Pur sconfitta, dunque, Atene aveva mostrato quanto piccolo quel mare e quanto in grande, di converso, si doveva pensare per conquistare e man-tenere una arche (“potenza imperialista”) degna di questo nome. Molto
chiaro in tal senso l’Alcibiade di Tucidide che incarna perfettamente l’in-coercibile passione per il comando, cui si sposa la lungimirante lettura dei nuovi rapporti di forza. Alcibiade, dice Tucidide (6, 15, 2), accarezzava il progetto di ridurre in potere di Atene non solo la Sicilia, ma anche Car-tagine, intento che egli stesso ripete agli Spartani una volta consumato il tradimento della patria: «Passammo in Sicilia anzitutto per soggiogare, se possibile, i Sicelioti, e per estendere poi il dominio all’Italia e mettere più tardi alla prova la resistenza dei possessi cartaginesi e di Cartagine
stessa» (6, 90, 2). Potrebbe essere, certo, solo retrospettiva proiezione di accadimenti posteriori volta a tratteggiare in maniera più incisiva il ritratto di un Alcibiade senza ritegno, se anche nel dettaglio degli eventi del biennio 415-413 non emergesse qui è lì l’interesse per i Cartaginesi guardati ormai, nel volgere negativo degli eventi, non già come obietti-vi, ma come possibili alleati. Piano piano Cartagine emerge come con-vitato di pietra, corteggiato e temuto, protagonista irrinunciabile in un equilibrio più ampio, cui gli stessi Ateniesi si rivolgono più volte sia in Sicilia (nel 413 Nicia invia una trireme a Cartagine per stringere philia:
così Tucidide, 6, 88, 6) sia nell’ultima, disperata fase della guerra (questo documenta un’iscrizione molto frammentaria collocabile tra il 409 e il 406: ig i, 13, 123). Si trattò di tentativi senza seguito, visto che Cartagine rimase del tutto estranea alla risoluzione definitiva della guerra del Pe-loponneso. Eppure un effetto gli Ateniesi l’avevano provocato: con la loro spedizione essi sembrano infatti aver in qualche modo riattivato le prospettive della città africana, mostrando le potenzialità di una forza talassocratica e la necessità di mettere le mani sull’isola.
Nell’immaginazione di Alcibiade dalla Sicilia si sarebbe passati a Car-tagine; nei fatti avvenne il contrario. Non più Tucidide, ma Diodoro narra in pagine ritenute sostanzialmente credibili il ritorno di Cartagine nell’isola: solo il pretesto lascia un po’ perplessi, perché sarebbe stato di nuovo l’annoso conflitto tra Selinunte e Segesta a rimettere in moto una dinamica conflittuale. Anche ammettendo che si tratti di una duplica-zione narrativa (o interpretativa), resta vero che andamento ed esito della spedizione ateniese non avevano in alcun modo risolto le difficoltà dei Segestani con i Selinuntini, che, anzi, subito dopo la vittoria di Siracusa si fanno più aggressivi, tentando di annettersi ampie porzioni del territo-rio della città elima. Segesta cerca affannosamente di assicurarsi una me-diazione (a Siracusa) e soldati mercenari (a Cartagine), ma alla fine deve arrendersi a una contrapposizione definitiva. Cronologia e sequenze di eventi sono, come spesso in Diodoro, un po’ confuse, ma, anche sfronda-to, il racconto sembra seguire uno spartito già scritto non già per le pre-sunte scorciatoie narrative di Diodoro, quanto per dinamiche territoriali che espongono a percorsi politici e diplomatici in certa misura scontati.
