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Il drenaggio (quasi) riuscito in epoca sistina – Il contesto

5. La “vulgata” della bonifica

3.4. Il drenaggio (quasi) riuscito in epoca sistina – Il contesto

Tito Berti – autore di uno studio sulle paludi pontine (1884)117 - sosteneva l’ipotesi che Sisto V avesse conosciuto la realtà delle paludi pontine sin da giovane, quando era ancora un frate francescano, poiché avrebbe risieduto per un certo periodo nel convento di San Bartolomeo di Sezze118. Ipotesi che però non trova conferma in nessuna fonte documentaria: dalle carte conventuali non risulta il soggiorno del giovane Peretti. È più probabile che, come frate controversista, Peretti abbia peregrinato nella zona, passando anche per Sezze e Velletri119. Inoltre, da cardinale di curia, avrà sicuramente conosciuto le lotte legali tra le comunità pontine per i confini e la regolamentazione dei corsi d’acqua. Possiamo legittimamente concludere che la permanenza del frate Peretti a Sezze sia una falsa credenza, diffusa successivamente alla parziale riuscita dell’impresa di bonifica, nel tentativo di motivare l’interessamento di papa Sisto V per questo territorio. Al di là delle leggende, quale fu il reale interesse del pontefice? In base a quali scelte politiche papa Peretti decise di bonificare le paludi pontine? La spiegazione non può prescindere da una più ampia contestualizzazione storica.

Nel 1586 – anno in cui il pontefice firmò il chirografo di concessione delle paludi – la situazione dell’agricoltura nella cintura della campagna romana era critica. A inizio Cinquecento, la campagna romana poteva ancora contare su diversi suoli fertili: nonostante la prima metà del secolo fosse stata duramente segnata dal passaggio di soldatesche (nel 1526 le truppe napoletane, nel 1527 quelle imperiali; tra 1556-57 la guerra tra Paolo IV e i Colonna aveva comportato l’incendio di molti villaggi sui colli Albani e nella zona costiera), le aree coltivate intorno a Roma avevano continuato a fornire buoni raccolti non appena si ristabiliva la pace. Addirittura, per circa un ventennio (1561- 1578), Roma conobbe un periodo di pane abbondante e a buon prezzo (fatta eccezione per l’anno 1569-70 in cui i grani vennero acquistati nella Marca anconitana). Durante questo florido periodo il grano proveniva quasi esclusivamente dai dintorni di Roma e, in alcuni casi, fu anche in eccesso: tanto che l’amministrazione pontificia autorizzò la vendita delle sovrabbondanze cerealicole delle province di Patrimonio e Campagna ai mercanti genovesi. Nel 1573 circa 65.000 ettolitri di grano uscirono ufficialmente dal Patrimonio via mare, mentre dalla Campagna circa 12.000 ettolitri nello stesso anno120. Se comprendiamo anche le tratte (autorizzazioni all’esportazione) concesse alla Marca e alla Romagna, in quell’anno le esportazioni di cereali dallo Stato della Chiesa toccarono

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T. Berti, Paludi Pontine, Armanni, Roma, 1884.

118 Berti si rifaceva alla notizia trasmessa da P.M. Corradini, Vetus Latium profanum sacrum, per F. Gonzagam, Romae, 1705, vol.II, p. 142: «Sixtus V Romanorum Consulum (...) vixerat enim Setiae in Conventu Fratrum S. Francisci Tertii Ordinis» e poi ripresa, non senza qualche perplessità, dal Nicolai: «mentre era frate [Sisto V] aveva dimorato in Sezze nel convento di S. Francesco (...) è cosa non incredibile» (De’ bonificamenti, cit, p. 134).

