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Il fantasma della libertà

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 97-102)

Il primo spettro che si aggira per la Sicilia ha un nome che nessuno osa pronunciare in sede istituzionale e che invece è sulla bocca di tutti, anche su quella degli storici antichi e moderni. Dionisio è “tiranno”. Lo è in primo luogo sul piano del carattere visto che, come già si è visto, egli in-carna tutti i vizi e le storture dell’uomo dal potere immenso, che usa ogni strategia psicologica e comportamentale per tenere il popolo legato a sé. È un abbraccio doppiamente nefasto, che guasta entrambi, rendendo più imprevedibile e violento il tiranno e più fiacco e corrotto il demos che

infatti più volte deve ricorrere a uomini della “buona sorte”. Ma quella di

tyrannos non costituisce mai – e non potrebbe essere altrimenti –

codi-ficazione formale del suo potere, tanto più che egli, a differenza di altri nel passato, non ha assunto il potere con la forza e con l’inganno, ma ha “solo” dato un’interpretazione del tutto personale a un’elezione libera da parte dei concittadini. D’altra parte proprio i due elementi eterodossi sopra segnalati, la durata a vita della carica e l’assunzione di una guardia del corpo avulsa dall’esercito cittadino, segnalano come già in passato il colore tirannico di quel potere.

Ingredienti così peculiari e controversi producono significative riso-nanze, che consentono di collocare anche l’esperienza dionigiana all’in-terno della faticosa maturazione del mondo politico antico. La prima eco, la più paradossale, è anche la più celebre ed è suggerita con la consue-ta lucidità da Tucidide, che nel chiudere una pagina su Pericle commen-ta: «la chiamavano democrazia e in realtà era un governo esercitato dal primo cittadino» (Tucidide, 2, 65, 10). È una pagina bellissima e piena di

pathos, che incanta lì dove evoca il rapporto speciale tra Pericle e il

popo-lo, un rapporto quasi amoroso sostenuto dall’eccezionale carisma di un uomo completamente a suo agio nelle istituzioni e che fa della carica di stratego (l’unica rinnovabile ad Atene) il ganglio vitale della democrazia. Siracusa non è Atene, certo; la sua politeia, pur di stampo democratico (di

una democrazia moderata, evidentemente), ha meccanismi lenti e poco efficaci; soprattutto, Dionisio non è Pericle, ma anche lui ci costringe a

interrogarci di nuovo sul rapporto tra istituzioni e personalità, tra singole volontà straordinarie e un demos anonimo e plurale.

D’altra parte, e questo è un richiamo più scontato, questo demos (da

intendersi come corpo civico politicamente attivo) è innervato da decen-nali conflitti tra la parte più schiettamente popolare e gruppi di notabili di specchiata fede oligarchica: contraddizioni antiche e quasi strutturali della polis greca che in più di un’occasione avevano prodotto

cambia-menti. La tirannide di Dionisio è espressione anche di questo dinami-smo, ormai uscito dalla sola classe aristocratica (come invece era accadu-to nell’arcaismo) e capace di farsi moaccadu-tore di modernità. Delle esperienze più antiche questa “nuova” tirannide recupera alcuni tratti (la pretesa di ereditarietà, la guardia personale, l’accumulo di ricchezze, l’avversione per la libertà di parola), ma senza esaurirsi in essi porta a compimento alcuni aspetti innovatori contenuti nelle esperienze a loro modo tardive dei Dinomenidi: spiccato respiro territoriale, spregiudicatezza nel rap-porto con le altre poleis, ambizioni verso l’Italia, utilizzo ideologico della

lotta contro il barbaro. Quella di Dionisio, insomma, non è una repli-ca fuori tempo di più antiche e gloriose esperienze, ma la maturazione in parte consapevole di possibilità aperte dalle macerie della guerra del Peloponneso anche in materia politica e sociale. Tanto che era stato pos-sibile per un figlio di scrivano diventare l’uomo più potente d’Europa.

