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5. La “vulgata” della bonifica

3.1. Cenni alla bonifica medicea

Risale al pontificato di Leone X (Giovanni Medici, papa dal 1513 al 1521) il primo organico tentativo di risanamento delle paludi. Occorre infatti correggere l’erronea interpretazione di un

Parere sopra l’essicazione della Paludi Pontina [sic] mandato a Mons. Commissario della Camera, e steso di suo ordine da Scipione di Castro.1501: molti studiosi hanno infatti letto in questo parere,

datato al 1501, un segno dell’interessamento già di Alessandro VI Borgia alla bonifica1

. In realtà la datazione del parere è sbagliata: infatti nel 1501 il suo autore, Scipione di Castro2, non era nemmeno nato (nacque intorno al 1521 a Policastro)3. Probabilmente il titolo, contenente la data, è stato aggiunto in un secondo momento da un riordinatore di queste carte: una versione sintetica di questa relazione si trova nel fondo camerale insieme alle carte relative alla bonifica di Leone X, ma in realtà fu scritta molti anni dopo, all’epoca del pontificato di Gregorio XIII Boncompagni (papa dal 1572 al 1585). Lo prova la presenza di un’altra versione di questo stesso parere, nel fondo Boncompagni della Biblioteca Vaticana4. Per incarico di Gregorio XIII, di Castro si occupò infatti di varie questioni di ingegneria, sembra anche recandosi sul posto: compose almeno cinque relazioni – non datate – sul porto di Civitavecchia, su alcuni lavori pubblici nella Marca anconitana, sul porto di Traiano, su un canale di collegamento al Tevere e, appunto, sul prosciugamento delle paludi pontine. Come ha sottolineato il maggiore studioso di questo stravagante personaggio, Roberto Zapperi, di Castro non aveva competenze tecniche né preparazione scientifica: tali relazioni vennero composte probabilmente copiando da altri autori. Di Castro era un frate agostiniano, con formazione letteraria, che nella sua vita rocambolesca era stato una spia, attenzionata anche dal Sant’Uffizio. Una volta a Roma, dove probabilmente la sua vera identità restò sconosciuta per qualche tempo, seppe assicurarsi la fiducia dei Boncompagni: prima del figlio di Gregorio XIII, Giacomo, e poi del papa stesso, diventandone fidato consigliere. Scipione vestì la maschera del cavaliere esperto di armi e di fortificazioni e fu così convincente, che nel 1577 il pontefice gli affidò un incarico di grande responsabilità: fu nominato arbitro della controversia sul Reno che opponeva i Bolognesi ai Ferraresi. Il frate agostiniano seppe rappresentare i Bolognesi e le ragioni pontificie: Bologna gli riservò grandi onori, donandogli 200 scudi per la relazione da lui scritta al papa, nel 15795.

Il parere sulle paludi dovrebbe quindi risalire al periodo 1577-80, anni in cui di Castro venne incaricato dalla Camera apostolica di esprimersi su queste materie. Al frate va riconosciuta una certa abilità nel non compromettersi e nell’orecchiare da altri i vari pareri: ma ebbe indubbiamente

1

M. T. Bonadonna, Appunti sulle bonifiche pontine nel Cinquecento, in «Lunario romano», Rinascimento nel Lazio (IX), F.lli Palombi Editori, Roma, 1980, pp. 575-597, p. 580: «Un parere steso nel 1501 da un tal Scipione da Castro, su incarico della Camera apostolica suggerirebbe l’ipotesi che già Alessandro VI si fosse reso conto della necessità di un intervento statale per risolvere il problema della bonifica della zona». A. Folchi, Le paludi pontine, cit, pp. 21-22. 2

R. Zapperi, Don Scipio di Castro. Storia di un impostore, B. Carucci, Assisi - Roma, 1977. 3 Id., DBI, cit, vol. 22 (1979), p. 239.

