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5. La “vulgata” della bonifica

1.2. L’ambiente paludoso

Innanzitutto l’oggetto di questa ricerca: non studieremo qui la Palude pontina, ma le Paludi pontine, adottando con quest’ultima locuzione la definizione latina di paludi, cioè non una singola distesa sommersa dalle acque ma un sistema misto di stagni, terre sommerse e terre emerse (almeno in parte). Il termine “Paludi pontine” oggi riferito a tutta la valle compresa tra i monti Lepini e il mar Tirreno, era un tempo riferito esclusivamente alla palude inferiore cioè quella fascia di terreno compresa tra i territori di Sezze, Priverno e Terracina e il limite esterno del fiume Antico/Sisto, fino agli sbocchi a mare di Levola e Badino. Esistevano però altre paludi: partendo dalle zone geograficamente più a nord, troviamo innanzitutto l’immensa distesa paludosa di Piscinara, nei pressi di Cisterna. Qui l’acqua era destinata a ristagnare perché impedita dalla duna quaternaria: il sito fu particolarmente difficile da drenare (ci si riuscì solo in età contemporanea) per l’accumulo delle acque provenienti dai monti Lepini e dalle acque dei Colli Albani, portate qui dal fiume Teppia e dal fosso di Cisterna. Un’altra zona impaludata era quella dei «campi setini», o palude setina, formata dall’impaludamento dei fiumi Ninfa e Teppia e dalla difficile immissione di alcuni affluenti minori nei collettori Cavata e Cavatella. C’era poi l’area compresa tra i Campi di Priverno e la via Appia, chiamata Quartaccio del Mazzocchio, regolarmente inondata dai fiumi Ufente e Amaseno.

Da un punto di vista geomorfologico, quella pontina è forse l’unica vera e propria palude del territorio umido laziale26. Quest’area era ancora alla fine del periodo Terziario un golfo marino poco profondo, con anteposta l’isola calcarea del Circeo. Durante il Quaternario il golfo fu parzialmente colmato e trasformato in una o più lagune con profondità maggiori lungo la base dei Lepini, con il concorso dei materiali provenienti dal Vulcano laziale, delle alluvioni fluviali e, in vicinanza del mare, dell’accumulazione eolica. Compresa tra la base dei calcarei monti Lepini e i cordoni dunari entro i quali erano i laghi costieri, la palude si estendeva nell’area dove l’antichissima laguna aveva la sua maggiore profondità. I corsi d’acqua erano alimentati dalle sorgenti carsiche e il loro deflusso verso il mare era ostacolato dalla troppo lieve pendenza, dai cordoni di dune paralleli alla costa, dalla torba formata per l’accumulo della vegetazione palustre27 e ancora dal costante innalzamento del livello marino, dalle piogge e, non ultimo, dalle conseguenze dell’opera umana.

Ai piedi dei monti Lepini comincia una pianura di circa settantamila ettari, che digradano sempre più piatti verso il mare. Prima di raggiungere la costa, si trova un cordone sabbioso (largo tra i cinque e i sei chilometri) che percorre longitudinalmente tutta la piana, parallelo alla linea di costa: è la duna quaternaria, dove si frangeva il mare tra i quattro e i cinquecentomila anni fa28. Il mare Tirreno, depositando continuamente nuovi sedimenti, ricostituì a un paio di chilometri da quella duna una nuova linea di costa, più bassa (ma caratterizzata da una serie di dune sabbiose), che tuttora rappresenta il litorale tirrenico compreso tra torre Astura e il Circeo. Lungo il litorale si snodano quattro laghi: in origine insenature marine poi separate dal mare da cordoni litoranei. Il più grande e settentrionale è il Lago di Fogliano (perimetro di 13 Km), seguono poi quello dei Monaci e quello di Caprolace. Il lago di Paola (o di Sabaudia) ha una riva interna frastagliata in sei bracci, in

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Morfologicamente le zone umide dell’area laziale si possono suddividere in tre categorie: aree pianeggianti interne caratterizzate da acque stagnanti dolci presso le anse fluviali e i laghi, lagune salmastre di formazione deltizia e laghi costieri con ricambio di acqua salata, zona paludosa più ampia ormai indipendente dal mare perché separata da uno o più cordoni dunari; per un primo inquadramento geomorfologico si veda R. Almagià, Lazio, Utet, Torino, 1966, p. 101- 103.

27 Una crescita estremamente rigogliosa di vegetazione palustre nei fossati e nei letti dei fiumi, che nei mesi estivi faceva aumentare il livello dell’acqua sino a 5 cm al giorno, ha dato luogo nel corso di millenni a consistenti formazioni di torba, che in alcune zone centrali raggiungono uno spessore di 60 metri. Cfr. F. Vöchting, La bonifica della pianura

pontina, introduzione a cura di A. Parisella, Edizioni Sintesi Informazione, Roma, 1990, p. 6.