La critica storica moderna ha da tempo imparato a ravvisare luci e ombre dell’esperienza tirannica senza farsi invischiare dal colore irri-mediabilmente negativo che il pensiero politico greco ha attribuito a quelle esperienze. Resta però che in sede storiografica e letteraria il ter-mine – quando utilizzato – ha un’irrimediabile valenza negativa, quella stessa ereditata dal lessico politico, e giornalistico, a noi contemporaneo. Quando dell’esperienza dionigiana parlano gli storici, le parole d’ordine vanno così in un’unica direzione: nel testo di Diodoro, per molti versi il più rappresentativo, il più delle volte egli è definito tyrannos, spesso

con la specificazione “dei Siracusani”; e “tiranno dei Siracusani” è detto anche il figlio, appena entrato in scena (Diodoro, 16, 5, 1).

L’uso quasi indiscriminato della definizione chiede che si esca dalla riva del giudizio morale afferrando in maniera più decisa gli aspetti prettamen-te politici: pur non poprettamen-tendo mai diventare definizione ufficiale, il prettamen- termi-ne tyrannos è il più efficace per impostare un sistema polare di immediata

comprensione che sul versante opposto contempla la libertà, eleutheria. È

un’opposizione che viene da lontano e che nel racconto di Diodoro getta un ponte tra i Dinomenidi e i Dionisii, separati proprio da un periodo di

libertà. Alla caduta di Trasibulo di Siracusa, nel 466, lo storico commenta infatti: «I Siracusani, che in questo modo avevano liberato la patria, si accordarono con i mercenari perché se ne andassero da Siracusa, e le al-tre città, che erano soggette alla tirannide o avevano delle guarnigioni, le liberarono e in esse ristabilirono i regimi democratici. Godendo di pace, da allora la città fece grandi progressi in prosperità, e salvaguardò la demo-crazia per quasi sessanta anni fino alla tirannide di Dionisio» (Diodoro, 11, 68, 5-6). Da una parte del dittico, dunque, stanno libertà, democrazia, prosperità e dall’altro, prima e dopo, la tirannide. E poco importa che il primo atto politico di Dionigi sia il richiamo dei fuoriusciti, il tentativo cioè di sanare le ferite di un corpo civico dilaniato; quello che sin da subito tutti gli oppositori fanno girare in città è il fantasma della libertà.

Ma proprio alla “libertà” Dionisio si appella per rendere accettabile la propria investitura a stratego di pieni poteri, facendo leva sull’accezio-ne se non più antica certo più urgente: il drammatico slogan agitato al momento dell’assunzione del potere invoca a gran voce la “libertà dallo straniero”, dal barbaro cartaginese, anche se assai presto i Siracusani si rendono conto che «la conseguenza era la signoria [dynasteia]:

volen-do consolidare la libertà, senza accorgersene avevano dato alla patria un despota [despotes]» (Diodoro, 13, 95, 2). Nelle pieghe del lessico si

in-tuiscono ambiguità e sottigliezze di battaglie condotte a colpi di parole d’ordine e di un potere che insinuandosi in strutture politiche e ideo-logiche consolidate tenta di attribuire ad esse significati nuovi. La con-traddizione intrinseca del potere di Dionisio sta tutta in una notazione apparentemente neutra di Diodoro: «comprendeva infatti che i Siracu-sani ormai liberi dalla guerra, avrebbero avuto il tempo a disposizione per recuperare la libertà» (Diodoro, 14, 7, 1). Grazie al soldato Dionisio i Siracusani potevano vivere in pace “liberi dalla guerra”, ma dal Dionisio tiranno erano privati dell’altra libertà, quella politica.

“Libertà, libertà”, urlano tutti, amici e oppositori, cittadini ed esuli. Questo il grido che si alza nella città sicula di Enna proprio per istigazio-ne di Dionisio, che istigazio-nel 403 vuole punire il tiranno Aimistigazio-nesto colpevole di insufficiente fedeltà; il demos geloo applaude il tiranno «in quanto

artefice della sua libertà», ed è in nome della “libertà” che Dionisio con-duce tutte le guerre contro Cartagine: «tutti partecipavano con entu-siasmo alla sua spedizione, poiché odiavano il pesante dominio puni-co e desideravano ardentemente la libertà» (Diodoro, 14, 47, 5). Della

eleutheria Dionisio disinvoltamente valorizza il versante funzionale al

pun-to di vista – un punpun-to di vista tremendamente moderno – il vero fronte non è (più) quello della stasis, ma quello del polemos, della lotta contro

un nemico esterno, tanto più che non si tratta più di conflitti tra vicini, ma di contrasto tra potenze egemoni.

