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5. La “vulgata” della bonifica

3.5. La bonifica di Ascanio Fenizi

Fu dunque in questo quadro generale che Sisto V maturò la decisione di bonificare le paludi pontine. Il racconto della storia di questa bonifica – delineato nel modo più esauriente dall’abate Nicola Maria Nicolai - è stato trasmesso e replicato con qualche aggiunta fino ai giorni nostri. Sono stati sia gli storici delle bonifiche pontine151, sia gli studiosi della complessa figura di Sisto V, a far riferimento alla versione trasmessa dal Nicolai. Questa versione si basa essenzialmente sul chirografo di concessione delle paludi, parzialmente riportato dall’abate, sulle opere edite di alcuni storici locali e sui biografi di Sisto V (Tempesti e Leti). In tempi più recenti la ricostruzione è stata arricchita dallo studio degli avvisi di Roma, una forma di giornalismo ante litteram che riportava le notizie circolanti a Roma nella strada dei banchi152. Sebbene alcuni insigni storici, come Pastor e Orbaan, abbiano considerato gli avvisi una fonte totalmente attendibile, Jean Delumeau non ha mancato di sottolineare la prudenza con la quale tali fonti vadano utilizzate. È opportuno, secondo lo storico francese, cercare dei riscontri alle notizie fornite dai menanti: questi ultimi erano, d’altro canto, obbligati a fornire informazioni corrette poiché ne avrebbero risposto personalmente (pena la carcerazione) agli agenti diplomatici e al governo pontificio. Dunque si può accordare una certa fiducia a queste fonti, che riportano cronache altrimenti sconosciute. Quindi anche in questa sede faremo riferimento a tali documenti, pur con qualche dubbio sui dati numerici in essi contenuti. L’ambizione del papa era quella di fare di questa vasta pianura risanata il nuovo granaio di Roma. Questa sembrava essere anche per i contemporanei la motivazione principale: un avviso circolante a Roma il 16 aprile 1586, citando l’avvenuta ratifica in Camera apostolica di alcuni capitoli di accordo con le comunità locali (Sezze, Piperno e Terracina) per la delimitazione del circuito di bonifica, affermava «l’impresa (...) arricchirà la gloria di Nostro Signore tutto intento all’abbondanza»153. Facendo chiaramente riferimento con il termine “abbondanza” ai problemi di

approvvigionamento granario che Sisto V intendeva risolvere. E infatti l’avviso proseguiva esplicitando ancor più chiaramente il fine dell’impresa:

accrescerà l’entrata della Camera perché da questa desiccazione caverà quasi tutto il grano necessario a Roma con utile particolare delle dogane, oltre agli effetti buoni, che dall’aria per tale bonificazione nasceranno154

.

Mentre Gualtieri, autore delle Ephemerides di Sisto V, sottolineava l’aspetto del risanamento igienico assicurato così alla regione:

Opus duabus de causis Pontifex aggressus est, tum ut a gravi coelo Terracinam aliaque finitima loca liberaret, cui paludis illius causa plurima obnoxia sunt, tum ut rei frumentariae consuleret, que augebitur maxime paludosis illis locis exiccatis155.

Senza trascurare, però, l’aumento della produzione granaria che ne sarebbe derivato. I collegamenti, via terra e via mare, non mancavano anche se non erano più funzionanti: tra i progetti di Sisto V, una volta terminata la bonifica, si profilò il riattamento della via Appia, in parte sommersa dall’acqua e dissestata, che avrebbe garantito un collegamento diretto con Roma e con Napoli156

. E,

151

T. Berti, Paludi pontine, cit; V. Orsolini-Cencelli, Le paludi pontine, cit; G. Alessandrini, La bonifica delle Paludi

Pontine, Leonardo da Vinci, Roma, 1935; V. d’Erme, La palude dei papi. Scandali, intrighi politici e lotte di potenti famiglie nelle paludi pontine del Cinquecento, Newton & Compton, Roma, 1982.

152

D. Chiari, Territorio pontino, cit. 153 BAV, Cod. Urb. lat. 1054, c. 139. 154 Ibidem.

155 Biblioteca Nazionale Centrale di Roma “Vittorio Emanuele”, G. Gualtieri, Sixti Quinti Pontificis Optimi Maximi

Ephemerides Guido Gualtieri Auctore, c. 79 b.

156 BAV, Cod. Urb. Lat. 1057, Avviso di Roma del 15 marzo 1589, cc. 131 e ss.: «si risolverà il papa a rimettere in uso la via Appia, la cui spesa importarà solo 70 mila scudi, et si potrà andare con cocchi di qua a Napoli, et a fare il porto di Terracina».