Era chiaro che la forza di una Selinunte in crescita era destinata a cam-biare gli equilibri di tutta la parte occidentale dell’isola; ed era per questo necessario individuare presto una soluzione ben ponderata, tanto più che la recente esperienza ateniese aveva mostrato quali e quante risonanze su larga scala potesse avere un conflitto locale. Così, quando la
situazio-ne arriva a un punto di stallo senza soluziosituazio-ne apparente e le due parti in causa decidono di rivolgersi in maniera esplicita l’una a Cartagine e l’altra a Siracusa per chiedere alleanza e aiuto concreto, è subito guerra, e guerra seria. Dal racconto di Diodoro trapelano anche le incertezze di Siracusa, che, ben consapevole dei rischi e delle possibili conseguenze di un intervento diretto in Sicilia occidentale, in un primo tempo preferisce ribadire lo stato di non belligeranza con Cartagine: troppo recente, infat-ti, l’esperienza con Atene che aveva lasciato profonde cicatrici nell’isola. D’altra parte, però, proprio a partire da questi anni a Siracusa si è sempre più consci che, una volta tolta di mezzo Atene, i giochi non sarebbero stati affatto conclusi e che proprio in Sicilia occidentale si sarebbe svolta la partita più importante, vuoi per l’importanza del controllo diretto o indiretto sugli approdi volti verso l’Africa (Selinunte, Mazara e, forse, an-che gli emporia ricordati dal Gelone erodoteo) e verso il Tirreno (Imera),
vuoi per la composizione etnica delle sue comunità. Ancora una volta, così, la piccola fugace storia del conflitto tra Segesta e Selinunte finisce rapidamente in un disastro più grande.
Cartagine sceglie come comandante Annibale, figlio dell’Amilcare morto a Imera, che anche per questo covava un «naturale odio verso i Greci» (così Diodoro, 13, 43, 6). Egli impegna alcuni mesi a raccogliere uomini e mezzi; nella primavera del 409 approda con una grande flotta a Capo Lilibeo (esorbitanti i numeri secondo la tradizione storiografi-ca), quindi raduna intorno a sé gli aiuti degli alleati locali (Segestani e non solo) e si sposta rapidamente verso est, oltre il fiume Mazaro, fino alle porte di Selinunte. Comincia l’assedio. Memorabile il racconto diodoreo della lenta agonia e della caduta della città, da lui detta ric-ca, popolosa, splendente come nessuna (Diodoro, 13, 44, 3). Del resto basta una visita al sito – oggi Parco archeologico – a mostrare quanto estesi zona urbana e territorio, quanto spettacolari gli edifici templari e misteriose le molte aree sacre, quanto ricche le necropoli. Da tanta gran-dezza si cade male. Le pagine di Diodoro sono magistrali e rendono con ineguagliabile vivezza i colpi degli arieti sulle mura, l’inesorabilità delle macchine da guerra, l’entrata in città di un nemico cui è stato promesso molto bottino. Nove giorni di terribile agonia, di coraggio disperato di uomini, donne e bambini per un epilogo scontato e che fatalmente ri-suona alla lettura delle fiamme di Troia, archetipo di ogni città caduta.
Si esce un po’ impressionati dalle impietose descrizioni di Diodoro che prevedibilmente indugia sulla ferocia dei barbari, ma quando gli eventi riprendono il proprio corso ci si rende conto che la caduta di
Seli-nunte è un evento senza ritorno. Non solo per la grande colonia megare-se destinata a non esmegare-sere più la stessa e a diventare un borgo punico con blandi compiti di difesa e poi a essere definitivamente abbandonata alle paludi e alla malaria, ma per la Sicilia intera. In un primo momento, in verità, Siracusa (la Siracusa del democratico Diocle) sta a guardare, tem-poreggia, non risponde alle richieste di aiuto dei Selinuntini: forse non si fida (a Selinunte – lo sappiamo – era felicemente insediata anche una comunità fenicio-punica), forse ritiene che Annibale si fermi lì, pago della dimostrazione di forza e della sconfitta dei nemici dei Segestani (questo, infatti, il pretesto). Solo Agrigento, la città più vicina e dun-que più esposta alla minaccia, accoglie i fuggiaschi e si rende disponibile come base per i soldati che alla fine Siracusa si decide a inviare, ancora sperando in un accordo che permetta un proprio efficace riposiziona-mento nel nuovo quadro che si sta creando.
