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Città vecchie e nuove

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 148-152)

Anche la Sicilia tra la fine del v e l’inizio del iii secolo vede riscriversi la carta di confini e di città, con il delinearsi di limiti territoriali più ampi e il fiume Platani a far da spartiacque. Lo scompaginarsi delle identità co-mincia dalle città più antiche con la forza dirompente della prima gran-de spedizione cartaginese che mettendo fine allo splendore gran-delle colonie più occidentali aveva avviato una riscrittura di tutta l’area, che si trovava all’improvviso priva dei riferimenti culturali ed economici che ne aveva-no organizzato vita e scelte nei secoli precedenti.

Per certi versi ancora più innovativo è il processo di ridefinizione che si mette in moto in Sicilia orientale per effetto non di aggressioni mili-figura 7

Tetradrammo siculo-punico (320-300 a.C.)

tari nemiche, quanto di una strategia territoriale di ampio raggio per-vicacemente perseguita da tutti i tiranni. In qualche modo anche l’an-tichissima Siracusa diventa la città più nuova di tutte, con le poderose opere monumentali (Ortigia fortificata, il castello Eurialo, le torri del Porto Piccolo), fedele specchio di un potere dall’inedita grandezza che alla fine ambisce a far concorrenza a quello dei contemporanei basileis.

Proprio Siracusa è il centro di un processo di ridefinizione che investe non solo il territorio ma, più profondamente, l’accezione stessa di po-lis, consegnandoci i nomi delle città martiri: Gela, Camarina, Messina,

Nasso, Catania, Caulonia, Ipponio, Reggio.

Se c’è una cosa evidente, nella polis greca, è la centralità del cittadino

e del rapporto da lui intrapreso con il complesso della vita pubblica che ne struttura requisiti, compiti, aspirazioni in un equilibrio fondante che la città ha bisogno di conservare integro e stabile. Quando si tocca il di-ritto o la definizione di cittadinanza si interviene nel corpo stesso della nozione di città e particolarmente minacciose risultano allora tutte le operazioni che intervengono a mutare un quadro costituito con ovvie ricadute anche sul piano militare o proprietario. Materia tanto fragile da meritare specifiche normative a noi a volte conservate per via epigrafica. Anche su questo versante la Sicilia di iv secolo offre più di una sorpre-sa; e anche in questo caso noi avvertiamo sullo sfondo l’eco di più an-tichi esperimenti che, protagonisti i Dinomenidi, avevano già attuato potenti rimescolamenti in fatto di città e cittadini. Dionisio comincia subito, appena nominato stratego. Da un lato richiama immediatamen-te i fuoriusciti, il che implica già di per sé uno scossone all’assetto cit-tadino (con l’eliminazione fisica degli avversari e la confisca dei loro beni), dall’altro inscena la propria presa del potere (con l’istituzione della guardia personale e la dichiarazione esplicita della tirannide) non a Siracusa, ma a Leontini: «Quella città era allora una piazzaforte di Siracusa, piena di profughi e di forestieri: Dionisio contava sul fatto che costoro si sarebbero schierati dalla sua parte, desiderosi di cambia-mento politico» (Diodoro, 13, 95, 3). Il nuovo tiranno rimescola subito le carte delle appartenenze contando sia sul senso della patria di chi è costretto fuori di Siracusa, sia sulla disponibilità senza morale di chi una patria non ha più.