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probabilmente, anche la sistemazione del porto di Badino, ai piedi di Terracina, interrato almeno da una trentina d’anni.

Nessun contemporaneo accennava all’altra grande questione di quegli anni: la lotta al banditismo. Era proprio nella provincia di Campagna e Marittima che il banditismo aveva attecchito, in un territorio di notevole importanza strategica: e per le vie di comunicazione verso il Regno e per l’affaccio e il controllo delle torri costiere sul mar Tirreno. In epoca tardo cinquecentesca, il rapporto, antico e consueto, fra la famiglia Caetani e le bande organizzate non cessò: ma fu il ramo dei Caetani di Maenza – e non quello di Sermoneta – a essere protagonista degli episodi più clamorosi di banditismo e di collaborazione con i fuorilegge157. I Caetani di Sermoneta rappresentavano invece il ramo più legato alla corte pontificia e cercarono, a volte con successo, di fare pressioni sul papa perché annullasse i processi o cassasse le sentenze di condanna dei riottosi parenti. Ma anche nel territorio di Sermoneta gli episodi di banditismo furono frequenti: qui le difficoltà maggiori erano generate dai rapporti con gli abitanti delle comunità, refrattari a collaborare con lo stato nella persecuzione dei fuorilegge. A monte permaneva, poi, il conflitto giurisdizionale fra il romano Tribunale del Governatore e il merum et mixtum imperium signorile. Il duca Caetani doveva affrontare le rimostranze della popolazione locale e dei giusdicenti di Sermoneta che mal si adattavano ad applicare le norme imposte da Roma. Il banditismo di fine Cinquecento stava però mettendo a dura prova la sicurezza e l’economia di tutto il territorio di Sermoneta: gli effetti di cattivi raccolti e carestie, le incursioni di bande armate avevano costretto molti abitanti del territorio ad abbandonare le proprie case. Fin dal 1585 Sisto V aveva promulgato vari editti per fronteggiare il banditismo: uno di essi prevedeva di gravare le comunità locali dei danni provocati dai banditi, nel tentativo di smantellare il sistema di connivenze tra fuoriusciti e contadini. Sempre nel 1585 il papa istituì il «monte della pace» per finanziare la lotta. Nonostante un notevole dispiegamento di mezzi, dopo due anni spesi a fronteggiare il fenomeno sembra che nel 1587 ancora 20.000 banditi affliggessero lo stato ecclesiastico158. Nel 1590, infatti, il banditismo riprese in tutta la sua gravità e l’azione del papato apparve nella sua inadeguatezza. A tale recrudescenza avevano sicuramente contribuito i cattivi raccolti del 1589 e del 1590: la ribellione di questi anni non era tanto politica – come era stata quella del 1578, animata dai baroni romani contro il potere centrale – ma provocata direttamente dalla penuria di grano e, almeno inizialmente, non diretta da briganti di professione. All’inizio degli anni ’90 i cattivi raccolti e le incursioni di bande costrinsero molti abitanti del territorio circostante Sermoneta ad abbandonare le case. A Fogliano, i duchi Caetani avevano costretto i contadini a lasciare le abitazioni e a «serrare le osterie», a causa dei banditi159. Nell’area litoranea, dove si trovava il lago di Fogliano, le bande erano particolarmente favorite dalle condizioni naturali e dalla assenza di insediamenti stabili. Le folte macchie e le capanne dei lavoratori stagionali, sparse su questo territorio disabitato, divennero il ricetto di banditi e «foresciti».

Il duca Onorato Caetani si impegnò in prima persona per fronteggiare le bande armate ed allontanarle dai suoi feudi, formando compagini di fuorilegge locali per scacciare i criminali forestieri160. Il duca, con l’aiuto del luogotenente di Sermoneta, usò però una certa cautela nell’armare i vassalli locali, cui le leggi papali e baronali vietavano il porto d’armi da fuoco. Questa prudenza venne interpretata a Roma come favoreggiamento e nel 1591 la comunità di Sermoneta fu processata con l’accusa di aver fatto scappare alcuni banditi locali161. All’inizio del pontificato di

Clemente VIII (1592-1605) si stimava che nei territori di Sermoneta si trovassero circa 1200 fuorilegge, destinati ad aumentare nel giro di pochi anni. Quando Marco Sciarra spostò al confine

157 I. Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello Stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1985.

158 J. Delumeau, Vie economique..., cit, p. 148.

159 I. Fosi, Il banditismo e i Caetani nel territorio di Sermoneta, in L. Fiorani (a cura di), Sermoneta e i Caetani, cit, pp. 213-225, p. 218.