Ma Annibale non si ferma e volge rapidamente l’esercito verso nord, verso Imera, dove quasi un secolo prima si era consumata la vergogna per Cartagine. Che le ragioni più cogenti fossero o no quelle personali di una vendetta da consumare, l’azione di Annibale toglie ogni dubbio intorno alle reali prospettive che si andavano aprendo, tali da rendere credibili le voci, certo fatte circolare ad hoc, di un prossimo attacco a
Si-racusa. In questo turbinio di azioni e notizie, gli Imeresi si fanno trovare meno impreparati dei Selinuntini e osano uscire dalle mura per affron-tare la battaglia in campo aperto, forti dell’aiuto di Siracusa che questa volta non si tira indietro e dirotta verso Imera venticinque triremi nel frattempo rientrate dal fronte egeo. Non serve a nulla; per Imera stesso trattamento: assedio, incendi, morti e prigionieri.
Nel giro di pochissimo tempo, nel fatale anno 409, cadono le due città che a sud e a nord avevano segnato il limite estremo della presenza greca in Sicilia, rendendo possibile una stagione feconda di contatti e relazioni. Con Selinunte e Imera, è ovvio, finisce un’epoca e un’altra si apre. Quella, appunto, delle guerre di Sicilia.
Ermocrate (e Dionisio)
Come e ancor più che in occasione della battaglia di Imera, allo scon-tro campale tra Greci e Punici si mescolano a questo punto questioni più sfuggenti e per noi sfocate, questioni tutte interne alle città greche e in particolare a Siracusa. Sulla scena torna prepotente Ermocrate,
l’uo-mo dello slogan del 424: “Sicilia ai Sicelioti” (evocato da Tucidide, 4, 64, 3), il generale che durante la spedizione ateniese aveva abbracciato così stretta la causa dorica antiateniese da farsi assegnare alcune navi da portare nell’Egeo per dare man forte alla compagine peloponnesiaca. Aristocratico per estrazione, oligarca per scelta, poco incline alle me-diazioni, nei mari orientali egli si guadagna ammirazione per le capacità di generale generoso, ma anche più di un’inimicizia per autonomia di giudizio e audacia di scelte. Anche nel suo caso l’investitura militare da parte della sua città ha soprattutto la funzione di allontanarlo dalla scena politica di Siracusa, dove, lui assente, maturano importanti cambiamen-ti. La città di antica vocazione oligarchica a Ermocrate (colpito da esilio al più tardi nella primavera del 410) preferisce Diocle e con lui un’in-clinazione democratica che paradossalmente guarda proprio al modello ateniese, cui si conforma, ad esempio, nell’adozione del sorteggio per alcune cariche pubbliche. Non stupisce dunque che, una volta raggiunti alcuni significativi risultati nei mari orientali e acquisite forze a sufficien-za, egli decida di tornare in Sicilia. Ed è a questo punto che la sua storia personale incrocia quella delle guerre che stiamo raccontando.
Ermocrate, pur da lontano, è certamente informato di quanto stava accadendo nell’isola: sa che il ritorno a Siracusa è difficile, ma sa anche della caduta di Selinunte e della resa di Imera ad Annibale; capisce dun-que che è da lì, di nuovo dalla lotta contro un invasore per di più barbaro, che può muovere il suo riscatto: «Dopo aver preso con sé anche mille Imeresi che erano fuggiti dalla loro città [...] si volse verso le zone in-terne dell’isola e, occupata Selinunte, fortificò una parte della città con la costruzione di un muro, da ogni parte richiamando quei Selinuntini che avevano cercato scampo altrove» (Diodoro, 13, 63, 3). Sulla collina centrale di Selinunte fa ritagliare uno spazio fortificato che comprende l’area sacra e parte dell’abitato, conferendo all’acropoli quella caratteri-stica forma che risalta oggi in ogni pianta o immagine aerea ma che, in realtà, fotografa una fase assai breve. La grandiosità delle opere in mura-tura e della porta turrita dicono non solo della disponibilità finanziaria di Ermocrate (assicuratagli a suo tempo dai contatti stabiliti in Asia Mi-nore), ma anche dell’ampiezza dei suoi obiettivi: Selinunte diventa così la base apparentemente inespugnabile di una serie di operazioni militari mirate. Il progetto di Ermocrate è chiaro e ne dimostra l’intelligenza politica: egli capisce subito, infatti, che l’azione di Annibale nell’isola non è né effimera né casuale e che dunque proprio sul terreno dello scon-tro con Cartagine di lì in poi si sarebbero giocate le fortune di città e di