È così che ha inizio l’odissea di molti Greci di Sicilia sotto la pressione congiunta e solo apparentemente contrastante del nemico cartaginese e del tiranno siracusano. Nel 405 Gela e Camarina sono evacuate a forza e abbandonate al saccheggio cartaginese: i loro abitanti, però, sospettosi

nei confronti di Dionisio, riparano a Leontini; nel 403, tuttavia, sono gli abitanti di Leontini, terrorizzati dal destino delle città sorelle (Nasso e Catania), ad abbandonare volontariamente la patria che torna a essere

phrourion siracusano. Il bel paesaggio di Sicilia si popola di uomini,

don-ne e bambini che fuggendo una casa altre don-ne cercano e, se è vero che la

polis è in primo luogo un’astrazione politica e che non esiste città senza

cittadini, fa comunque una certa impressione vedere che ad essi viene a mancare il luogo fisico comunque necessario ad esprimere qualsivoglia appartenenza. A questi si aggiungono quelli che abbandonano la patria non per paura ma per meglio segnare la distanza rispetto all’avversario politico o per cominciare una nuova esistenza dopo anni di vita militare. Ed è al convergere di tante esigenze diverse sotto il segno di apparte-nenze (vecchie o nuove) che la Sicilia vede così rapidamente riscritto il proprio profilo, in una sorta di seconda, per certi versi fittizia, colonizza-zione. A fondare, rifondare, creare nuove cittadinanze sono il tiranno e i suoi nemici, in tempo di guerra e in tempo di pace, in un’ampia casistica che coinvolge tutti: Etna, che aveva raccolto i cavalieri siracusani ribelli al tiranno e superstiti alla grande repressione del 404, viene presto ripre-sa da Dionisio che ne fa la base per le azioni contro le città calcidesi per poi affidarla, dieci anni dopo, ai mercenari campani; nel 403 i cittadini di Nasso e Catania sono venduti come schiavi e il loro territorio conse-gnato rispettivamente a Siculi e Campani, mentre gli abitanti di Leon-tini (i più facoltosi, almeno) diventano cittadini siracusani. Ancora: nel 400/399 Dionisio fonda ai piedi dell’Etna Adrano (dal nome del famo-so santuario, commenta Diodoro, 14, 37, 5); nel 396/395 i Siculi occupa-no il monte Tauro fondandovi Tauromenio, mentre l’anoccupa-no successivo, dopo la fuga dei Cartaginesi dalla parte orientale dell’isola, Dionisio procede a sistemare molte situazioni per lui difficili: consegna città e ter-ritorio di Leontini ai suoi mercenari stanchi e non più affidabili, stanzia a Messina Locresi e Medmei, ritaglia artificiosamente per Messeni in fuga da Naupatto e Zacinto un territorio costiero, la città di Tindari; nel 394 i Reggini insediano (anche se per poco) Nassi e Catanesi a Milazzo proprio per dare fastidio a Dionisio, che nel 392 caccia da Tauromenio i Siculi e vi sposta i suoi mercenari migliori che già aveva insediato a Nas-so; tra il 389 e il 388, in Italia, dopo la battaglia dell’Elleporo, trasferisce d’imperio Cauloniati e Ipponiati a Siracusa, rade al suolo le loro città e ne dona il territorio a Locri, polis amica. È un elenco che fa girare un

po’ la testa, ma che rende bene la mobilità (instabile) dello scacchiere: colpisce il dinamismo dei singoli gruppi umani (fossero cittadini,

indi-geni o mercenari), cui è inevitabilmente sotteso l’abbattimento di alcuni essenziali punti di riferimento. E questo colpisce di più ancora.

Dopo l’attenuarsi della partecipazione alla vita politica dominata da oligarchi e tiranni, dopo l’indebolimento delle armate cittadine, si incrina così anche l’ultimo elemento che compattava l’identità cittadina, il pos-sesso della terra, uno dei pilastri su cui si fondava non solo l’ideologia civi-ca, ma soprattutto la possibilità di mantenere un certo equilibrio sotto le crescenti pressioni di ceti meno abbienti, di stranieri e fuoriusciti nonché di ricchezze fondate su attività “banausiche” (per dirla con Aristotele).