4 BAV, Boncompagni D 9, cc. 10 r-15 v, 18 r-21 v, 22 r-26 v.

5 Questa relazione ebbe discreta risonanza anche in sede scientifica: ricordata dall’eminente idrologo Domenico Guglielmini, venne stampata una prima volta nel 1682 e di nuovo nel XIX secolo, cfr. Relatione e parere di don Scipio

di Castro a papa Gregorio XIII in Raccolta di varie scritture e notitie concernenti l’interesse della remotione del Reno dalle valli, Bologna, 1682, pp. 99-107 e in Raccolta d’autori italiani che trattano del moto dell’acque, IX, Bologna,

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gioco facile, visto che la conoscenza “scientifica” di tali materie era ancora incerta. C’è poi un altro aspetto da considerare: la vera ragione del favore pontificio nei confronti di tale personaggio era legata ai consigli politici che poteva fornire. Per un pontefice, però, la consulenza di un avventuriero senza scrupoli (condannato anche dal S. Uffizio) sarebbe stata troppo compromettente. Quindi la rispettabile e politicamente neutrale attività di idraulico e ingegnere di Scipione risultò un’utile copertura per i suggerimenti di natura politica ai quali Gregorio XIII, e suo figlio Giacomo, erano realmente interessati.

Nel caso del Parere sopra le paludi non ci sono però riferimenti politici, ma generiche considerazioni sulla possibilità di prosciugare la piana. È evidente tutta la genericità con la quale di Castro affronti l’argomento: il rimedio principale suggerito consisteva infatti nel miglioramento di «tanti fossi e corsi d’acqua principiati», che bastava semplicemente ripulire ed allargare, per ottenere un’essiccazione «riuscibile e di manco spesa». Complessivamente Scipione si esprimeva a favore della bonifica, facendo esplicito riferimento a precedenti successi:

L’essicazione della Palude Pontina (...) è utilissima, e gloriosa, così, se non m’inganno, a giudizio d’ognuno, sarà sempre tenuta riuscibile, e di manco spesa, che in’altro tempo passato avesse potuto essere, percioché vi sono tanti Fossi, e corsi principiati, e per lunghezza di tempo mezzo ripieni, che valendosi delle fatiche de passati si spenderà manco6.

Alla luce della riconsiderata datazione, quindi, Scipione si riferiva alla bonifica medicea e non a tentativi risalenti ancora più indietro nel tempo. I corsi d’acqua aperti in occasione di quella bonifica – cioè più di sessant’anni prima - risultavano dunque «mezzo ripieni» cioè ostruiti dal fango: conseguenza evidentemente della mancata manutenzione dei fossi.

Nonostante la scarsa conoscenza della materia, di Castro aveva colto almeno due dei problemi essenziali delle paludi pontine, probabilmente rifacendosi ad idraulici più esperti: innanzitutto, la questione del declivio degli alvei fluviali, privi della necessaria pendenza che avrebbe agevolato il deflusso delle acque; poi, il problema del corso dei fiumi, che invece di scendere «a linea retta» verso il mare percorrevano un lungo tragitto parallelo al Tirreno7.

A sostegno della fattibilità dell’impresa, di Castro asseriva che in passato altri papi erano riusciti nell’intento, in particolare convogliando le acque superiori nel rio Martino:

E quanto ad essere impresa riuscibile si prova con due raggioni, delle quali l’una è, che con il livello [del rio Martino] si trova, che il sito è tanto declive, che aiutato da buon argini, e sponde l’alveo, che si farà, al sicuro basterà a condurre regolatamente tutte le acque al mare. (...) E che questa ragione movesse altri sommi Pontefici in altro tempo si conosce dalla esperienza fatta in cavar l’Alveo sotto il Bastione [Torre Taccona] a linea retta verso il Rio Martino, perciocché avendosi alla maggior parte di dette acque da dar esito nel luogo sudetto del Bastione, si vede che da esso verso il Rio sudetto il sito va a linea retta verso il Mare.

