Anche con Dione, dunque, la lotta contro la tirannide continua a con-tenere contraddizioni non risolte che si presentano quasi pari pari negli anni di Timoleonte. Il Corinzio, lo abbiamo visto, era arrivato sbandie-rando la libertà in tutte le sue possibili accezioni, ma una volta raggiunto lo stato di calma apparente siglato dal patto con Cartagine e dall’affer-mazione dell’egemonia siracusana, la sua azione politica scivola da pro-messe di colore democratico (Plutarco, Vita di Timoleonte, 22, 3, sostiene
che subito dopo l’abbattimento della tirannide egli instaura a Siracusa una demokratia) a una proposta più vicina alla tradizione siracusana con
una politeia di carattere oligarchico moderato, di esplicita ispirazione
corinzia, in cui l’assemblea cittadina trova adeguato contraltare in un si-nedrio di 600 membri di estrazione e orientamento aristocratico. Nella sua pur breve parabola, dunque, anche Timoleonte mostra una progres-siva chiusura verso un programma sempre più dichiaratamente oligar-chico, egemonico e tagliato sul solo elemento greco: in qualche modo, insomma, anche la sua finisce per essere un’attitudine autocratica, pur priva degli elementi illegittimi e più odiosi della tirannide, in cui viene esaltata l’appartenenza a un’aristocrazia di valori e comportamenti, for-giati da vita e paideia. In Sicilia il potere di uno solo aveva già
sperimen-tato molte varianti: dalla tirannide dichiarata dei Dionisii, all’utopia del sovrano platonico, al carisma del salvatore della patria. Una ancora ne mancava, quella più esplicita, definitiva e in linea con i tempi; ma per quella bisognava aspettare Agatocle.
Gli anni successivi alla morte del Corinzio mettono in luce il lato oscuro della rinascita degli anni trenta: quel modello di colonizzazio-ne era per certi versi anacronistico e non aveva risolto le tensioni tra i gruppi etnici e sociali dell’isola, aggravando, anzi, la conflittualità in materia di divisione e gestione della terra e sempre più allontanando la possibilità di un’effettiva radicalizzazione democratica. La nozione stes-sa di “democrazia” si stava assottigliando, diventando mera negazione della tirannide senza poter riempirsi di contenuti realmente innovatori. Il vero scossone viene dato da un uomo dalle origini senza gloria, dal soldato figlio di vasaio che mette di nuovo la guerra al centro della pro-pria azione. Nel 306 Agatocle assume ufficialmente il titolo di basileus,
lui che, pure, rappresenta per educazione e provenienza sociale quanto di più lontano dalla basileia legittima e costituzionale. Ma forse proprio
per questo egli sa interpretare i tempi nuovi e cogliere al volo l’esem-pio dei diadochi anche in materia di “fondazione” e legittimazione del potere, sconvolgendo i termini di una dialettica politica consolidata e rivestendo di piena liceità un’esperienza per certi versi rocambolesca. L’interesse e la contraddizione di questa figura, in fondo, stanno tutti qui: nella massima diffrazione tra l’umiltà delle origini e la grandezza del kratos, tra l’oscurità della matrice e l’ambizione di una regalità che si
voleva intrinsecamente simile a quelle su cui ancora riverberava la luce di Alessandro.
Il potere di Agatocle è, senz’altro, anche un potere di tiranno, nono-stante le misure adottate all’inizio per confondere le acque; e lo è così tanto da avere proprio nella figura di Dionisio i un potente modello di riferimento evidente sia nella concretezza delle scelte (si pensi alla ri-badita centralità di Siracusa, alle proiezioni adriatiche, alla contrappo-sizione a Cartagine), sia nei tratti comportamentali (contrassegnati da astuzia e crudeltà), sia nelle letture proposte in sede storiografica. Ap-pena nominato strategos autokrator, egli promette misure tipicamente
democratiche (anzi demagogiche) come la cancellazione dei debiti e la distribuzione di terra agli indigenti, ma poi forza deliberatamente la ca-rica per assumere la pienezza del comando: per governare la città stringe un rapporto diretto con l’assemblea superando di un balzo, e di fatto cancellando, tutti gli organi intermedi che rappresentavano i ceti emi-nenti. Assassinii e confische dichiarano senza più alcun infingimento che ogni tabù sta per cadere.
Ma in questo potere l’aspetto militare è assolutamente centrale, forse più che nelle esperienze precedenti: la guerra e ciò che ad essa sta intorno (sia guerra intestina o di conquista) diventano definitivamente palestra e misura non solo della capacità strategica di un singolo generale, ma an-che della sua presa politica in senso ampio. È sulla guerra an-che si costrui-scono fortune e disastri di città e parabole di uomini che incrociando le armi mettono a confronto potere politico e carisma: poco posto ormai per il temporeggiare astuto dei Dionisii. Agatocle, così, non smette mai i panni del soldato e per tutta la vita fonda la sua forza sulla capacità militare, sia quando legittimamente inserito nelle istituzioni siracusa-ne (e dunque quale strategos), sia quando la città lo costringe
tempora-neamente alla condizione di esule; esule sì, ma a capo di un esercito di mercenari. Fondamentale a questo proposito l’importanza del legame con i “suoi” soldati, non più solo guardie del corpo, ma base effettiva e garanzia di un potere del tutto individuale e sempre più scardinato dal
contesto cittadino: nel sottolineare questo aspetto Diodoro, uomo di età repubblicana, probabilmente aveva negli occhi altre esperienze a lui più vicine, il che retrospettivamente conferma quanto innovativa fosse l’azione di Agatocle, sempre meno imbrigliabile nei canoni consueti di un’assodata pratica politica.
