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Dinasta d’Europa

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 102-107)

L’insistenza quasi ossessiva sulla libertà da difendere, riconquistare e mantenere dimostra il travaglio di esperienze che, come visto, conte-nevano molti elementi contraddittori e che pur in maniera convulsa e violenta cercavano di dare risposte a fatti rapidi e turbolenti. Le parole, si sa, viaggiano a velocità diversa e sono ancor più lente quando si tratta di definire le realtà istituzionali.

Dionisio è strategos nella forma e tyrannos negli atteggiamenti, ma

ancora non basta. Diodoro più volte lo chiama infatti dynastes, anzi

so-vente “dinasta di Sicilia” o persino “dinasta d’Europa”, ed è espressione troppo ricorrente per essere casuale, tanto più che nel lessico del potere è difficile credere che esistano sinonimi. Si tratta, invece, di definizione acuta che ottimamente restituisce i caratteri nuovi del potere

dionigia-no, nel contempo marcando la distanza da tyrannos e assestandosi sul

fronte non già del giudizio etico, ma della descrizione storica. Di essa, come ben dimostrato da studi relativamente recenti, possiamo ricono-scere la paternità di Filisto, l’amico. Uomo colto, esponente di spicco del gruppo di giovani aristocratici che avevano sostenuto Ermocrate, egli si schiera sin da subito con Dionisio, svolgendo – come visto – un ruolo decisivo nell’assemblea che porta alla sua elezione come strategos autokrator. Da lì inizia per i due un percorso parallelo che li vede uniti

e simbionti nell’esperienza militare e politica: Dionisio è il tiranno, ma Filisto è il più acuto e spregiudicato tra i consiglieri. Memorabile la riu-nione in cui egli lo esorta a non cedere ai ribelli che assediano Ortigia, a resistere fino alla fine e, soprattutto, a non abbandonare mai spontanea-mente il potere. Fidato quanto e più del fratello Leptine, egli è per di più anche un bravo soldato. Stupisce poco, perché anche questa è una storia che abbiamo sentito più volte, che proprio sugli uomini più vicini finisca per abbattersi la furia di Dionisio tormentato dai sospetti: in un anno compreso tra il 386 e il 384 Filisto è costretto a fuggire (a Turi insieme a Leptine, in Adriatico, o, persino, in Epiro). È quasi certo che, Dionisio in vita, Filisto a Siracusa non sia più tornato; a richiamarlo fu invece il Giovane per affidargli il comando della flotta: perduta la decisiva batta-glia contro gli uomini di Dione, Filisto muore nel 356 per mano propria o della giustizia siracusana che avrebbe fatto scempio del suo corpo per colpire in esso i sentimenti favorevoli alla tirannide.

Filisto è l’uomo dei Dionisii, sempre fedele a un potere di cui rimane fervente sostenitore, nonostante l’esilio: su questo la tradizione antica non ha alcun dubbio, tanto da dire, per bocca di Cornelio Nepote (Vita di Dione, 3, 2), che egli era amico dell’istituto della tirannide in sé. A

qualcuno – il solito Timeo ad esempio – questo piacque poco e Filisto si meritò il prevedibile sospetto di aver venduto la coscienza per assicurarsi lusso, potere e ricchezza. Ma al di là del giudizio morale, interessa di più soffermarsi sul Filisto uomo di lettere e lettore di Tucidide che negli anni dell’esilio si dedica alla scrittura di una grande opera di storia dedicata alla Sicilia (Sikelika, in 13 libri, probabilmente incompiuta), che

prende-va le mosse dal regno del mitico re Kokalos per arriprende-vare al 363/362 in un crescendo di dettaglio. Nei frammenti si riconosce lo storico di valore che ha imparato la lezione di Tucidide, non solo nella scelta di inserire una “archeologia” o nella scansione per estati e per inverni, ma anche nella spiccata preferenza per la storia contemporanea, nell’importanza attribuita ai discorsi, nel riconoscimento del polemos e del potere come

veri motori della storia. Nulla a che vedere, insomma, con la schiera di adulatori di corte che di fronte alle orribili composizioni poetiche del tiranno definite “pietose” da Filosseno esprime ammirazione e plauso, se persino Alessandro, stando a Plutarco (Vita di Alessandro, 8, 3), portava

con sé la sua opera nel corso dell’avventura persiana.