Effettivamente di Castro aveva notato un dato vero, e cioè che il rio Martino era l’unico fiume della piana pontina ad avere corso perpendicolare rispetto al mare: non sapeva, però, che l’origine di quel collettore risaliva all’epoca romana e che anche l’imbocco delle acque al di sotto della Torre Taccona era di origine antica. L’intervento su questo fiume non era da attribuire, come vedremo, né a un passato recente, poiché la bonifica medicea si era concentrata nella zona terracinese di Badino, né a un passato più lontano, perché il nome “Martino” non era legato a un’azione di bonifica di papa Martino V, come erroneamente credevano in molti. Era vero, però, che quel fiume poteva essere la chiave per il buon esito della bonifica. Scipione suggeriva quindi di ampliare e pulire

6 ASR, Camerale II, Paludi Pontine, b. 1, f. 2, (1501-1518), cc. non numerate, Parere sopra l’essicazione della Paludi

Pontina mandato a Mons. Commissario della Camera, e steso di suo ordine da Scipione di Castro 1501.

7 Ibidem: «con tutto che l’acque che per la maggior parte oggi fanno detta Palude non abbiano letto capace, e non si conducano al Mare a linea retta. Non di meno con l’incommodo detto al letto, e con tante flessuità, si vede, che l’acque han corso e pendenza, e ci assicura dell’operazione del livello, di maniera, che se esse acque finalmente doppo aver girato per detta Campagna intorno a 27, e forsi 30 Miglia si conducano al Mare, tanto più facilmente vi si condurranno, se con un letto capace si darà oggi loro esito a linea retta».

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l’alveo del fiume: «dal sudetto Bastione, ove si congiungono per la maggior parte dette acque sino al Rio Martino, si avrebbe a far alveo capace intorno a Cinque Miglia in aria di lunghezza, e per siti facili a cavarsi, il Rio sudetto si avvia a nettare, e dal fine del Rio verso il mare ci resterà da fare un fosso simile per spazio di un altro miglia incirca». Infine, per prosciugare le altre paludi, cioè quelle esistenti sotto Sezze, Piperno e verso Terracina bisognava sfruttare gli alvei esistenti e, qualora i terreni si rivelassero troppo bassi per essere prosciugati, «sarebbe utile a lasciarlo per Peschiere», cioè mantenerli nelle condizioni in cui si trovavano. In questo settore delle paludi, Scipione aveva individuato – o, più probabilmente, altri avevano rintracciato prima di lui – alcune «fonti di acque sorgenti, e perenni, il che non si ha per certa notizia». Ma la fonte di Scipione era nel giusto: effettivamente esistevano delle sorgenti ai piedi dei monti Lepini che contribuivano notevolmente a mantenere quell’area – per giunta una delle più profonde della pianura – costantemente allagata. A lungo l’esistenza di queste falde acquifere venne negata o trascurata dai tecnici: bisognerà attendere la dettagliata perizia del geometra Angelo Sani, nel 1759, per vedere definitivamente riconosciuta la presenza e il contributo all’impaludamento di tali fonti.

Non è dunque ascrivibile ad Alessandro VI il primo tentativo di bonifica delle paludi pontine nel Cinquecento. Fu piuttosto Leone X Medici a concepire un organico intervento di prosciugamento e regimazione delle acque: da una parte si trattava di scavare l’alveo del già citato rio Martino, canale emissario delle acque superiori, e nel farvi confluire un certo numero di fiumi provenienti dai dintorni di Sermoneta e di Sezze; dall’altra, si progettava la realizzazione di un nuovo, più rettilineo percorso per il tratto finale del fiume Ufente fino alla foce a Badino, presso Terracina. In sostanza, il progetto presentato da Scipione di Castro copiava in parte quello pensato durante la bonifica medicea.