Se l’esercizio della guerra è il fondamento più solido e l’esercito l’in-terlocutore più affidabile, non stupisce che ai soldati per primi egli palesi i segni di un cambiamento di registro. Ed è con la spedizione in Africa che lo strategos salta il guado sia in termini strettamente strategici
(nes-suno, in effetti, aveva mai osato tanto), sia nell’interpretazione del pote-re assoluto: quando infatti deve comunicapote-re all’assemblea dei soldati la decisione di bruciare la flotta, egli si presenta con una corona in capo e avvolto in uno splendido mantello; si dichiara interprete della volontà divina e facendo riferimento ai presagi tratti dalle viscere delle vittime mette in scena una rappresentazione grandiosa in cui, con regale digni-tà, appicca il fuoco alla nave ammiraglia, dando inizio a una sinistra se-quenza di incendi, grida e preghiere. Nel corso delle operazioni in Libia in più occasioni si rivela l’eccezionale attitudine teatrale del comandan-te: in un momento di difficoltà, ad esempio, egli smette la porpora e si presenta ai ribelli in vesti umili, fino a che essi – impressionati da un suicidio simulato – non gli chiedono a gran voce di rivestire di nuovo veste e comando. Gli ingredienti della perfetta monarchia ellenistica, dunque, ci sono già tutti: ci sono i simboli (corona e porpora), c’è l’ac-clamazione del popolo in armi, c’è la lancia da piantare su nuovi territori di conquista. Quando, infine, Agatocle si proclama re, esce allo scoperto dichiarando non solo la sua ambizione personale ma anche le prospet-tive a largo raggio in cui intende muoversi: «Agatocle infatti quando seppe che i dinasti suddetti avevano adottato il diadema, ritenendo di non essere in nulla ad essi inferiore né quanto a territori né quanto a imprese, si proclamò re [basileus], ma decise di non assumere il diadema;
egli infatti portava abitualmente la corona, a causa di un certo ufficio sacerdotale che ricopriva» (Diodoro, 20, 54, 1). Ravvisiamo in questa scelta una sorta di doppio movimento: c’è l’imitazione dei diadochi nel desiderio di aderire a un mondo ellenico improvvisamente enorme e sbi-lanciato verso Oriente; c’è anche, però, il sunto di un’ascesa tutta sice-liota, la maturazione non improvvisa di un processo interno a Siracusa e alle forme contraddittorie che in essa aveva assunto il potere autocratico, a partire dalla tirannide e dalla strategia. Anche una volta ufficialmente
dyna-stes (“dei Siracusani” o “di Sicilia”), per ribadire sia il necessario aspetto
territoriale sia, ad esso congiunto, la sostanziale continuità con le espe-rienze precedenti. Nella rappresentazione di Diodoro, infatti, Agatocle incardina il proprio potere su esercito, territorio e gesta, in una perfetta sintesi tra vecchio e nuovo che anche attraverso simboli inequivocabili traghetta contenuti più antichi verso lo sbalorditivo proscenio dell’elle-nismo mediterraneo. Agatocle chiude il cerchio di una storia che viene da lontano sotto il segno (invero non definitivo) del basileus e di una
sua legittimazione anche giuridica: in questo senso parlano l’assunzione della somma carica sacerdotale e dei supremi poteri per terra e per mare, l’esautorazione del consiglio, il livellamento giuridico di tutte le città del regno (greche e non greche), le norme per la successione dinastica e il riconoscimento del rango monarchico anche per i familiari, nonché le azioni a largo raggio quali la ricerca di parentele illustri e a loro volta legittimanti. In questo senso parla anche il superamento definitivo di una sorta di tabù sempre rispettato dai suoi predecessori, con la scel-ta di tipi monescel-tali espliciscel-tamente ispirati ad Alessandro e l’aggiunscel-ta al tradizionale etnico del proprio nome, in un’ultima fase, accompagnato persino dal titolo basileus. Non si trattava solo di immagini o di nomi: il
re opera per ripristinare sistema metrologico, nominali e tipi più conso-ni alla circolazione e allo scambio attivi nel Mediterraneo e attua scelte molto concrete come un’attenta politica fiscale, il sostegno alla moneta bronzea, la difesa della piccola e media proprietà.
La sua è dunque un’esperienza autenticamente innovatrice, che an-ticipa e prepara sviluppi destinati a durare e a rinsaldare i legami tra la Sicilia, per tanti versi così autonoma, e la più grande storia del Medi-terraneo dei diadochi. Nella lettura di questa basileia, è vero, facciamo
ancora i conti con il duplicarsi di una tradizione che, se favorevole (nella persona di Callia), riconosce ad Agatocle una natura regale quasi prede-stinata e, quando contraria (Timeo), nega ad essa qualsivoglia forma di legittimazione in mancanza di perspicue doti regali (virtù e pietà). Un dato, però, è fuori discussione: la centralità che in quella esperienza ha avuto la guerra, considerato che Agatocle in fondo non ha mai smesso i panni del soldato.