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Le iniziative delle comunità: Piperno e Sezze

5. La “vulgata” della bonifica

3.3. Le iniziative delle comunità: Piperno e Sezze

Una costante nelle interpretazioni dei tentativi di bonifica è la considerazione dell’ostilità delle popolazioni locali. Sebbene sia indubbia una forma di opposizione, con danni ad argini e canali, tuttavia sarebbe sbagliato ritenere che da parte delle comunità ci fosse una contrarietà tout court alla bonifica. Non mancarono, infatti, iniziative di risanamento da parte delle singole comunità. Forse sulla spinta del buon esito della bonifica medicea, o più probabilmente per problemi di ordine finanziario, Piperno e Sezze decisero di vendere alcuni dei loro pantani a sedicenti bonificatori. La cittadina di Piperno, nel luglio del 1564, operò una vendita di 500 rubbia di terreni impaludati. In un resoconto di molti anni dopo (1641), presentato dall’agente della comunità alla congregazione delle paludi, il sindico e gli ufficiali auspicavano che le paludi vendute tornassero alla città. Effettivamente nell’archivio camerale (Cam. III, Comunità, Piperno) ho rinvenuto i capitoli di vendita dei Pantani del 1564, nonché il Breve apostolico che autorizzava la cessione. La comunità, dopo ben dieci consigli generali, aveva deciso di vendere in perpetuo quei terreni paludosi per estinguere molti dei debiti gravanti sulle casse comunali95. Per la cessione erano stati affissi dei bandi e l’offerta migliore pervenuta era stata quella del pipernese Marco Guarino, dottore in medicina, che avrebbe pagato due mila e seicento scudi in moneta96, con la promessa di prosciugare quei terreni. In realtà Guarino avrebbe contribuito in minima parte all’acquisto: la maggior parte della spesa venne infatti coperta dall’arcivescovo sipontino Tholomeo Gallio97, segretario segreto di Pio IV. Un’altra quota venne versata dal pipernese Fabio Marchesio, cavaliere di San Pietro98.

95 ASR, Cam. III, Comunità, b. 1687 (Piperno), Pro Reverendissimo Don Tholomeo Gallio Archiepiscopo Sypontino,

Secretario Secreto SDN Pii Papae Quarti, c. 92 r: «decreverint ac deliberaverint, pro solven’ multis debitis, quibus ipsa

Comunitas involuta et impedita reperitur, vendere in perpetuum cum infrascriptis Capitulis conditionibus et pactis, quingenta rubli Terrarum paludum eiusdem Comunitatis vulgariter nuncupata, la Pantana di Piperno, intra confinia in dictis Capitulis infra insertis contenta».