Leone X si decise a un intervento di bonifica nel 1513, forse per evitare le continue liti tra gli abitanti di Sezze e Sermoneta. I Sezzesi ritrovavano i propri campi seminativi completamente invasi dalle acque, a causa della mancata costruzione, da parte dei Sermonetani, di un canale che convogliasse i fiumi Ninfa, S. Nicola, Falcone e Acquapuzza in un più ampio collettore. Sembra che i Sermonetani invece di dare nuovo corso al Ninfa alla destra del fiume Cavata, cioè nel territorio di loro appartenenza, decidessero (temendo a loro volta di danneggiare i propri campi) di incanalare il fiume Ninfa nella Cavatella, provocando la completa inondazione dei Campi setini, posti a un livello inferiore. I contrasti si erano riaccesi nell’ultimo cinquantennio (in realtà gli stessi problemi avevano caratterizzato la storia delle due comunità in epoca medievale), senza mai giungere a una soluzione definitiva. Leone X, oltre a sperare in una cessazione delle ostilità, ambiva a ripopolare l’area e a incrementare la produzione granaria nei terreni prosciugati8

.

Nel piano di bonifica il rio Martino9 assunse dunque un’importanza strategica per la buona riuscita dell’impresa: il Martino sarebbe stato il collettore principale delle acque “superiori” delle paludi (dei fiumi Teppia, Ninfa, Acquapuzza e Cavatella), la cui mancata regimazione aveva causato continui conflitti tra sermonetani e setini. Questo significava intervenire all’interno dei confini del ducato Caetani. Per poter agire lungo le sponde del fiume era necessaria l’autorizzazione del duca: se le acque e i fiumi erano di pertinenza papale, infatti, tutto il resto - le sponde, gli alberi, il suolo stesso - era di proprietà Caetani. Anche il semplice accesso di architetti e operai doveva essere autorizzato dai duchi di Sermoneta. Nel 1513 il papa inviò due suoi fiduciari per trattare con il duca Guglielmo e con gli abitanti di Terracina, Sezze e Sermoneta: le trattative incerte convinsero il papa

8 ASR, Cam. II, Paludi Pontine, b. 1, f. 2 “1501-1518”, (copia). Pubblicato in Nicolai, cit, p. 128 Motu proprio a favore di Giuliano de’ Medici, 14 dicembre 1514: «...ut ad aeternitatis vitam procurandam peculiares utraque potestate Sactae Romanae Ecclesiae filios terrena largitate alacriores reddamus, et quae inutilia jacuerunt ad optatam frugem, reique immani tate tamdiu vulgo desperatam reducamus».

9 L’apertura di questo canale, lungo più di 4 km, e profondo più di 30 metri, fu attribuita per molto tempo a Martino V, vista la denominazione del fiume, ma in realtà risaliva all’epoca romana. Il primo a mettere in evidenza l’errore fu P. M. Corradini, Vetus Latium Profanum auctore Petro Marcellino Corradino sanctissimi domini nostri Clementis papæ XI.

subdatario. Tomus secundus in quo agitur de Latio gentili, Romæ per Franciscum Gonzagam in area sancti Marcelli ad

viam Cursus, 1705, p. 138: «sunt qui dicant Martinum V (...) restituisse alveum Rio Martino: at sane errant, quum is alveus antiquissimus esset, & Romanorum aetate factus».

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a inviare due Brevi, nei quali assicurava al duca e agli altri proprietari di pantani e zone paludose il versamento di un indennizzo in cambio, però, della loro piena collaborazione10. Papa Medici conosceva bene, evidentemente, l’implacabile opposizione che, a metà del XV secolo, Onorato Caetani aveva esercitato contro l’apertura e il mantenimento del canale Eugenio (che raccoglieva le acque dei fiumi Ninfa, San Nicola, Falcone e Acquapuzza, facendo da confine fra le terre di Sermoneta e Sezze). Gli accesi contrasti che ne erano derivati, culminati in una vera e propria guerra in cui Sezze subì, oltre alla distruzione del castrum setino di Petrata, dato alle fiamme dal duca Onorato, seicento morti nella battaglia per la difesa del canale. Canale poi faticosamente riattivato dai setini, nel 1455, su licenza di Callisto III e sistematicamente danneggiato dai Sermonetani11.

