul territorio e con esse la fedeltà di città e uomini.

Questo cambiamento di prospettiva è possibile anche grazie a inno-vazioni tecniche prima ignote: uno dei pochi casi, questo, in cui la tutto sommato modesta capacità tecnologica degli antichi interviene in ma-niera importante a mutare significativamente un aspetto fondamentale

della società anche dal punto di vista ideologico. I preparativi messi in atto da Dionisio i in vista della seconda guerra contro Cartagine sono molto chiari: con la promessa di un lauto salario egli chiama a raccolta artigiani da Sicilia e Magna Grecia e li divide in gruppi perfettamente organizzati per costruire armi di ogni tipo, adatte cioè sia ai cittadini sia ai mercenari nel frattempo radunati dal tiranno. Ma sono due, soprat-tutto, le grandi novità introdotte da Dionisio: le navi a cinque ordini di remi e la catapulta, utilizzata per la prima volta nel corso dell’assedio di Mozia e capace di seminare vero terrore tra gli avversari. Speciali mac-chine da guerra e torri d’assedio erano state già utilizzate dai Cartagine-si nell’attacco alle colonie greche, forse accelerando anche a Siracusa la ricerca, e la realizzazione, di nuove invenzioni capaci di eguagliare e se possibile superare quelle del nemico. Il risultato sul terreno di scontro si traduce in veri pezzi di bravura da parte degli storici, in rumori assor-danti e costruzioni paurose (Diodoro, 14, 51, 1: «Dionisio [...] accostò alle mura macchine di ogni tipo: con gli arieti percuoteva le torri, con le catapulte respingeva i combattenti sugli spalti; accostò alle mura anche le torri fornite di ruote, a sei piani, che aveva costruito della stessa altez-za delle case»), in concitazione, in corpo a corpo fuori da ogni regola di battaglia, in uso disperato di ogni mezzo (tegole e sassi) per l’ultima difesa. E questo a più riprese: non solo nelle città della Sicilia occiden-tale, ma anche, una manciata di anni più tardi, a Caulonia (389) e so-prattutto a Reggio (l’anno successivo), dove Dionisio «costruì anche una gran quantità di macchine da guerra di grandezza incredibile, con le quali scuoteva le mura» (Diodoro, 14, 108, 3). Il caso di Reggio, che sta a sé nell’architettura della narrazione diodorea e non è strettamente correlato ai fatti di Selinunte e Mozia, ancor meglio di quelli dimostra come fosse la natura stessa della guerra a essere cambiata, pretendendo un carico maggiore di durezza. In epoca arcaica varie ragioni, non ul-tima quella del risparmio demografico, avevano indotto a preferire, se possibile, il confronto quasi simbolico tra pochi campioni scelti (alla maniera degli Orazi e dei Curiazi immortalati da un celebre quadro di David); in quest’età la guerra percorre altre strade, in cui non si fa risparmio di uomini e cose perché solo così si può davvero decidere chi prevale tra “grandi” potenze. Le armi richiedono professionalità, tec-nologia e un coinvolgimento totale (anche dei “civili”, come diremmo oggi): che questo sovente si sia tradotto in ferocia, accanimento o umi-liazione non è questione di appartenenza etnica o identità culturale; i Reggini macilenti e ridotti all’ombra di sé stessi dal greco Dionisio

dimostrano che, alla prova dei fatti, la logica del conflitto era per tutti egualmente spietata.

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 120-123)