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Ibidem: «In quibus omnibus et singulis bandimentis nemo fuit repertus, qui plus obtulerit, aut meliorem conditionem fecerit, quam magnificus et Excellens vir don Marcus Guarinus (…) qui obtulit scuta di moneta duomillia et sexcenta». 97 T. Gallio nacque a Cernobbio (Como) nel 1526 in una famiglia benestante, arricchitasi commerciando con la Germania e, già alla fine del XV secolo, annoverata nel patriziato comasco. Venne inviato a Roma nel 1544 presso il parente Paolo Giovio. Fu segretario del prelato milanese Antonio Trivulzio, più volte nunzio in Francia. Morto Trivulzio, Gallio lavorò per il cardinale fiorentino Taddeo Gaddi e, dall’autunno 1559, fu al servizio di Giovan Angelo de’ Medici, cardinale milanese. Pochi mesi dopo il Medici fu eletto papa, con il nome di Pio IV: Gallio venne scelto per l’incarico di segretario intimus, cui era affidata la corrispondenza diplomatica. In qualità di segretario dei brevi si occupò inoltre di tutte le suppliche inviate a Pio IV. Affiancò spesso il cardinal nipote, Carlo Borromeo, nella trattazione di materie delicate (come il concilio di Trento). Grazie al sostegno di Pio IV, Gallio acquisì rapidamente molti titoli ecclesiastici. Nel 1559 fu nominato arcidiacono di Monopoli, nel 1560 vescovo di Martirano (Calabria), il 7 luglio 1562 arcivescovo di Manfredonia. Il 12 marzo 1565 fu creato cardinale, ma non lasciò l’incarico di segretario. Il trasferimento a Milano del Borromeo, infatti, aveva aumentato la centralità del suo incarico. Assecondando le preoccupazioni di Pio IV per il rafforzamento del dominio spagnolo in Italia, seppe intessere proficue relazioni con il regno di Francia. Morto Pio IV, Gallio fu rimosso dal suo incarico e scelse di seguire l’esempio del Borromeo: si trasferì nella diocesi di Manfredonia per applicarvi i decreti tridentini. Ma il cardinale si trovò a fronteggiare la decadenza del clero sipontino, l’ostilità delle magistrature civili nonché l’opposizione del governatore spagnolo. Per evitare scontri con il potere politico e salvaguardare le sue relazioni con gli ambienti filo-spagnoli, abbandonò la diocesi e si trasferì nella villa di Piperno. Dopo un periodo al servizio di Cosimo de’ Medici, partecipò al conclave dove si prodigò per la candidatura di Ugo Boncompagni, riuscendo a farlo eleggere. Gregorio XIII dimostrò la propria riconoscenza richiamando il cardinale alla segreteria (1572). Gallio si dimostrò un fautore del partito spagnolo, sostenendo Filippo II in varie occasioni. Si schierò da subito a favore di Filippo II nella successione al trono portoghese, anche contro il parere papale, conseguendo alla fine un clamoroso successo. Con l’ascesa al soglio di Sisto V, con il quale era stato spesso in contrasto, venne allontanato definitivamente dagli incarichi di governo: nell’ottobre 1586 si

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La presenza del Gallio potrebbe suggerire un interessamento dello stesso Borromeo, di cui Gallio era stato fedele segretario. Tuttavia nei documenti non c’è alcun cenno al cardinale, il quale di lì a poco, nell’agosto del 1565, avrebbe lasciato Roma per trasferirsi a Milano. Inoltre è probabile che il Gallio fosse interessato a quei pantani in forma “privata”, visto che già possedeva l’area dove aveva edificato la villa di San Martino, concessagli in enfiteusi dal vescovo Beltramini. Villa alla quale il Gallio fu sempre molto legato, come testimoniano alcune lettere al Borromeo e i suoi lunghi soggiorni99. Appena poteva, poi, vi faceva ritorno: nell’ottobre del ’66 vi fece una breve sosta prima di trasferirsi nella diocesi di Manfredonia e al ritorno, fallito il tentativo di riformare il clero sipontino, vi si stabilì nuovamente. La Villa di San Martino – circondata ancora oggi da un tenuta di 33 ettari, per lo più boschiva - si trova però in una zona “alta”, sulla strada tra Piperno e Fossanova, relativamente lontana dalla sottostante palude. Fino ad oggi, inoltre, l’interessamento del Gallio per le zone paludose non era noto. Inedito è infatti questo documento che testimonia la sua consistente partecipazione all’acquisto di alcuni pantani, al fine di prosciugarli. Ma ciò non deve stupire: se è vero che Borromeo poteva contare su un ingente patrimonio fondiario, infatti, anche il Gallio non fu da meno. L’arcivescovo sipontino possedeva benefici ecclesiastici nel comasco, incamerava censi e rendite di provenienza spagnola e introiti da diverse abbazie italiane. Secondo una stima dell’ambasciatore Paolo Tiepolo (1575), oltre ai 14.000 ducati di rendita annua, Gallio avrebbe goduto di cospicue pensioni elargitegli in segreto da Filippo II. Il suo patrimonio era tale che dal 1587 poté permettersi un donativo di 60.000 ducati l’anno a favore dell’omonimo nipote. A questo stesso nipote cederà la contea di Alvito in Terra di Lavoro (Regno di Napoli) – non molto distante da Piperno – acquistata nel 1595 per 150.000 ducati.