È vero, la sua è storia tendenziosa, condizionata per ragioni biogra-fiche e ideali dal rapporto con i Dionisii, ma la sua scelta politica suona meditata, frutto di valutazione autonoma, che conduce a una riflessione generale sulla fortuna del tiranno, sulla sua felicità concreta e terrena e su un destino annunciato dai segni del cielo ma reso molto concreto dall’attualità delle scelte strategiche e politiche. È per queste ragioni che possiamo guardare con molta serietà alla “nuova” definizione da lui at-tribuita al potere di Dionisio, che aiuta a comprenderlo meglio nei suoi elementi di innovazione. Se la dynasteia indica un potere autocratico,

esercitato con l’aiuto di philoi, un potere tendenzialmente ereditario,

basato su un rapporto diretto con demos ed esercito ed esteso su un

terri-torio ampio (così Cinzia Bearzot), quella di Dionisio lo è senz’altro e ha nella presenza di una corte strutturata (di cui fa parte lo stesso Filisto), nell’ereditarietà e nel rapporto speciale con demos e soldati (cittadini e

mercenari) gli elementi di più evidente caratterizzazione, implicita con-nessione tra le tirannidi più antiche e le più vicine esperienze autocrati-che di Grecia propria.

La novità più importante e foriera di conseguenze è però costituita dall’aspetto squisitamente territoriale, dallo spazio fisico e ideale in cui quel potere si esplica. Tra tutte le definizioni spicca senz’altro, allora, quella di “dinasta d’Europa”, non solo per il colore squisitamente po-litico assunto dalla definizione geografica (qui come altrove anche in opposizione all’Asia), ma anche per il disegno esatto delle ambizioni di Dionisio, di cui interprete – o promotore – fu probabilmente proprio Filisto. Quest’idea trova eco anche in altri storici e retori contempora-nei (Senofonte, Isocrate, Eforo) e in grandi personaggi politici (Filippo il Macedone) e segnala non già un’immediata filiazione (come tale indi-mostrabile e forse nemmeno plausibile) quanto che i tempi erano ormai maturi. Maturi, in primo luogo, per pensare la Sicilia come realtà uni-taria non solo dal punto di vista geografico già ribadito dall’Ermocrate tucidideo, ma anche da quello politico, ben oltre una divisione etnica e civica che sembrava incrollabile. Maturi per transitare da una dimensio-ne solo cittadina verso “Stati” territoriali, si trattasse di ethne federati,

di regni di stampo ellenistico o, come in questo caso, di città capaci di esprimere una arche territoriale.

Che quello della definizione del potere di Dionisio in rapporto allo spazio concreto in cui esso trovava legittimità fosse un problema già per i contemporanei è dimostrato da un piccolo corpus di decreti ateniesi: il

primo, del 393, è un decreto in onore del tiranno, dei fratelli e probabil-mente di altri membri della famiglia; il secondo, del 368, garantisce a lui e ai figli una corona aurea e la cittadinanza ateniese; il terzo, dell’anno successivo, sancisce una philia e symmachia fra Atene e Dionisio (e i

suoi discendenti). In tutti egli è definito “archon di Sicilia”.

L’espressio-ne è geL’espressio-nerica e soprattutto del tutto inusuale; più che di una titolatura ufficiale non altrimenti attestata, sembra una brillante trovata di cancel-leria volta a conferire riconoscibilità a un dominio senza nome. Archon

era perfetto: abbastanza generico per dire tutto e niente, teneva lontano lo spettro della tirannide garantendo nel contempo un’aura di piena le-gittimità a lui e alla famiglia; l’indicazione chiara dello spazio fisico su cui questo potere (arche) si esercita dimostra la necessità di indicarne la

natura e di prevedere gli effetti a largo raggio dell’azione diplomatica intrapresa, in una consapevolezza che trova qualche eco anche nell’ora-toria contemporanea.