160 Ibidem. 161 Ivi, p. 219.

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con il Regno di Napoli la sua zona di azione il numero di banditi sembra superasse le 3.000 unità: cifra probabilmente ingigantita dal clima di paura. Nella primavera del 1592 si registrarono invece i primi attacchi da parte delle bande guidate da Marco Sciarra contro i contadini locali: durante il saccheggio di Norma, Sciarra e i suoi uccisero 48 persone, poco dopo presero con la forza Maenza e altri territori. Dietro le azioni di Sciarra, che si ritirava impunemente nel Regno, c’era l’appoggio della Spagna che sperava, con queste azioni, di fare pressioni sul Sacro Collegio e ottenere l’elezione di un papa filo spagnolo.

Dunque quella che la propaganda sistina aveva rappresentato come una politica vincente, rivelava invece tutto il suo insuccesso: il banditismo era ancora vivo e la politica di repressione e criminalizzazione del mondo rurale perseguita da Sisto V aveva sortito effetti controproducenti162. Nel maggio del 1592, ad esempio, il luogotenente di Sermoneta non era riuscito ad assoldare venti cittadini contro i banditi, causa il rifiuto dei Sermonetani di arruolarsi. La persecuzione senza quartiere di complici e familiari dei banditi aveva negativamente impressionato le popolazioni locali, che avevano visto criminalizzare i parenti dei fuorilegge, carcerare le donne, radere al suolo le case, sequestrare i beni. Se la strategia di lotta al banditismo, perseguita da Sisto V in poi, venne incentrata sulla persecuzione delle complicità familiari e la colpevolizzazione delle reti di relazione, la sua attuazione a livello locale fu estremamente difficoltosa. Gli stessi ufficiali locali – specialmente i luogotenenti – espressero in varie occasioni le loro perplessità sull’eventualità di punire anche le famiglie, consapevoli dei focolai di vendetta che queste azioni avrebbero generato. Solo agli inizi del Seicento, quando ci fu un periodo di buoni raccolti, unito alla costante azione repressiva del papato (con l’applicazione delle taglie) e all’invio dei banditi alla guerra di Ungheria, che si ruppe l’unità interna alle bande. Anche nei territori soggetti ai Caetani si registrò un forte ridimensionamento del banditismo che assunse i connotati di fenomeno endemico ma tollerato163. Non possiamo però dire che fu debellato o scomparve completamente: per tutto il Seicento l’amministrazione della giustizia, il controllo sociale nelle comunità rimasero un problema costante, ma il banditismo non assunse più le dimensioni del tardo Cinquecento.

L’opera di prosciugamento impresse in effetti qualche miglioramento alla zona, ma non riuscì a trasformare la pianura nell’auspicato granaio dell’Annona. L’intervento consisté essenzialmente nell’apertura di un nuovo, rettilineo canale di scarico delle acque che partiva nel mezzo della pianura e arrivava alla foce di Levola, nel golfo di Terracina. A guidare le operazioni di bonifica sarebbe stato l’architetto urbinate Ascanio Fenizi, di cui poco sappiamo. Ascanio Ambrosi, più noto col nome di Ascanio Fenizi, fino a quel momento si era dedicato soprattutto alla pittura ma, pare, con scarso successo. Risulta attivo a Roma già nell’agosto del 1577, quando venne scelto dai Conservatori del municipio come terzo perito per rivedere le misure di scalpello fatte da Giacomo della Porta e Martino Longhi nella fabbrica del palazzo senatorio in Campidoglio164. La questione diede vita a un carteggio di carattere tecnico tra Ascanio, della Porta e Longhi165.

Secondo gli avvisi di Roma, Fenizi avrebbe convinto il papa nel giro di un mese: la sua proposta di bonifica doveva risalire ai primi di marzo, se al 21 il papa sottoscrisse i capitoli di accordo in Camera apostolica166. Nel già citato avviso del 16 aprile viene nominato un «Ascanio ingegnere di Urbino», il quale, presentato al papa da monsignor Lamberti, avrebbe goduto dell’«appoggio di ricche borse di alcuni mercanti»167. Ma la scarsità di dati biografici intorno all’architetto e il silenzio

162 Ead., Justice and Its Image: Political Propaganda and Judicial Reality in the Pontificate of Sixtus V, in «Sixteenth Century Journal», XXIV, 1 (1993), pp. 75-95.

163 Ead., La società violenta, cit.

164 P. Pecchiai, Il Campidoglio nel Cinquecento, Ruffolo, Roma, 1950, pp. 191-199 e 251-282.

165 A. Di Castro, P. Peccolo, V. Gazzaniga, Marmorari e argentieri a Roma e nel Lazio tra Cinquecento e Seicento. I

committenti, i documenti, le opere, Quasar, Roma, 1994, p. 30.