Insomma: la libertà tanto cara alla polis comincia a mostrare fragilità

ed evanescenze soprattutto quando di essa si enfatizzano accezioni e im-plicazioni differenti (libertà dal nemico; libertà politica); eleutheria

di-venta slogan spendibile in tutte le stagioni, arma in mano agli uni e agli altri, incapaci tutti di recuperarne l’intrinseca unità originaria: l’uno, Dionisio, stringendo le catene della tirannide ma pensando alla libertà dai Cartaginesi come premessa necessaria per costruire un orizzonte più ampio, gli altri invocando una libertà aristocratica e cittadina, pregiudi-zialmente ostile però a qualsivoglia rimescolamento sociale o politico.

C’è solo un momento, stando alla tradizione diodorea, in cui cose e parole sembrano tornare al loro posto, un posto antico e solenne, forte di tradizione, di retorica e di valori condivisi. L’occasione è data dal ritorno di Dionisio in città nel 395, dopo che i Siracusani “da soli” sono riusciti a battere le navi cartaginesi: circolano strane voci e Dionisio, sensibile agli umori del demos, convoca l’assemblea. Nonostante le lusinghe del

tiranno, questa volta qualcuno osa alzarsi: è Teodoro, aristocratico che gode gran fama presso i cavalieri, ed è subito chiaro che per sua bocca parla l’opposizione (Diodoro, 14, 65-69). Il sipario aperto da Diodoro è davvero inusitato, tanto rari sono i discorsi diretti nella Biblioteca:

sem-bra di essere tornati indietro in tutti i sensi e di leggere di altri discorsi e di altre assemblee, assai più celebri. Si discute su carattere e matrice di questa pagina diodorea, in cui sentiamo vibrare l’esempio di Tucidide e la voce del retore Isocrate, e di cui si è più volte sottolineato il tratto artificioso e ideologico (sia esso timaico o meno); ma anche volendone azzerare il valore documentario, resta che le parole attribuite a Teodoro sono perfetto manifesto dei più battuti motivi antitirannici che certa-mente animarono la discussione nella concreta vita politica della città. Se dunque l’ambientazione nei primi anni della tirannide è funzionale alla narrazione storica, i temi messi in campo sono valevoli più a largo raggio, nutriti di un pensiero e di una prassi ben radicati.

Teodoro rimette le cose in chiaro e fa un discorso sulla patria e sulla libertà. Quando si parla di libertà essa va intesa, concepita e desiderata in tutti i suoi sensi possibili, senza ambiguità: libertà dai Cartaginesi e libertà dalla tirannide, perché senza questa anche quella finirebbe per perdere significato: «Ma noi, cittadini, più che alla guerra con i Fenici,

dobbiamo porre fine alla tirannide dentro le mura» (Diodoro, 14, 65, 3). Non a caso in questo discorso si addensano le occorrenze del termi-ne despotes, volto a evocare lo stato di schiavitù (douleia) imposto dal

tiranno ai Siracusani, mentre la libertà invocata è quella dei padri, che ha radici profonde nella tradizione di marca aristocratica e di stampo squisitamente cittadino: nel richiamo alla libertà Teodoro rimpiange un mondo già trascorso in cui nomos, polis e patria sono ineludibili punti di

riferimento e così facendo mette al riparo questa eleutheria da qualsiasi

istanza di marca democratica.