Il terreno in questione era chiamato in volgare «la Pantana di Piperno». I confini delle 500 rubbia in vendita vennero stabiliti nei capitoli di accordo con Guarino, prendendo a riferimento i fiumi circostanti. Sul lato lungo il campo era delimitato dal fiume Mazzocchio, confine naturale tra Piperno e Terracina, che andava verso i laghi Grecilli (il proseguimento dell’Arsiccio verso nord), mentre in larghezza il terreno si estendeva dall’argine del Mazzocchio sino all’argine del Rio Freddo. Guarino assicurava che avrebbe scavato un nuovo fiume – da chiamarsi appunto Guarino – confluente nel fiume Freddo e al confine della proprietà. In questo modo la proprietà sarebbe stata circondata su quattro lati dai fiumi: il fiumicello tra Piperno e Terracina, il Mazzocchio, il rio Freddo e il fiume Guarino, impedendo ai nuovi proprietari di impadronirsi indebitamente di altre terre100.

Il dottore dichiarava che non avrebbe richiesto un contributo per i lavori di bonifica né alla Comunità né ai cittadini, sebbene anch’essi ne avrebbero tratto dei vantaggi101

. La proprietà e la rendita del campo sarebbero stati appannaggio del Guarino ma il dominio del terreno sarebbe rimasto alla Comunità. Il proprietario avrebbe permesso la fida del bestiame alla Comunità, ma solo per pascolare bestie aratorie e, d’estate, i maiali. Mentre per la fida invernale, la così detta «recalata», avrebbe concesso il terreno solo ad ottobre per pecore e vacche, al fine di limitare i

ritirò a Como, dedicandosi alle molte proprietà accumulate. Morto Sisto V, Gallio partecipò ai successivi conclavi, ma senza possibilità di essere eletto poiché troppo compromesso con il partito spagnolo. Nei suoi ultimi anni romani si dedicò all’amministrazione del suo ingente patrimonio e al patrocinio di alcune opere assistenziali. Nel 1603, decano del Collegio, divenne titolare delle diocesi di Ostia e Velletri. Morì nel 1607. Cfr. G. Brunelli, DBI, cit, vol. 51 (1998), pp. 685-690.

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ASR, Cam. III, Comunità, b. 1687 (Piperno), Pro Reverendissimo Don Tholomeo Gallio..., cit, c. 92 r: «Et postea idem don Marcus declaraverit penes acta mei infrascripti Notarii se dictam oblationem facisse tam pro se ipso, quam etiam pro Reverendissimo Domino Don Tholomeo Gallio Archiepiscopo Sypontino, Secretario Secreto S.D.N. Pii Papae Quarti, et pro magnifico Fabio Marchesio de dicta terrae Priverni Equite sancti Petri d. Urbe».

99 Lettere inedite di T. Gallio cardinale di Como al cardinale Carlo Borromeo, in «Periodico della Società storica comense», VII (1889), pp. 7-50, 269-315.

100 ASR, Cam. III, Comunità, b. 1687 (Piperno), Pro Reverendissimo Don Tholomeo Gallio..., cit, c. 92 v: «Et per assicurare la Comunità predetta, che non si pigliarà più di 500 rubbia, prometto che dove finirà la mesura di detto Terreno, farò un fiumicello da alto a basso fino al fiume de friddo, quale s’habbia a dimandare il fiume Guarino». 101 Ibidem: «Et più prometto, che né la Comunità né i Cittadini saranno molestati di concorrer a la exiccatione, ancorchè di raggione fossero obbligati».