Ancora non basta. Perché se la Sicilia è il luogo “naturale” in cui i Greci potevano sperare di esprimere il potere una volta vinti i Cartagine-si (anch’esCartagine-si padroni, peraltro, di un dominio territoriale, l’epikrateia),

Dionisio sin dalle prime battute concepisce altre prospettive, anche in questo, probabilmente, spalleggiato dai philoi e in particolare da Filisto.

Egli attraversa lo Stretto da dominatore, deciso a frantumare i confini ci-vici ben disegnati sia nella Sikelia che in Magna Grecia e a sperimentare

un dominio esteso e continuo: non si è più dinasti “di qualcuno”, ma “di uno spazio”, di un territorio. Nel progetto di sbarrare (o tagliare) l’Istmo scilletico-lametino col pretesto di proteggere i Greci, Dionisio rende manifesto un radicale cambiamento di prospettiva che non accettando più la stretta della dimensione isolana ambisce a scrivere anche “contro” l’evidenza geografica un primo embrione di Stato territoriale.

E non basta ancora. Anche oltre i limiti di questi confini appena in-ventati Dionisio fa respirare il suo dominio e colpo su colpo lo porta a espandersi: a nord fino a Pyrgi e a est nell’Adriatico e perfino in Grecia. Questa, almeno in potenza, la megiste dynasteia d’Europa, che

necessa-riamente si nutre della vittoria su Cartagine e di una prospettiva sul lun-go periodo da garantire con l’ereditarietà. L’evocazione tanto concreta

di una dimensione “europea” porta fatalmente a trovare congiungimen-to con un altro grande potere aucongiungimen-tocratico, quello di Filippo ii. Di poco posteriore a Dionisio, è vero, ma come lui interessato a un’espansione non tradizionale del territorio fino a lambire confini mai toccati e ad accarezzare un’idea stessa di dominio fondata su premesse nuove. Nella seconda metà del secolo le connessioni tra Macedonia e Sicilia prendo-no strade in parte imprevedibili; qui – parlando di potere – importa chiudere il cerchio additando un’altra acuta intelligenza che forse pri-ma di altri capì che pieghe poteva prendere il potere in pri-mano a uomini grandi. Penso a Teopompo di Chio, l’allievo di Isocrate che aveva ab-bandonato precocemente il progetto di una Storia delle cose di Grecia

per abbracciare una prospettiva del tutto inedita, quella della Storia di Filippo. Epocale il passaggio dalla consueta prospettiva tutta ellenica a

quella più smaccatamente biografica, che rende evidente la maturazione di una diversa idea della storia, o quantomeno la constatazione che essa aveva il suo perno non più nella dinamica tra città (greche), ma nelle grandi individualità. L’ascesa del Macedone dettava nuove regole anche al mestiere di storico.

L’opera concentrata su Filippo era monumentale (58 libri) e ce ne rimangono solo dei frammenti, quanto basta, però, per sapere che una significativa sezione era dedicata proprio alle Sikelikai praxeis, anch’esse

tagliate sulla figura di un personaggio dominante. Che di Dionisio si dia un giudizio negativo importa poco; importano di più le tangenze fattua-li e interpretative tra Grecia e Occidente suggerite proprio dall’apertura di un sipario siceliota in un’opera dedicata al Macedone. Dionisio aveva inaugurato un mondo e un modo, e Teopompo guardava anche a lui per capire la monarchia argeade, sia sul versante prettamente etico e compor-tamentale, sia su quello politico, soprattutto in una dimensione geogra-fica più ampia e squisitamente “europea” che caratterizzava aspirazione e pratica dell’arche di entrambi. La storiografia, insomma, non poteva

né voleva più distogliere gli occhi dalle esperienze autocratiche (che si trattasse di tiranni, dinasti o re importa poco) e nel descriverle nel loro dispiegarsi non poteva non notare la contemporanea e necessaria riscrit-tura anche delle geografie politiche. Del resto, il modo in cui Erodoto aveva scelto di raccontare l’impero persiano e la sua espansione aveva già indicato la strada maestra, quella che seguendo la crescita di un potere è costretta non solo a dirne la continua revisione dei confini, ma anche – più profondamente – a constatare quanto sia necessario il nesso tra uno spazio geografico e il kratos che su di esso si esercita.

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