28 A. Floriani, Il comprensorio pontino dalle origini alla bonifica integrale, in M. Pallottini (a cura di), Il territorio

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corrispondenza dei quali vi erano delle piscine. Tra la duna quaternaria e la nuova costa si è formato un bacino pianeggiante, due metri al di sotto del livello del mare che, incapace di smaltire l’acqua piovana, ha portato alla formazione di stagni, pozze e paludi. In questa fascia si è sviluppata una estesa macchia (i toponimi la identificano come Macchia di Cisterna e Macchia di Terracina), composta di olmi, ontani e, su dune e tomboli, cespugli di ginestra e di ginepro, siepi di canna comune, tamerici e pini marittimi. Senza dimenticare le estese sugherete che un tempo coprivano gran parte dei terreni della palude: di questi boschi, quasi completamente distrutti dalla bonifica fascista, rimangono esemplari isolati di grandi dimensioni o piccoli gruppi, sia alle pendici dei Lepini sia nella Valle dell’Amaseno29. Con l’espressione “Paludi pontine” quindi si indicava sostanzialmente quel territorio subito sopra le macchie: l’area compresa tra il corso del fiume Antico/fiume Sisto (limite inferiore), i campi setini a nordest e i campi di Piperno e la città di Terracina a sudest (limiti superiori).

Il paesaggio dell’agro pontino tra medioevo ed età moderna si presentava come un vasto e differenziato susseguirsi di molte paludi, estese dalle pendici dei monti e dall’altezza di Ninfa fino a quella di Terracina, intervallate da alcuni «campi» che, sottoposti alle varie comunità di Sermoneta, Sezze, Priverno e Terracina erano alternativamente o coltivati o allagati, a seconda delle condizioni idrologiche e politiche. Lo scavo di fossati, l’arginatura e la rettifica degli alvei diventavano concause di processi naturali, come le esondazioni, che cambiando «la naturale funzione idraulica da linee d’impluvio in linee d’espluvio costituivano il primo segno della trasformazione»30

. A questi interventi avrebbe dovuto far seguito un secondo momento di convogliamento al mare delle acque canalizzate: l’assenza di questo passaggio determinò la permanenza dello stato paludoso. Pur soggetto a questi continui lievi mutamenti, infatti, l’ambiente paludoso conservò senza sostanziali modifiche la sua estensione, contrastando con la naturale evoluzione che, secondo gli studi di Susanna Passigli, avrebbe condotto verso una graduale colmata.

Le paludi pontine sono sempre state oggetto del più vario interesse: dall’epoca romana fino ai giorni nostri poeti, scrittori, viaggiatori oltre ovviamente ad architetti, ingegneri, periti e funzionari dello Stato pontificio e italiano hanno attraversato questa pianura chi per restituircene descrizioni suggestive chi per elaborare piani di bonifica. Sconfinata è la bibliografia sulle paludi, che comprende le forme letterarie più disparate: saggi e studi di vario genere (geologico, archeologico, geografico, storico, urbanistico, ambientale), ma anche descrizioni, poesie e, in tempi recentissimi, persino romanzi31. Non ho qui la pretesa di fornirne una rassegna completa: tralascio volutamente il richiamo delle fonti antiche (Orazio, Virgilio, Tito Livio, Plinio il Vecchio) per una questione di razionalità cronologica e, per lo stesso principio, anche le fonti di epoca fascista e successive. Rimangono comunque moltissime relazioni di viaggi e descrizioni delle paludi per l’arco cronologico di nostro interesse (XVI-XVIII secolo): anche tra queste ho dovuto operare una selezione, prediligendo in questa prima parte le descrizioni dei viaggiatori o le “guide” turistiche, riservando alle relazioni tecniche di ingegneri e periti uno spazio separato nel capitolo sulle bonifiche.

Il geografo (e inquisitore32) Leandro Alberti33 nel 1550 descriveva la palude pontina, sulla scia degli autori antichi, «tanto larga (...) che vi furono già 24 città» di piccole dimensioni. Qui si trovavano i

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G. Amori, L. Corsetti, C. Esposito, Mammiferi dei Monti Lepini, in «Quaderni di Conservazione della Natura», n. 11, Ministero dell’Ambiente – Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, Roma, 2002, p. 15.

30 S. Passigli, Ambiente umido e componenti umane nel territorio pontino alla vigilia dei progetti di Pio VI (secoli XIII-

XV). Recupero e revisione delle problematiche per una rilettura della storia della bonifica, in G. Rocci (a cura di), Pio VI, cit, pp. 385-393, p. 392.

