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La scuola neoistituzionalista che si è sviluppata a partire dalla fine degli anni ’7021 riprende le mosse dell’istituzionalismo classico di Weber e di Selznick per comprendere i comportamenti sociali a partire dall’influenza e dai condizionamenti, sia materiali che simbolici, esercitati dalle istituzioni sugli individui e sulle organizzazioni (Powell, DiMaggio, 1991). Per capire le organizzazioni i neoistituzionalisti, approfondendo e superando il pensiero di Selznick, sottolineeranno come occorra comprendere i simboli, i miti moderni,

21 DiMaggio nell’introduzione dell’antologia del 1991 fa risalire la nascita degli studi neoistituzionalisti al

1977 anno in cui uscirono due articoli curati da Meyer nei quali compaiono molti concetti centrali della teoria istituzionalista.

l’azione routinaria su quella programmata, i quadri cognitivi, il bisogno di legittimazione, le norme sia professionali, che sociali e culturali e il “dato per scontato” (Powell, DiMaggio, 1991).

Per intendere meglio il successo dell’approccio neo-istituzionalista e dell’analisi istituzionale a dispetto delle teorie della scelta razionale, occorre fare riferimento ai cambiamenti che hanno coinvolto la nostra società a partire dai processi di globalizzazione e omogeneizzazione culturale, all’emergere di processi di indebolimento della sovranità nazionale e di temi che coinvolgono l’aspetto costitutivo delle istituzioni22. In questa situazione ciò che appare sempre più evidente è il bisogno di istituzioni che regolamentino, che diano certezza, che offrano una base di conoscenza oggettiva e neutrale attraverso regolamenti, contratti, codici e convenzioni, che invertano cioè il processo di perdita di fiducia e di legame sociale che si viene instaurando in un clima di mancanza di punti di riferimento e di insicurezza (Lanzalaco, 1995).

Se sfuma definitivamente l’idea che possano esistere organizzazioni con una loro razionalità interna che prendono decisioni in modo autonomo e avulso dal contesto, perseguendo obiettivi strategici e preordinati, i neoistituzionalisti cercheranno di problematizzare la natura contingente e costitutiva dell’organizzazione e il percorso di costruzione sociale degli attori collettivi (Scott, 1998). Oggetto di studio saranno i rapporti tra istituzioni, organizzazione e ambiente, non genericamente inteso come un aggregato di centri di potere, ma come cornice istituzionale. Gli studiosi dimostreranno come le decisioni dell’organizzazione non siano affatto influenzate dai meccanismi attivati per raggiungere l’efficienza interna, ma piuttosto, come già anche Selznick aveva rilevato, dall’ambiente esterno a cui le organizzazioni tendono ad adattarsi attraverso

processi mimetici

di varia natura. Viene meno, però, la connotazione pessimistica e catastrofista di Selznick che considerava le pressioni esterne in contrasto rispetto alla natura stessa dell’organizzazione e ai suoi fini. In effetti il discorso appare qui addirittura capovolto poiché l’ambiente

22 Basti pensare a fenomeno come quello del federalismo che implicano vere e proprie riforme istituzionali

esterno, anziché essere considerato qualcosa di pericoloso, viene percepito come un elemento che legittima socialmente l’organizzazione nel suo fare, purché l’organizzazione vi si adatti. Non esisterebbero dunque poteri locali e interessi nascosti, l’ambiente non è fatto di questa materia, ma veri e propri

miti

razionali

che legittimano le organizzazioni che vi si adeguano. Lo stesso ambiente che Selznick concepiva come qualcosa di radicato nella comunità locale a cui l’organizzazione era legata attraverso sentimenti di fedeltà del personale, attraverso patti di cooptazione ecc., viene concepito in maniera differente, non più come fonte di vincoli di natura oggettiva: “ […]