166 ASV, Misc. Arm. 34, t. 51, cc. 150-157 (originale). Copie in ASR, RCA, Notaio Tideo de Marchis, b. 1076, cc. 56- 63; e in AC, Ms. 1138, cc. 1-4. Edito in D. Chiari, Territorio pontino, cit, pp. 103-107.

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delle fonti archivistiche in merito, non permettono di verificare la veridicità di quest’ultima informazione. Forse l’avviso fa riferimento ai soci di Fenizi nell’impresa di bonifica, i quali avevano effettivamente investito ingenti somme, sebbene non fossero «mercanti».

In data 24 marzo 1586, con atto del notaio Tideo de Marchis, «Bononiensis Camerae Apostolicae

notarius», la Camera apostolica stipulava il contratto di concessione delle Paludi Pontine con

Ascanio Fenizi secondo le condizioni già stabilite da Sisto V con lettera autografa e nei patti concordati tre giorni prima168. Questi capitoli di accordo costituiranno un punto di riferimento obbligato per i successivi tentativi di bonifica: il chirografo sistino sarà infatti preso costantemente a modello negli anni seguenti per la definizione degli obblighi dei bonificatori. I capitoli di accordo cercavano di regolare nel dettaglio tutti gli aspetti della bonifica: erano compresi nella cessione anche «tutti li alvei, fiumi, fossi, laghi e stagni sino al mare esistenti (...) con i beni et tutti frutti di qualunque sorte, et qualità sono». A conclusione del drenaggio, i bonificatori potevano scegliere se continuare a pagare il risarcimento dovuto agli ex proprietari oppure assegnare loro una parte delle terre bonificate, tenere il resto per loro. Ciò comportò, di fatto, l’espropriazione di molte tenute, visto che i bonificatori non solo non restituirono i terreni ma non pagarono nemmeno i risarcimenti dovuti169. Un accomodamento del genere non era tale da soddisfare i proprietari, che si piegarono molto malvolentieri alla volontà del papa.

Nel chirografo del 21 marzo 1586, il papa elencava nuovamente il tipo di terreni affidati a Fenizi e compagni:

Tutti li terreni et luoghi paludosi, et pantanosi infettati et infermi dalle acque, quali da cinque anni in qua non sono stati boni a seminare, ne segati a boni prati, con li stagni, et acque in essi contenute, esistenti nelli territori di Terracina, Piperno, et Sezze, con qualunque ragione, actione, et usi, che le dette Comunità, nostra Camera et qualsivoglia altra persona, o loco pio vi havesse sopra, o vi potesse havere170.

Insomma, spettavano alla compagnia di bonifica, oltre a stagni e laghetti, tutti i campi allagati che non erano più seminati da almeno cinque anni: con i terreni venivano trasferiti nelle mani dei bonificatori anche tutti i diritti e gli usi che le comunità locali, gli enti ecclesiastici e, cosa notevole, la stessa Camera apostolica godevano su quegli appezzamenti. Dunque i diritti di pascolo, legnatico, pesca e caccia finivano interamente nella disponibilità dei bonificatori, che infatti non esitarono ad approfittarne.

L’accordo impegnava le autorità centrali a far ratificare tali capitoli ai soggetti proprietari entro due mesi (nel maggio di quell’anno): indubbiamente un grande vantaggio per la compagnia, che non si sarebbe dovuta scontrare in prima persona con le riottose comunità locali. D’altro canto, alla società bonificatrice era richiesto di «desiccare et bonificare li detti terreni a tutte loro spese, come promettono, et di pagare alla Camera, Comunità et altri interessati tutto quello che al presente se ne cava di affitto et resposte». Quest’ultimo rappresentava, sulla carta, uno degli impegni maggiori per la compagnia: finché le operazioni erano in corso, infatti, Ascanio e soci erano tenuti a versare ai proprietari, privati delle loro tenute, un risarcimento pari alle rendite che queste fruttavano. Di fatto però tale obbligo non venne sempre rispettato dai bonificatori e le comunità non mancheranno, negli anni seguenti, di manifestare tutto il loro disappunto per la perdita di queste entrate. Infine, la compagnia fu obbligata a corrispondere alla Camera apostolica il cinque e mezzo per cento di tutti i terreni bonificati. Nei capitoli che analizzeremo più avanti viene chiarito che tale 5,5% di terreni sarebbero stati distribuiti «ad arbitrio di Nostro Signore con tutti li interessati, la qual’assegnazione et divisione si debba fare subito finita la bonificatione». Sicuramente una buona parte di questi beni venne donata da Sisto V al commissario Orsini, per premiare la rapida conclusione delle mediazioni

168 Il chirografo di concessione è infatti preceduto dai capitoli di accordo firmati da Sisto V, cfr. ASR, RCA, Notaio Tideo de Marchis, b. 1076, cc. 56-63.

