Di Dionisio, figlio di scrivano, spicca sin da subito la capacità di am-maliare il demos e non a caso la tradizione storica cede a più riprese a
un lessico che anche quando descrive azioni militari o decisioni politi-che richiama sentimenti e pulsioni. Il tiranno suscita nel popolo, via via, odio, rabbia, terrore, pietà, speranza, riconoscenza, gioia; egli blandisce e rimprovera, minaccia e promette: nel tempo questo rapporto speciale non si appanna, ma si articola e si affina, perché egli sa sempre toccare le corde giuste. Durante la fortificazione delle Epipole fatica insieme ai cittadini e mentre finge di aiutarli li controlla e li sprona in un rapporto straordinariamente moderno, o umano (Diodoro, 14, 42, 1: «Dioni-sio ogni giorno si aggirava fra i lavoratori, rivolgeva loro parole corte-si, premiava i più volenterosi con doni e li accoglieva alla sua tavola»); per convincere i Siracusani dell’opportunità di intraprendere la secon-da guerra contro Cartagine sceglie la via morbisecon-da (Diodoro, 14, 45, 1: «deponeva ormai l’asprezza della tirannide e, mutandola in clemenza, governava con più umanità sui sudditi, senza uccidere né esiliare, come era solito»); mentre manovra contro le navi puniche davanti a Catania studia le mosse che possano infondere coraggio ai suoi; usa le armi della lode, dei doni e dei banchetti per stroncare i fermenti dell’opposizione aristocratica fomentata da Teodoro.
Nella rappresentazione delle fonti letterarie, dunque, emerge e a tratti prevale il dato squisitamente psicologico, tanto che persino l’a-spirazione alla tirannide viene descritta come risultato di un moto ca-ratteriale prima che freddamente politico. Di Dionisio si dicono
l’in-gegno, l’attitudine alla macchinazione (mechane è parola chiave nella
narrazione diodorea), la lungimiranza non disgiunti, almeno nella fase iniziale, dal desiderio di apparire moderato e saggio, come suggerito dai nomi scelti per le figlie: Dikaiosyne (Giustizia), Sophrosyne (Saggezza), Arete (Virtù). Uomo spregiudicato e libero, egli scombina alcuni
assio-mi della grecità costituita – l’appartenenza cittadina, il rispetto delle forme istituzionali e delle gerarchie naturali e sociali – per giocare d’an-ticipo e d’astuzia, con una prontezza che colpisce anche lo spettatore più smaliziato. Anche da soldato egli preferisce la metis alla forza: le
sue sono per lo più vittorie di intelligenza e di strategia, quando non di palese inganno. E neppure questo, naturalmente, può piacere ai suoi oppositori.
Nella tradizione si aggiungono inoltre note ancor più personali, che travalicano la logica del “fare” per consegnarci un ritratto intimo e quo-tidiano. Non tutto è oro quel che luce, infatti: dietro la felicità del potere Dionisio nasconde paura, invidia e sospetto proporzionali, si direbbe, alla vastità del suo dominio e tali da indurlo a esiliare e a mettere a morte parenti e amici e a impartire una cattiva educazione al figlio, pur desti-nato a essergli erede. Contro critiche e ostilità poco possono tutti quei tic che la tradizione puntualmente gli attribuisce (paura del barbiere, pretese di controllo maniacale, scoppi inauditi di violenza; un efficace elenco di tutte le paure del tiranno si legge in Plutarco, Vita di Dione,
3-8), nulla la corazza di ferro (vera e simbolica) che portava sempre sotto la veste o la cittadella fortificata costruita a Ortigia nei primi anni del suo dominio (Diodoro, 14, 7, 3: «costruì sull’isola senza badare a spese una cittadella fortificata, perché servisse da rifugio in caso di eventi im-provvisi»). E anche la folle passione per la poesia che lo porta a esporsi al pubblico dileggio a Olimpia si fa ricondurre alle pervicaci bizzarrie dei despoti di ogni tempo.
Nella tradizione prevale dunque un’immagine tutta in negativo: Dionisio è il «cittadino scelleratissimo, il tiranno amarissimo, il co-mandante più vile di tutti» (così Diodoro, 14, 69, 1), colui che im-persona al meglio la somma di difetti del tiranno. Nelle parole degli oppositori (personificati da Teodoro) la sua capacità politica è mani-festazione di spietato opportunismo politico, giocato a proprio esclu-sivo vantaggio; la sbandierata abilità militare non lo mette al riparo da rovesci, sconfitte e incidenti sul campo (il racconto da parte di Diodo-ro, 14, 88, 3 del ruzzolone sull’acropoli di Tauromenio innevata sfiora volutamente il ridicolo); il suo potere sconfina nei territori della
tra-gedia e della crudeltà (si pensi al supplizio inflitto a Fitone: Diodoro, 14, 112).