è l’enfasi

posta su forme culturali standardizzate come le spiegazioni, le tipizzazioni e i

modelli cognitivi che porta i neoistituzionalisti a identificare l’ambiente nei

settori industriali, nelle professioni, negli stati-nazione più che nelle comunità

locali studiate dai vecchi istituzionalisti, e a vedere l’istituzionalizzazione più

come diffusione di regole e strutture standard che come adeguamento degli usi

di particolari organizzazioni ad ambienti specifici”

(Powell, DiMaggio, 1991, p.45). Di qui deriva anche l’idea che l’istituzionalizzazione non si abbia a livello di singola organizzazione ma: “

Sono le forme organizzative, le componenti

strutturali e le regole, non le specifiche organizzazioni, a essere

istituzionalizzate

” (Powell, DiMaggio, 1991, p. 22)

La stessa concezione dell’individuo cambia: non ci troviamo più di fronte ad un uomo forte che agisce in base a calcoli razionali di utilità né in base a norme e valori interiorizzati, ma piuttosto ad un attore debole, minimalista che appartiene a diversi contesti e che agisce secondo routine consolidate che garantiscono una prevedibilità dell’interazione, in base a mappe cognitive che assume per ragioni pratiche di convenienza, senza porsi domande sulla legittimità o meno di istituzioni che gli appaiono, al contrario, scontate. Di fronte all’incertezza l’attore

rule-governed

o

rule-oriented

è colui che non sceglie in modo ottimale, ma adotta piuttosto un comportamento standard in modo cerimoniale, perché così si ritiene che si debba fare, indipendentemente cioè dalla natura del comportamento stesso (Heiner, 1983). E’ facile allora che in queste situazioni i soggetti si comportino secondo le regole, gli schemi, le

conoscenze sociali più cristallizzate, affidandosi a ciò che viene dato per scontato e facendo riferimento a situazioni già conosciute, istituzionalizzate, regolate (March, Olsen, 1992, ). E’ per tale motivo che si parla anche di

path

dependency

ovvero di un’azione che più che essere proiettata nel futuro è agganciata al passato, al conosciuto. Le organizzazioni stesse, non essendo altro che un artefatto umano si comportano allo stesso modo, agendo non sulla base di norme e valori, ma in base al dato per scontato, ad una routine ben nota, ricorrendo in situazioni mai verificatesi, a soluzioni già esplorate e sperimentate.

Meyer e Rowan si chiederanno, infatti, come sia possibile che le organizzazioni si conformino a ciò che l’ambiente propone come consono e adatto. Il fatto è che nel mondo odierno si affermano regole istituzionalizzate, denominate, come si diceva più sopra, miti razionalizzati, che portano con se convinzioni e pratiche condivise, considerate socialmente valide e positive (Bonazzi in Powell, DiMaggio 1991 p. X, Lanzalaco, 1995). Le organizzazioni, secondo la teoria istituzionalista, tendono a scomparire come entità in sé, circoscritte e individuate “ […]

le teorie istituzionali, nella loro forma estrema,

definiscono le organizzazioni come drammatiche realizzazioni dei miti

razionalizzati che pervadono le società moderne, più che come unità implicate

nello scambio, sia pure complesso, con l’ambiente che le circonda

” (Powell, DiMaggio, 1991 p. 67). I miti vengono considerati legittimi e si istituzionalizzano al di là della valutazione della loro efficacia sui risultati. Così le strutture formali delle organizzazioni riflettono le concezioni della realtà sociale: “

Le posizioni, le politiche, i programmi e le procedure delle

organizzazioni moderne sono imposte in gran parte dall’opinione pubblica, dal

giudizio di importanti portatori di interessere nei confronti dell’organizzazione,

dalle conoscenze legittimate attraverso il sistema scolastico, dal prestigio

sociale, dalle leggi e dalle definizioni di negligenza e di prudenza usate dai

tribunali. Questi elementi della struttura formale sono manifestazioni di

possenti regole istituzionali che fungono da miti altamente razionalizzati,

vincolanti per particolari organizzazioni”