119 D. Chiari, Territorio pontino, cit, p. 28.

120 J. Delumeau, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVI siècle, De Boccard, Paris, 1957, p. 143.

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quota 100.000 ettolitri: la gran parte delle esportazioni dello stato erano fornite dalle province contermini. Dopo il 1575 le esportazioni di cereali, prevalentemente dal Patrimonio, conobbero un nuovo ed ultimo incremento. Tra il 1575 e il 1578 il governo romano autorizzò la vendita esterna di circa 160.000 ettolitri di granaglie. Il 1578, però, rappresentò un anno fondamentale nella storia economica di Roma: a causa del maltempo e del banditismo diffuso nelle campagne, i raccolti delle province di Patrimonio e Campagna, che solitamente riuscivano a soddisfare il fabbisogno alimentare romano, si rivelarono insufficienti. Nel dicembre 1578 le autorità annonarie furono costrette a revocare molte tratte prima accordate ai produttori della Marca121. Le esportazioni furono interrotte, per non dire proibite: mossa questa che alla lunga si rivelerà controproducente, poiché invece di agevolare il mercato interno finirà per disincentivare la coltivazione del grano, meno esportabile e dunque poco redditizio. Tra il 1578 e il 1580 la penuria di grano fu particolarmente accentuata e venne fronteggiata con acquisti nelle Marche. Ma già tra il 1582-83 il problema si ripresentò e il grano venne acquistato direttamente dalla Sicilia, visti i prezzi altissimi che aveva raggiunto122. A vent’anni di distanza, nel 1598, il flusso di esportazioni accordate ritornò su quote molto elevate: ben 259.000 ettolitri esportati, ma esclusivamente dalle province di Marca e Romagna. Dalle zone di produzione “laziali” venne un contributo minimo: la Campagna non esportò nulla, mentre il Patrimonio solo 20.000 ettolitri.

Cosa era successo nell’arco di vent’anni? Da un lato, si era verificata una notevole espansione demografica di Roma, passata dai 30.000 abitanti di metà Cinquecento ai quasi 110.000 dell’anno santo 1600123: il che voleva dire un aumento dei consumi di cereali, prelevati soprattutto dalle province più vicine (non a caso chiamate “annonarie”). Proseguiva, inoltre, il lungo processo di spopolamento della campagna romana, iniziato già in epoca tardo-medioevale: l’insediamento rurale dei castra aveva lasciato il posto ai casali, unità agrarie insediative diffuse nell’agro romano a partire dal XIV-XV secolo124. I casali costituirono il principale elemento di organizzazione della grande proprietà fondiaria in epoca moderna. La spiegazione di tale cambiamento va ricercata nelle nuove forme di sfruttamento dei terreni, a loro volta correlate al processo di abbandono in atto. Dalla tradizionale coltura promiscua – che garantiva la sussistenza alle comunità contadine tradizionali – si passò a produzioni latifondistiche di cereali e all’allevamento, i cui prodotti erano commercializzabili sui mercati locali ed esteri. L’organizzazione degli spazi rurali tipica del casale favorì indubbiamente l’economia di transumanza dall’Appennino laziale e abruzzese. Studi recenti hanno però portato a sfumare l’interpretazione tradizionale che vedeva gli spazi destinati all’agricoltura drasticamente ridotti dalla pervasività dell’allevamento125

: ancora nel tardo medioevo, infatti, le pratiche cerealicole nel Lazio, basate sulla rotazione triennale in circa metà delle terre disponibili, favorirono una certa integrazione con l’attività pastorale, in un «sistema di produzione binario»126. Dualismo solo parziale, vista la persistenza di altre forme di sfruttamento, quali l’uso controllato di boschi, laghi e paludi. Non scomparvero del tutto nemmeno altre forme di attività agricola: le comunità rurali più forti mantennero il controllo dei propri territori, nei quali

121 Ivi, p. 159. 122

M. Martinat, Le juste marché. Le système annonaire romain aux XVIᵉ et XVIIᵉ siècles, École française de Rome, Roma, 2004, p. 126.

