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Dionisio ii e Dione

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 64-69)

Quella di Dionisio ii e di Dione è una necessaria convivenza anche nel-le pagine della storiografia antica, che, anzi, sembrano a volte apposita-mente costruite per enfatizzare la contrapposizione tra i due soprattutto

nelle occasioni in cui le differenze si palesano in tutta la loro irriducibi-lità. Il profilo di Dione e quello di Dionisio paiono costruiti in maniera reciprocamente speculare: l’uno spicca per giustizia, saggezza, ruvida fierezza, virtù (il più efficace ritratto è proprio quello di Plutarco, Vita di Dione, 8), l’altro è rappresentato come male educato, beone,

perdu-to dietro a piaceri disdicevoli; l’uno vuole essere espressione vivente del dettato platonico, l’altro è frutto fatale dei cattivi insegnamenti della corte dionigiana (descritta proprio in opposizione agli ambienti plato-nici da Plutarco, Vita di Dione, 4, 6). Il male peggiore sta tutto nella

pessima educazione ricevuta, che gli inibisce qualunque possibilità di migliorare e lo spinge invece a imitare il padre in pratiche deteriori come le perquisizioni forzate o la pretesa della guardia del corpo. Inevitabi-le dunque l’inimicizia con Dione: anche se il contrasto tra i due è so-prattutto di natura politica, la tradizione antica calca la mano sull’ethos,

descrivendo lo scontro come opposizione tra bene e male, tra la virtù del filosofo e la corruzione del tiranno, tra fascinazione e disprezzo. E così Dionisio, nei fatti come nella tradizione, deve fare i conti con due personaggi egualmente ingombranti, con il padre e con Dione, il che rende particolarmente difficile ritagliarne un profilo convincente: a lui la tradizione non risparmia nulla, definendolo a più riprese inetto, fin-tamente amante della pace, indolente e infantilmente mite (si legga, ad esempio, Diodoro, 15, 5).

Buon esempio di questo arduo districarsi lo si trova nel solito Dio-doro, irrinunciabile testimone non solo dei fatti, ma delle diverse let-ture che di essi sono state offerte. Nel libro xvi della Biblioteca, come

si è detto, sono ben distinguibili due nuclei di argomento siceliota: il primo, dedicato a Dione, di matrice eforea, il secondo, concentrato su Timoleonte, di stampo timaico. Senza cadere in eccessivo schematismo e riconoscendo comunque allo storico certa autonomia di giudizio, se non altro lì dove egli parla della storia della sua isola, si può comunque ritenere compatibile con l’atteggiamento generale di Eforo il tono me-dio e un poco distaccato che Diodoro utilizza nella narrazione dei fatti siracusani negli anni successivi alla morte di Dionisio i: la rappresen-tazione di Dionisio ii come uomo debole ma non dissoluto, lo sguar-do non immediatamente elogiativo verso Dione, le lodi riservate allo storico Filisto, tutto sembra differenziare questa parte della Biblioteca

da quella dedicata a Dionisio i e, soprattutto, dalla Vita di Dione

plu-tarchea. Diodoro è pacato anche nel mettere a confronto i due protago-nisti, i cui tratti caratterizzanti sono smorzati rispetto ai toni assai più

accesi adoperati da altri autori, siano quelli passionali di Teopompo che descrive un Dionisio dissoluto dedito a orge; o quelli partigiani e fedeli di Timonide, favorevolissimo a Dione; o quelli politicamente impegnati di Atanide, vicino alla posizione democratica di Eraclide e autore di una

Storia della Sicilia in 13 libri a partire dal 362/361 fino almeno al 337/336.

Indicatore dell’uso massiccio di Eforo è anche l’evidentissima cesura rappresentata nella Biblioteca dall’anno 356, quello con cui terminava

l’opera eforea e a partire dal quale (e per un intero decennio) le notizie siceliote di Diodoro diventano molto scarne, quasi povere e di evidente matrice cronografica.

Il tono sostenuto e quasi livoroso verso Dionisio ii che Diodoro assu-me in qualche passaggio sarebbe da ascrivere ad altri storici e soprattutto a Timeo, sempre efficace quando si tratta di dar colore ai personaggi. Giustamente rivalutato è anche il contributo di Teopompo che, come ricordato dallo stesso Diodoro, aveva dedicato una significativa sezio-ne dei Philippika (“Storie di Filippo”) proprio alle Sikelikai praxeis (“I

fatti di Sicilia”), da un momento non precisabile del regno di Dioni-sio i fino alla definitiva fuga di DioniDioni-sio il Giovane (343/342). «Tra gli storici Teopompo di Chio nella sua storia di Filippo inserì tre libri sul-le vicende della Sicilia; trattò un periodo di cinquant’anni, iniziando con la tirannide di Dionisio il Vecchio e terminando con la cacciata di Dionisio il Giovane. I tre libri sono quelli dal quarantunesimo al qua-rantatreesimo» (Diodoro, 16, 71, 1). L’opera di Teopompo, assai ampia, aveva una struttura che a partire da un periodo relativamente ristretto (il regno di Filippo, appunto) si apriva verso periodi e regioni più vaste con ampie inserzioni dedicate a popoli barbari e alla grecità occidentale. L’interesse dell’allievo di Isocrate per i fatti occidentali ben si spiega, infatti, all’interno della sua generale riflessione sul potere di natura dina-stica, che non poteva non tener conto della Sicilia, luogo per molti versi innovativo se non precorritore di esperienze poi portate a maturazione altrove. Le vicende siracusane erano un’efficace palestra interpretativa a uno sguardo che volesse comprendere le ragioni della brusca sterzata in-dividualista assunta dalla storia politica e dalle stesse politeiai.