(Powell, DiMaggio, 1991 p.63). Le

organizzazioni che dunque adottano e seguono queste regole sono considerate appropriate, razionali e moderne, al di là della provata efficacia delle tecniche stesse. In realtà esse riflettono le convinzioni prevalenti a livello sociale su che cosa sia più o meno efficace. I miti fungendo da

passepartout

mettono le stesse organizzazioni nelle condizioni di poter accedere ad agevolazioni e riconoscimenti previsti per chi si conforma alla visione prevalente, legittimata. Le stesse regole poi definiscono problemi organizzativi inediti, trovandone soluzioni e accorgimenti tecnici per affrontarli in modo razionale: è così che nascono nuovi campi e che quelli già esistenti vengono codificati in programmi, professioni e tecniche istituzionalizzati (Powell, DiMaggio, 1991). L’organizzazione una volta che si appropria di questi elementi, che adotta codici e linguaggi istituzionalizzati si proteggerebbe dal pericolo di essere messa in discussione. L’istituzionalizzazione funge dunque da strumento che permette la sopravvivenza dell’organizzazione, garantendogli appoggi e opportunità di espansione. Anche la stessa burocrazia vista in quest’ottica non è altro che l’affermarsi di un mito razionale, di credenze indiscusse, di regole istituzionalizzate secondo le quali si raggiungerebbe una maggiore efficienza e razionalizzazione e dunque una legittimazione e maggiori chance di sopravvivenza per quelle organizzazioni che la adotterebbero.

Ma attraverso quali processi le organizzazioni sono spinte a conformarsi ai miti razionali?

Il tema prevalente, almeno in fase iniziale, nell’analisi neoistituzionalista, che si differenzia anche in questo dal pensiero dell’istituzionalismo classico di Selznick, è proprio quello relativo alla omogeneizzazione dei processi. La caratteristica costante e ripetitiva di gran parte della vita organizzata viene spiegata non tanto come il risultato della massimizzazione dei comportamenti degli individui singoli, ma come risultato della persistenza di pratiche che vengono date per scontate e come capacità di “

riprodursi in strutture che in

qualche misura si autosostengono

” (Zucker, 1991). Sono i processi di

isomorfismo che operano per fare in modo che le organizzazioni si adeguino ai criteri di razionalità prevalenti. Il processo è duplice: da un lato le

organizzazioni assumono comportamenti isomorfici rispetto a prescrizioni e regole esterne e dall’altro le istituzioni stesse agiscono in modo da creare organizzazioni ad hoc che abbiano come scopo quello di seguire le indicazioni istituzionali. Svanisce l’idea dell’organizzazione autonoma che si gestisce confrontandosi con l’ambiente rimanendo padrona di se stessa e del proprio destino: nell’ambiente in cui le organizzazioni sono immerse vi sono intrecci normativi a cui doversi attenere per arrivare al successo e perseguire l’obiettivo della sopravvivenza. Meyer e Rowan nel loro saggio del ’77 individuano almeno due tipi di organizzazioni che si distinguono in base alla loro capacità di stabilire criteri interni di misurazione dell’efficienza: gli organismi pubblici e quelli privati. Questi ultimi poiché si troveranno ad affrontare sia criteri di efficienza provenienti dall’esterno che criteri interni dovranno adottare comportamenti paralleli: da un lato adeguandosi alle esigenze cerimoniali prescritte dall’ambiente istituzionale, attraverso la creazione di strutture formali e visibili e dall’altro perseguendo le proprie logiche di efficienza attraverso una struttura informale e nascosta (Meyer, Rowan 1977).