31 Mi riferisco ad A. Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, 2010.

32 A. Prosperi, Leandro Alberti inquisitore di Bologna e storico dell’Italia, in Descrittione di tutta Italia [...] aggiuntavi

la Descrittione di tutte l’isole all’Italia appartenenti, riproduzione anastatica Leading edizioni, Bergamo, 2003 (prima

edizione 1550), vol. I, pp. 7-26.

33 A. L. Redigonda, Dizionario Biografico degli Italiani (DBI), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, vol. 1 (1960), pp. 699-702.

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tanto fertili Campi pometini («molto larghi et belli appresso il Mare») divenuti paludosi «per l’acque, che quivi da ogni lato, sì come ad una conca passavano per la sua bassezza, non essendo chi ne havesse cura di farle sboccar nel Mare». Alberti – ed è un fatto notevole, se si considera che fino alla dimostrazione della perizia Sani (1759) molti studiosi delle paludi sostennero il contrario – identificava la responsabilità dell’impaludamento, oltre che nei fiumi, nella presenza di «grandi sorgive d’acque, che escono dalle radici de i circostanti monti, et quivi si fermano, essendo otturati gli antichi Vadi, per li quali soleano uscire, e passare al mare»34.

Andreas Schott, nel 1622, riportava l’itinerario percorso nel suo viaggio verso Napoli da tale Ercole

Prodicio: essendo la via Appia «hora totalmente impedita dalle acque della [sic] paludi, e dalle

rovine de’ ponti, e de gli casamenti» era stato costretto a «pigliare il viaggio lungo» ovvero a percorrere la strada montuosa lungo la catena dei Volsci, per raggiungere Terracina. La strada lasciava a sinistra Sezze, famosa all’epoca per i vini pregiati, e arrivava nei pressi del sito dell’antica Priverno dove si trovavano i ruderi delle mura distrutte in epoca tardo antica. Si arrivava così sul promontorio intorno al quale scorreva il fiume Amaseno e sul quale era stata rifondata la città, col nome di Piperno. Da qui si vedevano già il litorale e il Circeo: «ti si parano avanti gli occhi, quantunque un poco da lontano, li lidi del Mar Mediterraneo, et alcuni Promontorii, che paiono come staccati da terra ferma, già pieni di famosi castelli, et hora poco meno che affatto abbandonati». Il Promontorio del Circeo, ricordato principalmente come “casa” della maga Circe, con tutta la magicità che tale aspetto poteva implicare, era «congiunto a terra ferma co’ gli guazzi, e colle paludi, pieno di selve, e d’alberi»35.

La ricerca delle iscrizioni antiche e il tentativo di collocare topograficamente alcuni monumenti sul territorio pontino incrementarono la produzione di studi e la pubblicazione di scritti, riguardanti soprattutto la storia della via Appia antica. Ma gli autori, che scrivono per lo più tra la metà e la fine del Settecento, non mancavano di descrivere le condizioni in cui versavano quei luoghi:

siamo di già giunti nel forte delle paludi pontine [all’altezza di Mesa], dove le famose memorie della via Appia, non che malamente dall’invidia crudele de’ barbari e dall’ingiurie del tempo distrutte, ma sepolte nell’acque si veggono; abbattute le superbe ville, i nobili monumenti, i vaghi templi, e gli altari, gli alberghi, i ponti ed ogni altro edificio, che l’uno e l’altro lato adornavano: con egual loro disgrazia, che nostra; non essendo a noi permesso il riconoscere tra le acque, e’l fango, e i vepraj neppur le reliquie di tante magnificenze, per tramandare alla posterità le insigni, e gloriose memorie36.

Bastano già questi autori per evidenziare un leitmotiv ricorrente: nella letteratura locale del XVI- XVIII secolo il fenomeno degli abbandoni dei centri abitati e della loro dislocazione è solitamente inscritto in un quadro più complesso, che tende a rintracciare la storia delle origini di ciascuna comunità. Gli abbandoni sono visti in questa letteratura come una rottura dello sviluppo storico che prendeva origine da una antichissima civilizzazione e sempre collegati ad eventi catastrofici37. Un primo elemento di cesura è rappresentato dalla caduta dell’Impero romano, ma decisive risultano le incursioni saracene che avrebbero sconvolto anche l’assetto del territorio. Che le invasioni saracene abbiano fortemente contributo allo spopolamento di città come Terracina è innegabile. Ma è questa stessa storiografia, che ingigantisce le conseguenze delle devastazioni barbare, a riportare la notizia della riedificazione dei villaggi assaltati (Piperno) non più in pianura ma su un promontorio circostante. La sparizione sembra essere definitiva solo in alcuni casi: è però indubbio che, se veramente sono esistiti ventiquattro centri abitati in un agro pontino bonificato, ben poco ne è

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F. L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, Bologna, 1550, p. 122.