123 Nel censimento del 1526-27, Roma contava 55-60.000 abitanti. Dopo il calo di quasi la metà della popolazione, conseguente al Sacco di Roma, la città registrò una crescita quasi costante. Già nel 1592 Roma sfiorò le 100 mila unità (99.627) per attestarsi, a partire dal Seicento, come quinta città italiana (dopo Napoli, Milano, Venezia e Palermo). Cfr. E. Sonnino, Le anime dei romani: fonti religiose e demografia storica, in L. Fiorani, A. Prosperi (a cura di), Roma, città

del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, in «Storia d’Italia. Annali»,

XVI, Einaudi, Torino, 2000, pp. 329-364.

124 J. Coste, La topographie médiévale de la campagne romaine et l’histoire socio-économique: piste de recherche, in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Moyen Age – Temps Modernes», LXXXVIII, 1976, pp. 621-675.

125 A. M. Rapetti, Paesaggi rurali e insediamenti nell’Italia del basso Medioevo, in F. Salvestrini (a cura di), L’Italia

alla fine del Medioevo. I caratteri originali nel quadro europeo, Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo - San

Miniato, Firenze University Press, Firenze, 2006, p. 37.

126 A. Cortonesi, L’economia del casale romano agli inizi del Quattrocento, in Id., Ruralia. Economie e paesaggi del

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continuarono a dominare le policolture funzionali a un’economia di sussistenza contadina di antica tradizione. Diversa la situazione però in epoca moderna, quando nella campagna romana le colture risultano definitivamente spazzate via dal bestiame127. Il paesaggio del distretto di Roma era dunque mutato anche dietro l’impulso del capitale cittadino, dell’assetto produttivo da esso sostenuto e delle istanze commerciali. A fronte di una spesa contenuta, i grandi proprietari preferirono il profitto immediato, risparmiandosi i costosi investimenti migliorativi che l’agricoltura avrebbe richiesto. Risale al 1581 la desolante descrizione della campagna romana di Montaigne:

Les avenues de Rome, quasi par tout, se voient pour la pluspart incultes et steriles, soit par le défaut du terroir, ou, ce que je treuve plus vraisamblable, que cete ville n’a guiere de manouvres et homes qui vivent du travail de leur meins. En chemin je trouvai, quand j’y vins, plusieurs troupes d’homes de villages, qui venoint de Grisons et de la Savoie ghigne quelque chose en la saison du labourage des vigne128.

Come racconta il viaggiatore francese, i lavori agricoli stagionali erano svolti da manodopera forestiera per lo più settentrionale, che, per l’ambasciatore di Venezia Paolo Tiepolo, superava stagionalmente le quarantamila unità129. Anche Benvenuto Cellini raccontava di «certi villani lombardi, che venivano a suo tempo a Roma a zapare le vigne». Nonostante i papi avessero proibito l’impiego di braccianti forestieri, il sistema venne praticato nella Campagna romana anche per tutto il secolo successivo130.

Quasi quindici anni dopo la situazione, infatti, non era cambiata, come ci racconta un altro ambasciatore della Serenissima, Paolo Paruta, nella sua Relazione al Senato (1595):

nella Campagna di Roma non vi sono proprj abitatori che coltivino i terreni, essendo il paese, oltra quelli che stanno nelle terre, tutto disabitato. Questi terreni per lo più sono di baroni romani, i quali sogliono affittarli a mercanti, persone ricche e di gran faccende in quest’esercizio, chiamato da loro l’arte del campo: per la quale tengono grandissima quantità di animali, e per coltivar la terra si vagliono dell’opera d’uomini montanari, che vengono da più parti in Roma per quest’oggetto e non par dallo Stato della Chiesa, ma da altri stati ancora. Si lavorano questi terreni solo la terza parte di essi, lasciandoli, da poi fatto un raccolto, che è sempre di formento, riposarsi due anni131.