uomini nonché l’assetto della Sicilia intera. Se non poteva agire dalla propria patria, egli l’avrebbe fatto da Selinunte, per l’occasione divenuta capitale elettiva di una Sicilia greca pugnace, lì dove a Siracusa il partito democratico di Diocle mostrava ancora tatticismi inutili e deprecabili viltà come quella di non recuperare i corpi dei caduti alle porte di Imera: Ermocrate, invece, «saccheggiando tutta la regione soggetta ai Cartagi-nesi, meritò elogi da parte dei Sicelioti e ben presto la maggior parte dei Siracusani ebbe a pentirsi, ritenendo che con l’esilio Ermocrate aveva subito una punizione immeritata e indegna della sua virtù» (così Dio-doro, 13, 63, 3). Nel 408 tutto sembra favorevole al ritorno trionfale in patria, se non fosse per l’ombra di un sospetto che ne stronca la parabola. I Siracusani cacciano Diocle, ma non accolgono Ermocrate i cui senti-menti aristocratici sembrano a questo punto prefigurare un progetto di-chiaratamente tirannico: dopo alcuni momenti concitati, anzi, si arriva allo scontro diretto in cui egli muore e i suoi compagni vengono uccisi, processati ed esiliati.
È la primavera del 407, il momento è drammatico, i Siracusani non sanno che il momento del tiranno è solo rimandato di poco e che, anzi, è
in nuce già lì: «alcuni, che erano rimasti gravemente feriti furono salvati
dai parenti che finsero di portare via i cadaveri, per evitare di esporli all’i-ra del popolo: tall’i-ra questi eall’i-ra anche Dionisio, colui che dopo qualche tem-po sarebbe diventato tiranno di Siracusa» (Diodoro, 13, 75, 2). Dionisio è tra i giovani amici del grande generale di cui sposa anche una figlia; non solo: Ermocrate gli è maestro nel mostrargli l’ineludibile centralità dello scontro con Cartagine e l’importanza strategica della parte occidentale dell’isola; gli è modello nell’uso spregiudicato del motivo antipunico per costruire una fortuna personale; e gli è di monito. La morte dell’uomo della vecchia generazione mostra ai giovani (Dionisio e Filisto, soprat-tutto) quanto si dovesse essere politicamente cauti e strategicamente spregiudicati: in una città timorosa della tirannide e ancorata alla vecchia dicotomia tra oligarchi e democratici, l’opposizione andava aggirata per dare piena legittimità formale a un progetto politico intimamente nuovo.
Morto Ermocrate, Selinunte viene lasciata a un destino di decadenza che si chiude con il definitivo abbandono datato da Diodoro (24, 1) al 250: la fortezza langue inutile alle spalle dell’esercito cartaginese che rapida-mente punta ad Agrigento. Il copione sembra già scritto, e in qualche modo risuona ripetitivo nelle pagine di Diodoro, che per la terza volta deve dire di una grande colonia greca assediata e presa da Cartagine. Inarrestabile sembra ormai l’avanzata punica che inesorabile muove
lun-go la costa meridionale dell’isola promettendo uguale destino di rovina e morte per Gela e Camarina e facendo ormai vedere un progetto defini-tivo che ha in Siracusa l’obietdefini-tivo finale con una minaccia concreta che riguarda tutta la grecità isolana. Domina il terrore: «La sciagura toccata a Selinunte e Imera, e poi anche ad Agrigento, metteva tutti in subbu-glio, come se fosse sotto gli occhi di tutti la ferocia dei Cartaginesi: essi non avevano pietà alcuna per quanti erano stati presi e si dimostravano del tutto insensibili verso i vinti, che crocifiggevano o oltraggiavano con violenze intollerabili» (Diodoro, 13, 111, 4).
Proprio mentre Siracusa si affanna con ambascerie a prendere le distanze da Ermocrate nella speranza di una soluzione diplomatica, è proprio un uomo “di Ermocrate”, Dionisio, a prendere in mano una si-tuazione che pare ormai disperata per riscrivere definitivamente senso e obiettivi di tirannide, guerra, egemonia.