Leone X promise quindi al duca Guglielmo, in cambio della sua collaborazione, il tranquillo godimento del territorio: «quod (…) ad te pertinet et possides, et estivo tempore potest coli (…) ita ut in posterum nulla exhitatio oriri possit». In un secondo Breve, al duca si garantiva che il decorso dei fiumi nel lago di Fogliano non avrebbe arrecato danni al lago stesso e alle attività di pesca che vi si svolgevano. Inoltre nel Breve del dicembre 1513 il papa prometteva una forma di indennizzo ai Caetani, qualora la pesca nel lago fosse stata danneggiata dal defluire delle acque12.

Alla fine, però, i lavori si concentrarono in area terracinese, senza interessare le proprietà dei Caetani: sarà infatti la comunità di Terracina a perdere alcuni possedimenti. Innocenzo Fazi, autore nel 1763 di una Riflessione sui fiumi che attraversavano le paludi, sostenne che la deviazione dei fiumi superiori nel rio Martino non venne mai realizzata – se non in epoca antica - viste le convenzioni vigenti tra Sermoneta e Sezze13. È probabile che il duca Guglielmo temesse di essere di nuovo espropriato del feudo, considerata la politica perseguita dal papa e diretta all’arricchimento della propria famiglia. Forse i Caetani riuscirono, in qualche modo, a dissuadere il pontefice: ma questa è solo un’ipotesi, non dimostrata. È però certo che nel 1516 Leone X aveva sottratto il ducato di Urbino ai Della Rovere per concederlo al nipote Lorenzo II. Non è da escludere pertanto che, attraverso la bonifica, il papa mirasse a costituire un feudo per il fratello Giuliano o che cercasse di impadronirsi di quello di Sermoneta.

In una prima fase, però, il papa fu ben attento a sottolineare il carattere pubblico dell’impresa, sia a livello propagandistico che economico. Ad esempio, Leone X non mancò di sottolinearne il fine di pubblica utilità, volendo provvedere alla «frugum et praecipue frumenti penuria». Ma soprattutto decise di addossarne il carico finanziario alla Camera apostolica: «reliquum vero quod, (...) opera, sumptibus et impensa sacri nostri aerarii, et geometrarum arte et industria exsiccabitur Camerae nostre Apostolice cedet»14. In seguito però (dicembre 1514), fu suo fratello Giuliano de Medici, generale supremo delle truppe della Chiesa, ad assumere l’onere delle spese. Si deve in realtà proprio a Giuliano l’ampliamento del progetto nella zona di Badino: oltre all’allargamento dell’alveo del Rio Martino, infatti, il Medici pianificava l’apertura di un nuovo scolo a mare presso Badino (dove si trova l’omonima Torre). Il rio Martino partiva dal fiume Cavata e tagliava la pianura perpendicolarmente alla costa, sfociando nel lago di Fogliano, che a sua volta era in comunicazione con il mar Tirreno. Come ha dimostrato Edmondo Solmi, è molto probabile che

10 Brevi a Guglielmo Caetani del 14 ottobre e del 7 dicembre 1513 pubblicati in G. Caetani, Regesta Chartarum.

Regesto delle pergamene dell’Archivio Caetani, Fratelli Stianti, San Casciano Val di Pesa, 1932, vol. VI, pp. 287-88.

11

P. M. Corradini, Primis antiqui Latii populis… quibus accessit Setina et Circejensis historia, vol. II, Romae, 1748, p. 140.