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danni alle sementi102. Alla Comunità e ai cittadini veniva confermato il diritto di legnatico, a patto che la legna ricavata non venisse rivenduta, ma fosse d’uso domestico. Lo stesso Guarino impose a sé e ai suoi eredi la medesima regola: con l’ eccezione degli «Arbori, che me sarà necessario tagliare o cavare nel nettare et cavare i fiumi per allargar il paese per sementar»103. Guarino concedeva poi a tutti i pipernesi l’uso del legname proveniente dai pantani per farne aratri o botti, da vendersi ai soli membri della comunità104. La Comunità avrebbe potuto continuare a vendere la pesca nei fiumi, riservando la pesca con l’amo ai braccianti di Guarino. All’interno di quelle cinquecento rubbia di paludi si trovavano almeno tre peschiere affittate: «ve ne è una chiamata il Lago de Gricilli che se trova hoggi affittata scudi 23 l’anno. Vi è un’altra chiamata pesca del Mazzocchio, dalla quale hoggi se cava scudi sei baiocchi 70 l’anno. Vi è anco una Peschiera chiamata il Capocavallo, che sta nel fiume di Freddo, dalla quale se ne cava hoggi scudi 255 l’anno, et è lontana dall’Abbatia di Fossanova circa quattro miglia»105

.

Il nuovo proprietario prometteva di mantenere a sue spese quattro ponti di legno sul fiume Mazzocchio e di costruire un nuovo abbeveratoio, con il patto che i pastori sarebbero stati multati se avessero fatto abbeverare il bestiame nel fiume, danneggiandone gli argini. Sarebbero stati altresì condannati al pagamento della pena prevista nello statuto, in caso di danni procurati dal bestiame al campo seminato. Guarino pensava poi di mantenere in quel campo trecento o quattrocento bufale finché non avesse ultimato la disseccazione, pagando la dovuta fida alla Comunità106. Il dottore pipernese intendeva bonificare quei terreni approfondendo l’alveo del Mazzocchio107: dunque tante bufale sarebbero state indispensabili per quel genere di lavoro.

Molto importante, infine, l’impegno del medico a non vendere questi terreni «a Baroni o signori di Castella sotto pena di perdita di detti Terreni, quali recadano a la Comunità». Questa clausola chiarisce la politica adottata dalla comunità di Piperno: pressata da debiti e incapace di sfruttare al meglio il proprio territorio, in particolare le aree più difficili come i pantani, la comunità si affidava ai privati cittadini. Il Breve apostolico, risalente al 22 luglio 1564, concedeva a Piperno il permesso di vendere quelle terre, a laici o ad ecclesiastici: ed ecco quindi giustificata la vendita al Gallio. In altri documenti si stabiliva il prezzo dei pantani, in base alle misurazioni effettuate da misuratori esperti eletti in consiglio cittadino. Alla somma iniziale di 2600 scudi si aggiungevano altri 116,25 scudi per 31 opere di terreno «lavorato» nei prati Corvino e Saraceno, compresi nella vendita108. La gran parte della somma era stata pagata dall’agente dell’Arcivescovo sipontino Tholomeo Gallio che, in presenza del notaio e degli officiali pipernesi, aveva versato 1901 scudi d’oro109. Guarino aveva invece sborsato 543 scudi, per un totale di 2444 scudi. Il 16 settembre del 1564, il notaio Battista Colae di Sant’Angelo e gli acquirenti si erano recati sul posto, cioè proprio nel prato

102 Ivi, c. 93 r: «De inverno ci possa fidare solo pecore et vacche per tutto il mese d’Ottobre qual fida vulgarmente si dice Recalata, acciò no’ patisca il domato et no’ si guastino gli sementati».

103

Ibidem.

104 Ibidem: «Et più mi contento che tutti i Cittadini possano far’ aratri et cerchi di botti et per vender alli Citadini solo di Piperno».

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Ivi, cc. non numerate, Denuncia dell’agente della comunità di Piperno, su indicazione di sindico e officiali, alla congregazione delle paludi pontine in data 26 luglio 1641.