Paruta, a differenza di altri autori, è però pienamente consapevole della fertilità dei suoli, come chiarisce nella Relazione di Roma edita nel 1595: «Il paese intorno trenta miglia della città è fertilissimo (...) ma è quasi del tutto disabitato». A queste considerazioni l’ambasciatore aggiunse un dato allarmante: «vanno ogni anno da diverse parti, fin di Lombardia, intorno a quaranta mila lavoranti, i quali, finita l’opera, ritornano con qualche guadagno a casa, chi resta vivo: perciò che sempre ne rimane una gran parte di loro estinta, o per l’insolito calor del sole o per la malignità de’ venti marini»132. In realtà è la progressiva diffusione della malaria, nelle aree abbandonate non più sottoposte al controllo e alla manutenzione dei contadini, a mietere vittime.

Sia Paruta che Botero concordarono nell’attribuire la responsabilità dello spopolamento alla crescente pressione fiscale esercitata dai pontefici su questi territori. Senza dimenticare il grave colpo inferto agli abitanti dell’agro dalla carestia-epidemia del 1590-91: è chiaro, però, che dieci anni prima la situazione non fosse migliore. Jean Delumeau ha, di fatto, confermato l’interpretazione dei due testimoni coevi sostenendo che da circa sessant’anni i papi avessero avviato una politica fiscale più rigida (inaugurata da Clemente VII, estesa da Paolo III e inasprita ulteriormente da Paolo IV, Pio IV e Sisto V), caratterizzata da un particolare rigore nell’esazione.

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C. Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati..., cit, pp. 311-364.

128 M. de Montaigne, Voyage en Italie, A Rome et se trouve à Paris, chez Le Jay, libraire, 1774, pp. 163-164.

129 E. Alberi, L’Italia nel secolo decimo sesto ossia le relazioni degli ambasciatori veneti presso gli Stati italiani nel

XVI secolo, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 1858, vol. IV, p. 389.

130 N. M. Nicolai, Memorie, leggi e osservazioni sulla Campagna romana e sull’annona di Roma, nella stamperia Pagliarini, Roma, 1803, vol. III, p. 68.

131 E. Alberi, L’Italia, cit, Relazione di Paolo Paruta, p. 390. 132 Ibidem.

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Sarebbero stati il moltiplicarsi delle imposte e la severità delle riscossioni a inasprire ulteriormente i fenomeni di banditismo di fine Cinquecento. Banditismo che contribuì a sua volta allo spopolamento dell’agro romano, anche se potrebbe considerarsi una concausa dell’abbandono delle campagne.

Per cercare di fronteggiare le carestie, Roma, come del resto anche altre città (Firenze e Napoli, ad esempio), si dotò di istituzioni responsabili del vettovagliamento cittadino. Gli organismi municipali che regolavano la distribuzione del grano vennero prima affiancati, poi sostituiti, da una sempre più specializzata amministrazione pontificia. La sorveglianza generale del rifornimento venne inclusa tra i compiti del Camerlengo, mentre tra i chierici di Camera uno fu sempre preposto all’annona. La Presidenza dell’Annona avrebbe dovuto controllare tutti gli aspetti della politica del grano, dalla coltivazione alla distribuzione. Ma la condizione dell’agricoltura, soprattutto nella campagna romana, era molto complessa e una semplice magistratura non sarebbe riuscita a risolverla, come del resto fallirono gli stessi pontefici. Più in generale, l’amministrazione centrale non riuscì a frenare la diffusa tendenza dei proprietari, specialmente nei territori dell’agro romano, ad abbandonare le coltivazioni a vantaggio dell’allevamento. I grandi possidenti delle tenute intorno a Roma furono certamente corresponsabili del regresso dell’agricoltura: per i baroni, infatti, il mercato della carne e del formaggio era sicuramente più lucroso, sia perché la richiesta di questi prodotti era in costante aumento, sia perché il pascolo – a differenza dell’agricoltura – richiedeva poca manodopera. A soppiantare le coltivazioni erano soprattutto gli allevamenti ovini, i cui prodotti (carni, latte, latticini) erano richiesti in misura e a prezzi crescenti sul mercato di Roma. I signori e i loro amministratori decisero di limitare ai terreni migliori la produzione di frumento, in modo da essere sicuri di venderlo a un prezzo elevato e, nel frattempo, indirizzare i loro investimenti al più redditizio allevamento. Alberto Caracciolo ha sottolineato come, nonostante quasi ogni papa succedutosi al potere varasse bandi ed editti per cercare di sostenere la ripresa delle attività agricole, in realtà una coerente politica cerealicola non sia mai stata attuata. Il governo pontificio, infatti, era il primo a nutrire un interesse diretto nell’alimentare l’allevamento, dal quale traeva ingenti introiti grazie alle dogane di pascolo133. La dogana era una estesa riserva di terreni da pascolo, compresa tra il settore a nord di Roma, la Toscana e l’Umbria: suddivisa amministrativamente in due, tra dogana di Roma e quella del Patrimonio, veniva data in appalto ai