Ma Dionisio comincia a trattare la terra (di Siracusa e delle città con-quistate) come se fosse un bene personale di cui liberamente disporre: nel 404 sceglie i territori migliori attorno a Siracusa e li regala ad amici e uf-ficiali, quindi divide il resto in parti uguali tra stranieri, cittadini e schiavi liberati; nel 396, ritirandosi dalla parte occidentale dell’isola, lusinga i Sicani con la promessa di terra buona e abbondante; nel 392 assicura al tiranno Agiri molta terra confinante come premio dell’alleanza militare. Tutto questo non può piacere agli oppositori (Diodoro, 14, 65, 3: «Ora i nemici possiedono una piccola parte della nostra terra, ma Dionisio che l’ha tutta devastata la donò a coloro che lo aiutarono ad ingrandire la tirannide»), perché con la terra era la cittadinanza stessa ad essere rivista e spartita tra i cittadini da sempre e i neopolitai. Proprio Siracusa diviene

infatti teatro dei più arditi innesti con l’immissione dei cittadini delle

poleis distrutte (Leontini, Caulonia, Ipponio), degli schiavi liberati, degli

esuli rientrati (già nel 405), di elementi indigeni, delle maestranze per le grandiose opere pubbliche, di mercenari per i quali proprio la terra è una forma di pagamento molto ambita. Non sono operazioni indolori, tanto più che è anche a colpi di cittadinanze promesse che i ribelli cercano di far defezionare i mercenari: quando l’appartenenza cittadina cessa di es-sere privilegio raro (le testimonianze epigrafiche dicono quanto raramen-te essa fosse concessa anche ai benefattori più amati) per diventare merce di scambio e paga da soldato, qualcosa evidentemente si è inceppato per sempre: la polis non è né mai più sarà la stessa.

Questo quadro, va detto, discende in parte dallo sguardo di fonti per lo più molto critiche sull’impatto che le guerre volute dai Dionisii hanno avuto sul territorio. L’indubbia spregiudicatezza dei tiranni in questo ambito non può del tutto oscurare, però, la concretezza di al-tre esigenze, quali l’approvvigionamento di risorse alimentari per una città grande come Siracusa, la necessità di risolvere situazioni politiche imbarazzanti quando non pericolose e di gestire le aree di frontiera, da

sempre calde nel rapporto con Cartagine, anche attraverso insediamenti militari o fortificati. Ancora una volta nel valutare siamo al bivio di un Dionisio insieme tiranno e salvatore.

Quando un argine si rompe, il fiume invade. La disinvolta pratica dionigiana diventa norma anche nelle mani di un accanito avversario della tirannide come Timoleonte che condivide con il suo predecessore l’attenzione concentrata su Siracusa e l’obiettivo di mantenerne centra-lità e grandezza, a costo di riproporre qualche nervatura repressiva. Così si spiegano l’accoglienza amichevole ai coloni mandati da Corinto, la cittadinanza concessa agli abitanti delle città siceliote liberate nonché l’incorporamento in Siracusa della popolazione di Agiri e di Centuripe; l’inusitata apertura alla cittadinanza siracusana diventa lo slogan cardi-ne di un bando diffuso in tutta la Grecia che, a dire di Diodoro, riuscì a convogliare in città ben quarantamila nuovi coloni greci. E infine in chi, come Agatocle, non solo ha in Dionisio un modello, ma è lui stesso cit-tadino di nessuna tradizione, non v’è più scrupolo a colpire le famiglie più antiche e più in vista, a smembrarle e, nel contempo, a dare potere e libertà a mercenari e schiavi, fino, di nuovo, al caso esemplare di Segesta cui il tiranno arriva a cambiar nome dandola da abitare ai fuoriusciti, uo-mini la cui fedeltà si comprava con terra sottratta ai Segestani abbienti. Anche in questo si compiva, come si è detto, il destino di un re elleni-stico che imponendo un nome nuovo alla città, Diceopoli, interpretava appieno la funzione dell’autorità regale di cui si era appena rivestito.

La guerra insomma aveva cambiato anche il modo di vivere in pace, ri-scrivendo la geografia dei centri abitati e la nozione stessa di cittadinanza: proprio in questo, anzi, sono da leggere le sue più durature conseguenze.

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 148-152)