Due, quindi, sono i comportamenti contrapposti adottati dalle organizzazioni di fronte all’elevata istituzionalizzazione del contesto: un’adozione prettamente cerimoniale e una prettamente tecnica, basata su processi tecnologico- strumentali relativa al controllo e al coordinamento delle attività finalizzate all’efficienza. Naturalmente in molti casi, come auspicano anche gli autori, si ha un mix di queste condotte da parte delle organizzazioni, in accordo con i diversi livelli di istituzionalizzazione. Oltre alla duplice tipologia di processi valutativi adottati dalle organizzazioni è possibile distinguere anche due tipi di ambiente23, tecnico e istituzionale. Nel primo ciò che conta per l’organizzazione è la reale efficacia delle prestazioni e l’efficienza dei sistemi di controllo e produzione, mentre nel secondo, più che la qualità e la quantità dell’

output

è la conformità alle regole e ai criteri esistenti a prevalere (Scott, Meyer, 1991; Zucker, 1987). Nel caso della pubblica amministrazione, ad esempio, che opera

23 Gli elementi cerimoniali e tecnici possono anche coesistere all’interno di uno stesso ambiente con diversi

gradi di intensità e dunque condizionare in maniera differente le organizzazioni presenti in quegli ambienti e le loro razionalità (Lanzalaco, 1995).

in un ambiente altamente istituzionalizzato, ciò che conta è la conformità alla regola e la legittimità del comportamento. Non essendovi una differenza chiara tra mezzi e fini, in quanto i criteri di valutazione sono di tipo cerimoniale ciò che si persegue è la conformità alle regole istituzionalizzate. Da ciò deriva che le azioni appaiono spesso formali e vuote di significato: l’importante, infatti, diventa non trasgredire la norma, le regole, al di là dei tempi di svolgimento del compito e dei contenuti stessi del compito (Scott in Powell, DiMaggio, 1991, Lanzalaco, 1995).

Nel 1983 Powell e DiMaggio partendo dalle conclusioni di Meyer e Rowan cercano di spiegare la tendenza all’omogeneizzazione da parte delle organizzazioni individuando il concetto di

campo organizzativo

come uno spazio fluido dai confini indistinti popolato da una varietà di attori che concorrono a produrre il cambiamento. Tutti diventano allo stesso tempo oggetti e soggetti delle pressioni presenti in un campo organizzativo. Concentrandosi non sulle singole organizzazioni ma piuttosto sullo studio dei campi organizzativi, viene superata la distinzione proposta dall’istituzionalismo classico tra chi funge da fonte di pressioni (istituzioni) e chi, invece, subisce tale influenza (organizzazioni). Il campo organizzativo è visto come “

l’aggregato di

organizzazioni che costituiscono un’area riconosciuta di vita istituzionale. Un

campo organizzativo è formato da tutti i soggetti che anche in modo indiretto

concorrono a definire determinati standard nella tecnologia, nella ricerca e

sviluppo di nuovi prodotti, nella gestione delle risorse umane, nella politica del

personale”

(Powell, DiMaggio 1991, p.XV). Si tratta dunque di un insieme di agenti che contribuiscono al cambiamento dal punto di vista sociale, culturale, economico e politico. Ed è per questo motivo che gli studi neoistituzionalisti vertono sulla ricostruzione di quella parte di società in cui il cambiamento si è verificato ovvero sull’analisi di un quadro di riferimento ampio sia in termini spaziali che temporali. Non si tratta di fissare confini e delimitare un dentro e un fuori, ma di analizzare le pressioni e vedere come si muovono, come vengono percepite e recepite e come esse possono cambiare la situazione. Si passa quindi dallo studio dell’organizzazione a quello dell’organizzare inteso

come quell’insieme di processi che si muovono all’interno del campo organizzativo (Scott, 1998).

Studiare il cambiamento per i neoistituzionalisti significa dunque analizzare la costituzione del campo organizzativo, come si è andato formando, quali sono gli attori che ne fanno parte, le dinamiche e i processi che lo caratterizzano. I processi di isomorfismo non sono visti, però, come naturali, equilibrati e pacati, ma al contrario come portatori di conflitti e dissidi tra i vari attori del campo organizzativo. Capire i conflitti, gli interessi in gioco e i rapporti tra gli attori permette di analizzare come le organizzazioni cambiano sulla base dei modelli e delle forme organizzative che si vanno legittimando, delle tipizzazioni e delle interpretazioni condivise. Se però i processi di isomorfismo portano ad una crescente omogeneizzazione tra le organizzazioni non si spiega come il diverso e l’elemento che si discosta dallo standard possano emergere. E’ per questi motivi che alcuni autori istituzionalisti tra cui Powell, Jepperson, Friedland e Alford metteranno in discussione, nell’antologia uscita nel 1991, il determinismo delle prime formulazioni.