35 F. Schott, Terza parte dell’Itinerario d’Italia, viaggio da Roma à Napoli, da Napoli à Pozzuolo, e ritorno à Tiuoli in

Itinerario overo Nova Descrittione de’ Viaggi principali d’Italia, In Venetia appresso Francesco Bolzetta libraro in

Padoua, 1610, p. 3v.

36 F. M. Pratilli, Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi libri quattro, per Giovanni di Simone, Napoli, 1745, p. 99.

37 C. Klapisch-Zuber, Villaggi abbandonati ed emigrazioni interne, in Storia d’Italia, vol. V, I Documenti, Einaudi, Torino,1973, I, pp. 311-364.

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rimasto. Quello dell’arretramento dei villaggi verso le aree interne è un processo comune a molte regioni centro-meridionali, connesso alla diffusione della malaria lungo i litorali e alla incapacità di regolare un’orografia complessa: l’arroccamento delle comunità e il loro trasferimento dalla pianura alla montagna comportò inoltre modificazioni profonde nelle attività agricole e nei modi di vita38. La conformazione geografica di questa zona ha da sempre condizionato in modo decisivo l’insediamento umano: gli abitati più consistenti si svilupparono sulle alture che orlano la regione (dove cioè le zanzare anofele non arrivavano) e in prossimità dei transiti verso l’esterno. Sul mare si stabilirono insediamenti assai radi in corrispondenza dei promontori mentre nella pianura non si formò nessun centro urbano consistente, dato che la presenza umana era strettamente condizionata dalla capacità di controllare le acque. La Via Appia, aperta alla fine del IV secolo a. C., non venne concepita al servizio dell’insediamento preesistente, ma per assicurare un collegamento rapido e comodo tra Roma e Terracina, porta della Campania alternativa a Ceprano. Questa caratteristica si ritorse contro la vitalità stessa della strada: è significativo che nessuna delle stazioni di posta o dei fori che vennero istituiti su di essa si sviluppasse fino a diventare città.

Anche un attento osservatore come Giovanni Botero non mancò di esprimere alcune riflessioni sulle paludi pontine nelle Relationi universali (1595). Botero, riportando la tradizionale divisione tra

Latium vetus e Latium novum (il primo esteso tra la foce del Tevere e il monte Circeo, il secondo

compreso tra il Circeo e il Garigliano), ricordava rapidamente che tale regione aveva «la parte della marina mal sana, e di aria quasi pestilente. Fu già paese habitatissimo, e pieno di ampie e d’illustri città, che perderono la loro grandezza, prima per la vicinanza di Roma, e poi per l’incursioni e per l’innondationi de’ Barbari»39. È interessante la mancanza di qualsiasi cenno alle paludi, anche qui come in Alberti si fa riferimento a un passato più popoloso, con «ampie e illustri città».

Suggestive sono anche le descrizioni letterarie dei viaggiatori sette - ottocenteschi, che durante il

Gran Tour attraversavano in parte le paludi diretti verso Napoli. Molto nota la definizione delle

paludi data da Goethe: «le Paludi Pontine sono l’angolo più selvaggio e affascinante d’Europa» pur consapevole che altro non fosse se non un pestilento stagno. Madame de Staël invece riportò le sue impressioni all’interno del romanzo Corinna, ossia l’Italia, con l’artificio di far passare i protagonisti (Oswaldo e Corinna) in diligenza per la pianura:

Oswaldo e Corinna attraversarono quindi le Paludi Pontine, campagna fertile e pestilente contemporaneamente, in cui non si scorge una sola abitazione, benché la natura vi comparisca feconda. Uomini malati attaccano i vostri cavalli e vi raccomandano di non addormentarvi nel passare le paludi, perché il sonno colà è il vero precursore della morte. Bufali di fisionomia insieme ignobile e feroce trascinano l’aratro, che imprudenti coltivatori conducono qualche volta su quel terreno fatale, e il sole il più brillante illumina questo tristo spettacolo40.

Più in generale, è da sottolineare come in tutte le fonti qui citate l’agro pontino appaia come una landa desolata, deserta, totalmente disabitata. E sicuramente tra Settecento e Ottocento la pianura doveva presentarsi in questo modo, sebbene vi fossero state nei secoli precedenti forme di sfruttamento di tale territorio, oltre che vari tentativi di migliorarlo.