169 Capitoli, 21 marzo 1586, cap. II: «...et da poi finita la bonificatione sia in arbitrio et volontà di detti Bonificatori di continuar sempre di pagar li detti affitti o vero di consegnar a ciascuno delli detti interessati compresi nelli confini da ponersi (...) tanta parte di detti terreni, et beni bonificati che risponda d’entrata il valore delli detti affitti».

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con le comunità pontine: ce lo suggeriscono alcune mappe topografiche, che indicano la zona limitrofa al fiume Ufente verso i campi setini come di proprietà «Orsini. Reverenda Camera»171 e un avviso di Roma, del maggio 1586172.

In una forma volutamente ambigua e lacunosa, il chirografo nascondeva in realtà un vero e proprio esproprio. I terreni, infatti, venivano “temporaneamente” sottratti ai legittimi proprietari per essere risanati: una volta andato a buon fine il risanamento, però, i proprietari non sarebbero tornati in possesso delle tenute nella loro precedente estensione, ma solo per quella quantità che avrebbe assicurato la stessa rendita percepita pre-bonifica. Considerando, poi, che i terreni bonificati avrebbero reso certamente di più rispetto ai pantani, sarebbe bastata una superficie minore per arrivare alla stessa rendita. Del resto, la bonifica doveva essere appetibile per i bonificatori, che erano così ulteriormente incentivati a portare a compimento i lavori. I terreni erano stati concessi per quindici anni: allo scadere di questo periodo le tenute sarebbero dovute tornare ai legittimi proprietari, ma così non fu e negli anni successivi alla morte di Sisto V, grazie ad alcune proroghe, i terreni espropriati rimasero nelle mani dei bonificatori (almeno fino al pontificato di Urbano VIII Barberini, quando si avviarono nuovi tentativi di bonifica).

Nel chirografo si stabiliva che per la delimitazione del circondario e per la stipula degli accordi con le comunità locali, sarebbe stato incaricato un commissario. Il prescelto fu monsignor Fabio Orsini di Lamentana, figlio del maestro di Segnatura e consigliere del papa Latino Orsini. A Fabio Orsini fu affidato l’ingrato compito di convincere le popolazioni locali ad accettare le decisioni pontificie. Sisto V lo nominò, con Breve pontificio del 9 aprile, «Commissario Apostolico e Giudice di ricorso nelle cause del Bonifico delle Paludi Pontine»173. Dunque non si sarebbe limitato a persuadere le popolazioni pontine della bontà dell’operazione, ma avrebbe stabilito i confini dell’area bonificanda e avrebbe risolto le eventuali controversie. La decisione di nominare un commissario che fosse anche giudice tradisce la piena consapevolezza, da parte del pontefice, delle liti che tali interventi generavano: la bonifica di un’area, infatti, ne implicava l’esproprio – teoricamente temporaneo ma, come vedremo, definitivo – e questo non poteva che suscitare le reazioni più accese da parte dei proprietari. Inoltre, è probabile che il papa fosse a conoscenza delle aspre liti nate a seguito della bonifica medicea (che infatti si erano protratte fino al 1587174) e che volesse quindi dotarsi degli strumenti necessari per fronteggiarle e risolverle in tempi brevi.

Sisto V coinvolse direttamente anche il luogotenente di Sezze, Pierfrancesco Cardosi, cui indirizzò un Breve per nominarlo «Commissario per lo spurgo della Paludi Pontine» col compito di apporre i termini del circuito da bonificare175. Il 18 aprile il commissario Cardosi presentò il progetto di bonifica al Sindaco e agli ufficiali di Sezze e ordinò, con un editto, di consegnare entro il giorno seguente i libri delle entrate e delle uscite, pena una multa di mille ducati176. Il giorno dopo il sindaco Orazio Vacca e gli officiali consegnarono tutti i libri contabili della Comunità di Sezze. Nei giorni seguenti i cittadini di Sezze in possesso di terreni paludosi si recarono presso il commissario Cardosi, denunciando le loro proprietà e dichiarando di volerle cedere perché venissero

171 Mi riferisco in particolare alla Pianta delle paludi pontine per papa Innocenzo XI di Cornelio Meyer, incisa da G.B.