Le critiche alla prima versione del neoistituzionalismo sono quelle di aver puntato solo sul fenomeno della omogeneizzazione e di aver trascurato le fonti dell’eterogeneità, la differenziazione tra le organizzazioni, negando che nelle società possano esistere in ogni momento risorse spirituali che possano portare alla luce movimenti collettivi che contestino il quadro istituzionale. La lettura del processo di isomorfismo diventa allora più complessa e attenta a cogliere i conflitti che non solo accompagnano i passaggi dal vecchio al nuovo, ma anche quelli che sono insiti nella stessa nascita di un ordine nuovo (Bonazzi, 2002c). Oltre all’isomorfismo di natura mimetica, coercitiva e normativa si è aggiunta dunque l’ipotesi che esistano, a parità di grado di strutturazione del campo e a seconda della struttura di dominio, anche dei processi allomorfici (Lanzalaco, 1995) che vedrebbero le organizzazioni come istituzioni e agenti di istituzionalizzazione.

Se comunque il neoistituzionalismo mette al centro della sua teoria la stabilità, sebbene relativa, delle componenti istituzionalizzate (Zucker, 1991), allora muta il concetto di cambiamento e ciò che viene studiato sono i periodi di stasi, stabilità, persistenza.

Per capire e analizzare il cambiamento o la persistenza, due facce della stessa medaglia, la Zucker afferma che le istituzioni devono essere analizzate a partire dalle esperienze che ne fanno i soggetti. La persistenza delle istituzioni non è dunque un elemento intrinseco, ad esse costitutivo, ma dipende da come viene percepita dai soggetti. E’ per tale motivo che assumono importanza nell’analisi “

le circostanze, gli atti discorsivi, i contesti quotidiani in cui le regole

vengono percepite e trasmesse

” (Powell, DiMaggio 1991 p.XVI) perché la

percezione, come approfondirà la Zucker, dipende dal sistema di credenze in cui gli stessi soggetti sono immersi. Gli individui agiscono, cioè, in base alla loro percezione della realtà, a quanto viene definito come giusto o ingiusto, legittimo o illegittimo, appropriato o inappropriato, al modo in cui vengono definiti i problemi, alle soluzioni che si hanno a disposizione (Lanzalaco, 1995). Se le istituzioni dicono come muoversi, come interpretare l’esperienza, sono le mappe cognitive degli individui a fissare i contorni entro i quali si attribuisce o meno autorevolezza alle stesse istituzioni. Le istituzioni, secondo Jepperson che distinguerà tra azione e istituzionalizzazione, non sarebbero altro che “

modelli

sociali che, quando sono cronicamente riprodotti, devono la propria

sopravvivenza a processi sociali che si autoattivano…le istituzioni sociali non

sono, cioè, riprodotte da ‘azioni’, intese nel senso ristretto di interventi collettivi

all’interno di una convenzione sociale. Piuttosto, alcune procedure riproduttive

routinarie sostengono e supportano il modello perpetuandone la riproduzione

[…]”

(Jepperson in Powell, DiMaggio 1991, p. 198). Se l’azione dunque richiede un certo grado di partecipazione e mobilitazione, le istituzioni sono socialmente costruite e si riproducono in base a delle routine, all’interno di un contesto che ne potenzia o meno l’autorevolezza e la capacità di influenza. E’ l’idea che non sia possibile capire i comportamenti individuali e organizzativi a prescindere dal contesto sociale in cui sono immersi. Al centro dell’analisi istituzionale viene

posta la dimensione intersoggettiva dell’azione attraverso la quale si costituiscono le mappe cognitive, le matrici comuni di significato e di legittimità dell’azione, i modi di pensare e di fare, gli ordini simbolici e le pratiche concrete dell’organizzazione (Lanzalaco, 1995; Bifulco, 1997).