mercanti di campagna. I terreni appartenevano direttamente alla Camera apostolica o erano stati da

questa concessi a comuni o privati, mantenendovi però un «diritto eminente». La dogana era doppiamente redditizia per le casse camerali: le mandrie che entravano in questi pascoli erano soggette al pagamento della fida (una tassa) mentre i terreni erano affittati al miglior offerente. Dalla fine del XV secolo, la dogana del bestiame aveva cominciato a fruttare al tesoro più di tutte le esportazioni di granaglie dello Stato della Chiesa. Tanto che Jean Delumeau ha quantificato tale differenza in un rapporto di uno a due: se la dogana rendeva 40.000 scudi, le esportazioni di grano non superavano i 20.000.

La crescita demografica registrata a Roma tra metà Cinquecento e inizio Seicento (109.729 abitanti nel 1600)134, unita all’alta qualità di spesa alimentare delle corti signorili ed ecclesiastiche, aveva accresciuto il consumo di prodotti animali. L’abbandono dell’agricoltura nei territori più vicini alla Capitale finì per aumentare proprio nel periodo in cui maggiori furono i provvedimenti di incentivo all’agricoltura. Da un esame dei provvedimenti adottati in campo legislativo, emerge senza dubbio il costante sforzo dei pontefici per proteggere e incoraggiare gli agricoltori.

A partire dall’intervento drastico e fortemente innovativo di Sisto IV, che per ripopolare la Campagna e favorirne la coltivazione, nel 1476 consentì l’occupazione della terza parte delle terre incolte a chiunque avesse intenzione di lavorarle135. Il colono doveva naturalmente chiedere il permesso al proprietario del fondo e dargli una parte del fruttato, ma in caso di rifiuto poteva

133 A. Caracciolo, Da Sisto V a Pio IX, cit, p. 379.

134 K. J. Beloch, Storia della popolazione d’Italia, Le Lettere, Firenze, 1994, p. 192.

135 Costituzione del 1 marzo 1476. Sulla legislazione papale in materia di agricoltura, cfr. A. Canaletti-Gaudenti, La

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rivolgersi a una commissione di esperti creata allo scopo, che avrebbe fatto applicare la legge. Questa felice intuizione sistina prefigurava, pur con certe limitazioni, una sorta di riforma agraria. Invano riconfermata da Giulio II, Leone X e Clemente VII. Le campagne continuarono inesorabilmente a spopolarsi tanto che in tutto il litorale, da Porto Ercole a Terracina (150 miglia totali), si calcolavano alla metà del Cinquecento non più di otto mila abitanti136: una densità di 20 abitanti per chilometro quadrato.

Pio V organizzò in modo stabile il Tribunale dell’Agricoltura nel 1566: era un modo per sottrarre alla giustizia ordinaria, e alle sue lentezze, questo genere di cause e agevolare i contadini. Cercò poi di porre un freno ai fenomeni di accaparramento del grano da parte dei grandi proprietari. I possidenti impedivano ai coltivatori di vendere il loro grano a Roma: contro questo divieto, il papa esentò chi portava in città granaglie o altre derrate alimentari dal pagamento di pedaggi, imposte e tasse su tali prodotti. Inoltre vennero varate una serie di disposizioni per tutelare i coltivatori indebitati: se portavano alimenti in città, erano protetti per due giorni dalle incriminazioni per debiti; le bestie da lavoro e gli attrezzi non potevano essere pignorati; durante le semine e le mietiture, i coltivatori che lavoravano in un raggio di 40 miglia intorno a Roma (nel districtus

Urbis) non potevano subire nessun sequestro di beni per debiti.