106 Ivi, c. 93 v: «Et più voglio per cinque o sei anni che potrà durare la exiccatione di detti terreni, poter metter in detto luogo trecento o quattrocento bufale, et pagare a la Comunità per la fida d’estate carli doi per bestia, et d’inverno carli quattro, et questo per aiutar l’exiccationi».

107 Ibidem: «…tanto più che a la Comunità gli resterà Terreno assai exiccato, cavato che sarà il Mazzocchio».

108 Ivi, c. 96 r: «Pro Pretio et pretii nomine scutorum duorum millium et sexcentorum monetae (…), necnon aliorum scutorum similiu centu’ et sexdecim ac vigintiquinque pro augumento operarum Terrarum xxxi quae ad presentem laborant’ in pratis Corvino et Saracino dictarum paludum, in presenti venditionem comprehensa».

109 Ibidem: «Don Georgius agens Reverendissimi D. Archiepiscopi sypontinis nuc in presentia mei Notarii et Testium solvit et exbursavit isdem Syndico et Officialibus scuta 1901 et blos 40 in scutis auri in auro boni et iusti poderis, et paulis, ac bona et usualis moneta argentea.

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Corvino al di là del fiume Mazzocchio, per la cessione dei terreni. Oltre a Guarino, erano presenti il cavaliere Fabio Marchesio e l’agente dell’arcivescovo sipontino, Giorgio Martello110

.

Molti anni dopo, negli anni ’40 del Seicento, il commissario incaricato dalla Congregazione delle paludi di raccogliere le denunce di proprietà, tale Loreto de Santis, confermava la vendita. Risultava, infatti, che nel settembre 1564 cinquecento rubbia di terreno paludoso del territorio di Piperno erano state vendute rispettivamente all’arcivescovo sipontino monsignor Tolomeo Gallio (350 rubbia), al medico Marco Guarini (100 rubbia) e al marchese Oddi (le restanti 50 rubbia) per una somma di 2444 scudi. Probabilmente il cavaliere Marchesio aveva successivamente venduto la sua parte. Quei terreni erano poi finiti nelle mani dei bonificatori all’epoca di Sisto V111.

Come dimostra il documento successivo, del 1641, a quasi ottant’anni di distanza i lavori di bonifica non erano stati realizzati. Il canale che sarebbe dovuto diventare il fiume Guarino non era mai stato scavato112.

Nell’aprile del 1564 anche la comunità di Sezze, in gravi difficoltà economiche, preferì vendere alcuni pantani a un capitano, tale Troiano de Amatoribus da Esio (Marca anconitana), piuttosto che continuare a possederli senza guadagno. I cittadini valutarono collegialmente la questione, nel consiglio dei Sessanta e in quello pubblico, consapevoli che da quei pantani avrebbero ricavato un poco o nulla113. Ad autorizzare la vendita, con motu proprio del 26 giugno 1564, fu il cardinale Borromeo114. Il capitano si impegnava a pagare cinquecento scudi (ed eventualmente di più, se fosse riuscito a coltivare quei terreni) per i pantani di Sancto Iacomo, compresi tra il fiume della Torre e «le Selci» (la via Appia)115. De Amatoribus prevedeva un piccolo intervento: «con patto che io possa fare un fiume o vero fosso per riparare le acque, che vengono adosso a dette terre di sotto o di sopra la Selce dove a me parrà più conveniente et opportuno», l’apertura cioè di un canale di scolo di tutte le acque. Funzionale alla realizzazione e al mantenimento dell’opera, la presenza di un branco di bufale per mantenere «purgati» i fiumi116.

Una clausola essenziale del contratto proibiva a Troiano e ai suoi eredi di vendere le paludi «a Baroni o Signori titolati né a Reverendissimi Cardinali della Santa Romana Chiesa». Come era prassi in questi contratti, Sezze si tutelava dalle mire dei nobili, ma per la prima volta estendeva il divieto anche ai cardinali. Chiaro segnale dell’interessamento di queste figure – si pensi a Borromeo e Gallio – per i terreni pontini.