Teopom-po sembra riservare un atteggiamento piuttosto tiepido nei confronti di Dione, guardato con sospetto perché legato a Platone, mentre si mostra più sensibile alle possibili intersezioni tra il potere macedone e quello dionigiano sia sul piano fattuale che su quello interpretativo. Nonostan-te le critiche riservaNonostan-te ad avidità e istinto predone del poNonostan-tere degenerato dei Dionisii, i frammenti permettono di cogliere la vigile attenzione per

la prospettiva epirotica e adriatica della loro politica, in evidente raccor-do, non foss’altro sul piano geografico, con le prospettive di espansione del potere di Filippo; di più, purtroppo, non si può dire, se non che già nel pieno del iv secolo le due rive del mare di mezzo si stavano avvi-cinando non solo nelle rotte concretamente praticate, ma anche nella lettura generale degli storici.

Come Dionisio ii, anche Dione è descritto per opposizione, ma que-sta volta perché meglio ne emerga la grandezza. Del giovane tiranno, si è detto, egli è lo specchio positivo, l’uomo maturo che ritiene di aver portato a compimento l’insegnamento platonico anche in virtù di un carattere intransigente e aspro. Nella Vita di Plutarco egli squaderna

tutti i tratti dell’uomo superiore. Nel soccorrere Siracusa devastata dai mercenari pronuncia un memorabile discorso ad alleati e a Peloponne-siaci (Plutarco, Vita di Dione, 43, 2-5) in cui sfoggia l’intero

campiona-rio della virtù: la benevolenza verso chi ha sbagliato, la devozione verso gli dei e la pietà rituale che lo induce a purificare subito la città invasa dai cadaveri. Così come per Dionisio il Vecchio, il giudizio definitivo sembra giocarsi ancora una volta sul fronte religioso: a fronte di tiranni empi e dissoluti, Dione è egli stesso soter e per questo del tutto

merite-vole di un culto tributatogli in maniera spontanea dall’assemblea e che, fosse eroico (o, meglio, «degno di un eroe») o divino (così Plutarco,

Vita di Dione, 29, 1-2), palesa la netta distanza da qualsiasi avversario

politico. Del resto in un lungo passo plutarcheo di esplicita derivazione da Teopompo sono chiaramente messi a confronto i prodigi che avreb-bero accompagnato i prodromi dello scontro tra i due: le navi che erano salpate da Zante con Dione erano state salutate da segni favorevoli quali un’eclissi di luna e uno sciame d’api, mentre a Dionisio la divinità aveva mandato come avvertimento un’aquila che aveva fatto cadere una lancia in mare e porci senza orecchie. Alla fine, la differenza tra le rispettive vo-cazioni finisce per essere evidente anche nella morte: Dione cade morto ammazzato da mercenari traditori con la gola tagliata quasi fosse vittima sacrificale, Dionisio si trascina sempre più intrattabile per le disgrazie subite fino al definitivo abbandono di Siracusa e all’ignominiosa fuga nel Peloponneso, dove passa gli ultimi anni indigente, pusillanime e vile, ozioso tra mercato del pesce e botteghe di profumi, nel timore di destare sospetti e nel ricordo degli insegnamenti di Platone, maestro incompre-so. Esempio vivente dell’instabilità della fortuna.

Ma il profilo di Dione è costruito per contrasto non solo con la fiac-ca figura di Dionisio, ma anche con Eraclide il demagogo. Il confronto

retorico tra i due all’indomani dell’incendio di Siracusa mette in scena non solo l’opposizione tra due caratteri (l’uno virtuoso, buono e giu-sto, l’altro invidioso, sleale e malvagio: per questo dittico basti leggere Plutarco, Vita di Dione, 47, 8), ma anche – nonostante la venatura tutta

personale del racconto plutarcheo – tra due differenti progetti politici fondati su un diverso rapporto con il demos: la virtù sta dalla parte di

un governo in mano a un uomo eccellente capace di guidare il popolo, mentre la demagogia si accompagna a disordini e a cattive intenzioni. Perfetta in questo senso la corrispondenza tra educazione e politeia, in

un confronto che non si risolve nella pura opposizione tra caratteri, ma assume una vena più schiettamente politica e storicamente fondata. La democrazia, radicale o moderata che fosse, sembrava aver fatto definiti-vamente il suo corso per lasciare spazio a un potere comunque destinato a pochi (forse ai migliori).

Eppure, anche in questa opposizione ben costruita e nonostante l’ormai radicata diffidenza verso forme partecipative di stampo demo-cratico, le fonti fanno intravvedere qualche forzatura e comprensibili ambiguità: quando, ad esempio, dopo la prima liberazione i Siracusani preferiscono Eraclide a Dione, sembrano già consapevoli di inquietanti zone d’ombra dell’aristocratico parente dei Dionisii, non del tutto esen-te da esen-tentazioni autocratiche sia per estrazione sociale sia per attitudi-ne. Anche su questo punto si intersecano in Plutarco due piani, quello politico e quello personale; Platone aveva rivolto il monito a Dione di guardarsi «dall’arroganza che è la compagna della solitudine» (Vita di Dione, 8, 4): nella virtù e nella dura sobrietà dell’allievo il maestro

in-travvedeva i tratti della superbia e di un esuberante senso di sé, ovvie premesse non già del superamento della democrazia, ma di una deriva autocratica. Torneremo sugli aspetti squisitamente politici che emergo-no, e falliscoemergo-no, negli anni sotto il segno di Dione; basti qui sottolineare come la tradizione storiografica e biografica antica sia particolarmente opaca lì dove calcando la mano sull’opposizione tra i protagonisti finisce per oscurare la realtà di intenti e progetti effettivi, cadendo nelle maglie di un giudizio stereotipato.

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 64-69)