Rispetto dunque al vecchio istituzionalismo in cui le organizzazioni erano

“infuse di valore”

(Selznick, 1957 – 1976, p.28), diventando fini in sé, e dove la componente morale veniva interiorizzata dai soggetti attraverso processi di socializzazione e di adesione, l’istituzionalizzazione é vista come processo cognitivo, mentre le istituzioni sono fatte di copioni, regole, schemi e classificazioni date per scontate.

“Più che organizzazioni concrete che

richiedono un’adesione affettiva, le istituzioni sono astrazioni di macrolivello,

“prescrizioni

razionalizzate

e

impersonali”,

“classificazioni”

condivise

indipendentemente dalle particolari entità cui si potrebbe dovere una qualche

fedeltà morale

” (Powell, DiMaggio, 1991, p. 24). Cambia l’approccio all’azione che da normativo diventa di tipo cognitivo: si passa dall’adesione alla routine, dalla motivazione alla logica dell’adeguamento alle regole, dai valori alle premesse (Powell, DiMaggio, 1991, p. 33).

Con il neoistituzionalismo si da dunque spazio ai processi cognitivi degli attori, alle mappe mentali che sono alla base della costruzione sociale della realtà. Non bisogna dimenticare, infatti, che se è vero che le istituzioni fungono da vincoli per l’azione umana, come la teoria economica sottolinea24, ma anche da risorse per l’azione come i neo-istituzionalisti e le nuove teorie organizzative mettono in evidenza (Berger, Luckmann, 1969; Zucker, 1977; Scott, 1987; Powell, DiMaggio, 1991) sono i soggetti ad attivare, mettere in scena (

to

enact

) (Weick, 1997) le istituzioni, le regole e le routine e a produrre il cambiamento quando si discostano da esse, non conformandovisi. Se la teoria dell’attore razionale considera l’individuo come capace di prendere in ogni momento decisioni intenzionali, la teoria istituzionalista sdoppia i livelli di

24 Ad esempio North D. C, (1990), Institutions, institutional change and economic performance,

coscienza del soggetto concependo anche un livello non intenzionale, spontaneo, automatico, istituzionale di comportamento. Non ci troviamo dunque di fronte esclusivamente a comportamenti utilitaristici basati sul calcolo delle convenienze, ma a modi di agire a cui l’attore si attiene perché normativamente dovuti, secondo certe regole condivise e ritenute socialmente valide.

Rispetto al tema del mutamento, dunque, mentre per gli economisti classici la stabilità, la persistenza e l’inerzia non sono oggetto di ricerca e studio sociale perché considerati come fasi in cui il cambiamento è assente, per i neo- istutuzionalisti queste fasi in cui si sedimentano progressivamente e si stratificano le diverse logiche d’azione (Lanzalaco, 1995; Bifulco, de Leonardis, 1997), diventano essenziali. E’ il cambiamento stesso a essere analizzato dunque come mancata replicazione di logiche consolidate, di schemi stabilizzati e routine date per scontate. D’altronde tali momenti di mutamento, dove si rimettono in discussione e si ristrutturano i rapporti e le relazioni, sono davvero rari nella vita di un’istituzione. Per studiare il cambiamento è meglio dunque partire dall’analisi dei periodi di stasi e di immobilità per riconoscere che mutamenti, seppur incrementali e non intenzionali, ve ne sono sempre (Bifulco, de Leonardis, 1997). Le istituzioni apparirebbero, perciò, allo stesso tempo come elemento stabilizzante rendendo i comportamenti e le aspettative sociali certi e prevedibili, ma anche come elemento dinamico in quanto plasmate continuamente da attori che le utilizzano per raggiungere i loro scopi, in maniera desueta, attribuendo nuovi significati rispetto al passato e modificandone la visione abituale25. L’apparente stabilità delle istituzioni crea