110 Ivi, c. 101 r: «In die vero sextadecima mensis septembris personaliter accessisse ad Pratum Corvinum in Territorio Terrae Priverni, ultra Flumen Mazzocchio, et vigore Instrumenti celebrati inter Magnificam Comunitatem dictae Terrae ex una et Beatissimum D. Tholomeum Gallium, Archiepiscopum Sypontinum et Secretarium secretum S.mi Domini Nostri Papae, et pro eo et eius nomine magnificum Georgium Martellum eius Magnifici domus, necnon magnificos dictos Marcum Guarinum et Fabium Marchesium de dictae Terrae ex altera, induxisse, possuisse, et imisisse (…) in corporalem possessionem quingento rublos Terrarum et Paludum».

111 ASR, Cam. II, Paludi Pontine, b. 2, f. 83, cc. non numerate: «Piperno. Instromento di vendita di rubbia 500 di terreno paludoso venduto al quondam Monsignor Tolomeo Gallio Servitore di Pio IV, e poi Cardinale di Como et a Marco Guarini medico, et a Marchese Oddi; cioè a Monsignor Tolomeo Gallio rubbia 350, a Marco Guarino rubbia 100 et a Marchese Oddi rubbia 50 per scudi 2444 pagati contanti con alcuni capitoli e con l’approvatione di Pio IV come per instromento rogato e stipulato sotto il dì 5 di settembre 1564 per Bernardino Berardini notaro pubblico della diocesi di Terracina. Queste terre sono poi state pigliate dalli Bonificatori con li capitoli di Sisto Quinto».

112 Ivi: «se promette da compratori de paludi, che per assecurare questa Communità che non se piglierà più di rubbia 500, se farà da essi un fiumicello da alto a basso, che se doverà domandare il fiume Guarino, il quale non è stato già fatto».

113 ASR, Cam. II, Paludi Pontine, b. 1, f. “1564”, cc. non numerate: «considerantesque Communitatem praedictarum et dictis Pantanis et Paludibus nullos ullo unquam tempore percepisse nec hodie percipere nec in futurum percepturam sperare posse fructus nisi tantum et arboribus ibidem existentibus».

114 Ibidem: «Concessa motu proprio in praesentia D. N. PP. C. Cardinalis Borromeus. (...) Datum Romae apud S. Marcum Sexto Kalendae Iulii Anno Quinto».

115 Ibidem: «Piacendo alla comunità di Sezza concedermi le Pantana o vero Paludi Sancto Iacomo a diseccare cioè dal zappile in giù verso Terracina sino a Santo Giacomo per lunghezza e per larghezza del fiume della Torre sino alle Selci, reservate le terre appatronate».

116 Ibidem: «Con patto che io possa tenere in dette terre piacendomi un branco di bufale per poter continuamente tener purgati, et netti li fiumi che vi possono dare impedimento, e detto branco si intenda da cinquanta bufale in giù».

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Alla luce di questi due casi, che potremmo leggere come iniziative “private” di bonifica, il ruolo delle comunità locali va in parte rivisto. Se è appurato che a spingere alle vendite fosse l’alto indebitamento comunitativo, piuttosto che una volontà di risanamento, è pur vero che le popolazioni non si dimostrarono pregiudizialmente contrarie a qualsiasi tentativo di bonifica. Forse impressionati dai successi dell’impresa medicea, i consigli cittadini non esitarono a vendere i propri pantani a impresari che promettevano di bonificarli. Le comunità, piuttosto, sembravano spaventate dalle modalità di esproprio adottate dal potere centrale. La loro ostilità non va quindi messa in relazione alla bonifica in sé, quanto piuttosto allo spezzettamento e all’esproprio del loro territorio. Il timore – lo stesso sin dal medioevo – era che i loro territori andassero a costituire feudi appannaggio di nobili o cardinali, cui sarebbe seguito un ulteriore indebolimento delle comunità.