12 Ivi, p. 288: «Curabitur etiam ne tu in Piscina Folliani propter decursum confluenti amnium, aut alias quoquo modo detrimentum aut praejudicium patiaris».

13 Archivio Caetani, Misc. 1143: manoscritto di Innocenzo Fazi, Riflessioni sopra il corso antico della Teppia Ninfa e

Puzza co’ Sorgivi aggiacenti e sopra l’antichità del rio Martino nella parte marittima del Lazio esposte da Innocenzo Fazi per istruzione di un Personaggio. (Quamvis enim gendis Causis distringeretur scribebat tamen. Plin. Lib. 5 epist.

5), 1763, p. 247 : «Codesti monumenti manifestano il sistema, e fondo delle litigiose controversie e confermano sempre più che le acque superiori della Teppia, Ninfa, e Puzza non sono state mai per lo passato incanalate pel grande Alveo del Rio Martino, ma che sempre hanno avuto il loro corso per la parte orientale verso Terracina».

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all’arricchimento del progetto iniziale di bonifica abbia contribuito Leonardo da Vinci15

. Proprio dal dicembre 1513 Leonardo è a Roma, al servizio dell’amico Giuliano de’ Medici, dove si tratterrà fino al 151616. Nelle note del Codice Atlantico si riscontrano diversi riferimenti a edifici o questioni architettoniche della scena romana: dunque Leonardo partecipava attivamente alle discussioni “artistiche”, e non solo tali (si pensi alle note sulla sistemazione del porto di Civitavecchia), che animavano la corte pontificia. Nei manoscritti di Windsor si può ammirare una carta riproducente l’Agro pontino, nella quale i due punti sui quali si sarebbe intervenuti, Rio Martino e Badino, sono segnati con una doppia linea, in modo da evidenziarli rispetto agli altri elementi topografici. Inoltre, i toponimi sulla mappa sono scritti in senso ordinario (invece della consueta grafia a specchio): dunque la pianta doveva essere fruibile anche per altri. Anche per la palude pontina, come già per la maremma piombinese, Leonardo aveva immaginato di lavorare su due direttrici. La genialità della sua intuizione è dimostrata dal fatto che anche la moderna bonifica si è ispirata allo stesso principio: l’apertura di due canali principali, per la raccolta rispettivamente delle acque della parte superiore delle paludi e di quelle inferiori,che convogliassero le acque al mare. Il Vinci pensava di utilizzare per le prime l’antico canale del rio Martino che, opportunamente allargato, avrebbe raccolto le acque del Teppia, del Ninfa, dell’Acquapuzza e della Cavatella; mentre un nuovo canale avrebbe provveduto a raccogliere le acque dell’Ufente (indicato sullo schizzo con l’antico nome di Livoli) e dell’Amaseno molto più a sud, scaricandole presso la Torre di Badino. Tuttavia non fu Leonardo a dirigere i lavori, forse ostacolato dal papa che gli aveva proibito anche lo studio dell’anatomia umana, temendo che il Vinci si distogliesse dalle opere commissionategli.

La direzione dei lavori fu infatti assunta da frate Giovanni Scotti, comasco, appartenente alla cerchia di Giuliano e probabilmente in contatto col Vinci: il suo nome compare per la prima volta il 19 maggio 1515 in una serie di capitoli di accordo stipulati da Giuliano de Medici sulle operazioni da farsi per il prosciugamento. In linea con il piano di Leonardo, si programmavano i seguenti interventi: ampliamento del Rio Martino, rettificazione dell’alveo dell’Ufente e apertura di un suo nuovo sbocco al mare presso Badino.

Giuliano aveva inoltre deputato come suo procuratore un notaio della Camera apostolica, Domenico de Juvenibus17, per accordarsi con chi deteneva proprietà confinanti con le paludi. Lo stesso de Juvenibus prese in concessione la quarta parte delle paludi, per prosciugarle, ottenendo in cambio