Un sapore particolare ha la parte del discorso che, come uso vuole, ri-flette sul passato, misura di ogni perorazione. Il passato della Sicilia ha tre momenti cardine: la battaglia di Imera, il potere dinomenide, la spedizio-ne ateniese; il passato di Dionisio è rappresentato da Gelospedizio-ne sia sul piano oggettivo (anche lui strategos nella guerra contro il barbaro), sia su quello

più fluttuante dell’immagine ideologica. Su questo aspetto Teodoro sem-bra ribattere passo passo alla migliore propaganda dionigiana, mettendo-ne in piena evidenza i nodi dialettici: Dionisio aveva costruito la sua car-riera sul richiamo a Gelone e alla libertà da riconquistare. Teodoro chiosa: «Quello con il suo valore personale, con l’aiuto dei Siracusani e degli altri Sicelioti liberò tutta la Sicilia; questo, che ha ereditato le città libere, di tutte le altre ha reso padroni i nemici; quanto a lui ha ridotto in schiavi-tù la patria» (Diodoro, 14, 66, 1). La comparazione resa così esplicita da Teodoro, pur fatta giocare contro Dionisio, ha il merito di rendere ancora più evidente l’uso strumentale che di Gelone si fece nel corso del iv secolo, fino ad ascrivergli il paradossale merito dell’abbattimento delle tirannidi.

Quanto Teodoro teorizza, Timoleonte riesce a fare, e tanto l’uno, incarnazione di personaggio da teatro o da diatriba retorica, rimane sul piano dell’immaginazione e dell’auspicio, l’altro prova a costruire inter-venendo nel cuore del potere. Così come descritta dalle fonti antiche, l’azione del Corinzio è tutta calibrata sul perfetto modello antitirannico che trova massima espressione nell’uccisione del fratello: mentre alcuni Corinzi si agitano di fronte a un fatto di sangue tanto grave, altri pensa-no che egli debba essere acclamato come tirannicida, secondo la migliore tradizione iniziata con la celebrazione di Armodio e Aristogitone. Pro-prio perché muove da un indubitabile sentimento antitirannico, l’aspi-razione alla eleutheria da lui dispiegata in Sicilia non suona mai sospetta,

nemmeno quando si riveste dei contenuti antibarbarici già cari ai due Dionisii. Timoleonte supera brillantemente la doppia prova della libertà, quella della guerra e quella della politica: dopo la firma degli accordi con

Cartagine, chiede e ottiene libertà e autonomia per tutte le città greche, nello stesso tempo mettendo al riparo Siracusa da possibili pretese delle città satellite. Questa eleutheria diventa così condizione per un’egemonia

vecchio stampo che con Timoleonte riacquista piena centralità.

All’interno di Siracusa, il Corinzio ripristina la “libertà” nel segno del-la tradizione e attraverso gesti altamente simbolici quali l’abbattimento delle abitazioni e dei sepolcri dei tiranni, la ricostruzione dei tribunali e la riacquisita importanza dell’agora (oramai abbandonata e coperta di

erbacce secondo la vibrante descrizione di Plutarco, Vita di Timoleonte,

22, 1-4). Il riferimento implicito non può che essere a quella che altrove (Atene) in anni non lontani si era chiamata patrios politeia, e che a

Siracu-sa e a Corinto prende le fattezze di una solida oligarchia moderata che si spera in grado di garantire coesione interna e buone relazioni interstatali. A questa libertà Timoleonte sa dare infine un valore aggiunto in ter-mini concreti. La Sicilia è devastata dalle troppe guerre ed egli la ricostru-isce, ripopola e restaura, interpretando al meglio quella speciale accezione di “libertà” già colta da Erodoto, che individuava nella fine della tirannide di Ippia l’inizio e la causa della crescita di Atene. «In breve, dopo aver risolto pacificamente tutte le questioni della Sicilia, Timoleonte fece in modo di accrescere in poco tempo la prosperità delle città» (Diodoro, 16, 83, 1). Così, l’accezione ultima della libertà promessa da Timoleonte finisce per essere anche quella più sfuggente: “libertà” dalla paura, “liber-tà” dalla miseria e dunque, detta in altre parole, felicità.

Nel documento Quality Paperbacks • 404 (pagine 97-102)