Un’accusa, in particolare, monta progressivamente a correggere l’immagine dell’uomo d’azione capace e fortunato, ed è quella di em-pietà che alla fine lo vede accomunato ai Punici nemici. L’emem-pietà non ferma Dionisio e i suoi sostenitori dinanzi ai templi che vengono depre-dati per accumulare ricchezze da investire in nuove imprese militari in un circolo vizioso che vede l’interesse individuale ormai indifferente al rispetto della sacralità (così Teodoro in Diodoro, 14, 67, 4: «Ma non ci vergogniamo di avere come comandante in guerra colui che ha spo-gliato i templi della città?»; così Lisia a Olimpia contro la “tirannide empissima”). Alla fine Dionisio muore come è vissuto, nell’immode-razione, nell’esagerato amore di sé stesso e nella paura. L’oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto quando avesse prevalso sui migliori e lui aveva sempre interpretato il presagio riferendolo alla gloria militare, arrivando per questo a evitare i conflitti con i Cartaginesi (Diodoro, 15, 74, 3: «ecco perché pur avendo combattuto più volte contro di loro, aveva l’abitudine di darsi alla fuga quando vinceva e di soccombere de-liberatamente, affinché non sembrasse che egli era stato migliore di ne-mici più forti»); ma il destino è inevitabile, ed è quando egli vince alle Lenee ateniesi con una tragedia peggiore di altre che la morte lo coglie ubriaco e inconsapevole.
La trama del racconto diodoreo, dunque, sembra non lasciare dubbi: l’immagine del tiranno suona inequivocabilmente negativa e come tale da ascrivere allo storico Timeo che, esiliato da Agatocle, avrebbe voluta-mente calcato la mano sulla negatività di qualunque potere autocratico; d’altra parte proprio ad Atene, dove Timeo aveva passato gran parte del-la propria vita, era ben radicata una tradizione ostile al tiranno nutrita negli ambienti dell’Accademia.
Tra le pieghe dello stereotipo, però, emergono anche aspetti meno crudi e meno netti. Si prenda l’esempio della battaglia dell’Elleporo: dopo lo scontro Dionisio riesce a stringere in assedio ben diecimila ne-mici e la sua iniziale durezza fa temere il peggio, ma mentre gli sconfitti scendono dalla collina stremati e a capo chino Dionisio, lugubre, batte un bastone e inaspettatamente «mentre tutti temevano la sua ferocia bestiale, si mostrò invece mitissimo» (Diodoro, 14, 105, 3): tutti i pri-gionieri sono rilasciati senza condizioni e senza riscatto e per questa ragione il tiranno riceve corone, lodi e onori. Questo comportamento lascia interdetti già i contemporanei ed è forse da imputare a un carattere
che coltiva consapevolmente l’imprevedibilità concedendosi improvvisi colpi di teatro. Accanto a questo aspetto, episodi simili permettono di scorgere la trama di un giudizio storico più sfumato che riconosce a Dio-nisio alcune capacità, quali soprattutto il valore militare (in particolare nell’età giovanile), la finezza strategica e la virtù oratoria.
Andando oltre la vis polemica degli oppositori, rintracciamo così
qualche eco di una tradizione più favorevole, inghiottita però, Filisto a parte, dalla voragine della caduta dei Dionisii. A mancare, cioè, sono le voci dichiaratamente favorevoli, ed è un vero paradosso (e un pec-cato), perché a Siracusa Dionisio era sicuramente circondato da amici che avevano l’esplicito compito di scrivere bene del loro dinasta. Egli si era impegnato a fondo per restare impresso nell’immaginazione e nelle teste di sudditi e cortigiani, costruendo scientemente il consenso anche con le armi del mito e della letteratura; lui stesso, pare, avrebbe scritto un’opera storiografica, forse di valore pari a quello delle composizioni poetiche, ma comunque interessante, ad averla, per avere un’idea del modo in cui un tiranno pensa sé stesso. Di tutto ciò si sa poco, pochis-simo, sostanzialmente uno sparuto elenco di nomi (Ermia di Metimna, Policrito di Mende, Alcimo) e di frammenti che una volta inseriti in un quadro d’insieme fungono però da opportuno antidoto al lettore di Timeo. Qualcosa riusciamo a intravvedere nell’astro che compare sulla monetazione siracusana battuta nei primi decenni del iv secolo, a sim-boleggiare l’inizio di una nuova era; o nella scelta dei panni di novello Dioniso che il tiranno scelse di rivestire in una statua che si fece erigere a Siracusa. Qualcosa, come detto, traspare anche nel chiaroscuro della pa-gina diodorea, dove lo storico non si abbandona a un giudizio compatta-mente univoco e lascia spazio a qualche spiraglio più positivo. Del resto, possiamo immaginare che Diodoro fosse particolarmente sensibile alla valutazione serena dei poteri autocratici, visto che l’età in cui egli viveva, la tarda repubblica romana, lo costringeva a riflettere su natura e risvolti del potere assunto da individui eccezionali. Ma su questo, purtroppo, possiamo dire poco visto che le pagine da lui dedicate a Cesare ci sono giunte frammentarie.
Restano solo frustuli, tracce, impressioni: il tiranno “cattivo” lascia die-tro di sé soprattutto lacrime e sangue e dunque una cattiva reputazione.