Anche dopo Sisto V i pontefici continuarono ad emanare bandi ed editti nel tentativo di risolvere i problemi dell’approvvigionamento granario e dalla produzione cerealicola. Nel 1597 Clemente VIII stabilì pene severe contro chi commettesse abusi sul grano e fissò il divieto di esportazioni (di grano, biade e legumi) per quell’anno. Le pene previste per i baroni che nascondevano il grano per farne rincarare il prezzo prevedevano l’espropriazione dei feudi e la confisca dei beni. Ma le sorti dell’agricoltura non si risollevarono e il pontefice fu costretto ad acquistare il grano dalla Sicilia, dalla Sardegna e dalla Spagna. Così, per incentivare l’arte agraria, nel 1600 Clemente VIII emanò una costituzione in cui autorizzava i contadini a lavorare fuori dai fondi del loro padrone, obbligando gli allevatori a destinare all’aratura parte del bestiame. Sciolse inoltre i vassalli da qualsiasi vincolo di giuramento prestato e permise ad agricoltori, mercanti e coloni di vendere altrove la quarta parte del loro grano, a patto che in quell’anno il prezzo non avesse superato i 60 giulii al rubbio137. Nel tentativo di aumentare le attività produttive sul territorio laziale, Clemente VIII aveva inoltre cercato (nel 1592) di incentivare l’arboricoltura dei gelsi da seta, imponendo di piantare un gelso per ogni rubbio di terra: se tale disposizione avesse avuto seguito – ma così non fu - si sarebbero potuti contare 300.000 gelsi nella campagna romana.

Paolo V varò inizialmente alcuni provvedimenti per evitare l’accaparramento del grano prima dei raccolti e i trasporti segreti lungo il litorale. Poi intervenne in favore dell’agricoltura nella regione di Tarquinia, dove l’estensione dei pascoli aveva raggiunto proporzioni notevoli. Di fronte all’abbandono dell’Agro Cornetano, che era stato il granaio della provincia di Patrimonio138

, Paolo V istituì una congregazione che riformasse gli statuti vigenti. I nuovi statuti vennero approvati dal pontefice con una costituzione del 1608: venivano delimitate le terre riservate al pascolo, regolamentate le date di entrata e di uscita del bestiame (tra il 1° marzo e l’8 maggio dovevano lasciare i pascoli), gli allevatori erano obbligati a possedere un certo numero di aratri. Nel 1611 adottò una misura che avrebbe potuto cambiare qualcosa: il Monte di Pietà di Roma fu autorizzato a prestare ai coltivatori, al bassissimo tasso del 2% l’anno, somme considerevoli che potevano arrivare a 1000 e perfino a 2000 scudi139. D’altronde, l’idea di una cassa di credito agricola era nell’aria, almeno dai tempi di Sisto V, che aveva messo da parte, a questo scopo, una somma di 200.000 scudi, poi impiegata nell’acquisto di granaglie durante la carestia del 1590. Queste norme

136 Relazione di Paolo Tiepolo in Li tesori della Corte romana, Bruxelles, 1672, p. 14.

137 C. de Cupis, Le vicende dell’agricoltura e della pastorizia nell’agro romano. L’annona di Roma. Giusta memorie,

consuetudini e leggi desunte da documenti anche inediti, Tipografia nazionale di G. Bertero & C., Roma, 1911, pp. 211-

223.

138 L. Palermo, Il mercato distrettuale del grano in età comunale in Mercati del grano a Roma tra Medioevo e