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Le comunità locali: alcune considerazioni generali

5. La “vulgata” della bonifica

1.3. Le comunità locali: alcune considerazioni generali

Le comunità degli antichi Stati italiani non vanno considerate semplicemente come enti amministrativi, antesignani degli odierni comuni italiani41. Esse costituivano una forma di

38 M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Guida Editori, Napoli, 1988, p. 23.

39 G. Botero, Le relationi universali, cit, p. 42.

40 M.me de Staël, Corinna ossia l’Italia, per Giuseppe Antonelli, Venezia, 1820 (1810), p. 76. 41 F. Calasso, Comune [storia], in Enciclopedia del diritto, vol. VIII, Milano, 1961, pp. 169-177.

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aggregazione politica, percepita come anteriore al potere sovrano, attraverso la quale si esprimevano poteri radicati sul territorio sin dall’epoca comunale42. Per tutta l’età moderna la rete amministrativa centrale si sovrappose a queste realtà di base, condizionandole sicuramente ma senza sostituirsi ad esse (tranne in qualche raro caso). Le comunità locali continuarono, infatti, ad esercitare alcune fondamentali prerogative come la ripartizione delle imposte, le vertenze giudiziarie (almeno in primo grado), la realizzazione di lavori pubblici43.

Le comunità erano dei corpi dotati di personalità giuridica e si dividevano in due categorie: quelle

immediatae subiectae cioè soggette esclusivamente alle autorità degli organi centrali romani e

quelle mediatae subiectae, dipendenti invece da una comunità dominante o, soprattutto in area laziale, da un potere feudale. Da fine Cinquecento, infatti, il “feudalesimo pontificio” riguardò esclusivamente il Lazio, dove permanevano alcuni grandi complessi feudali, come i ducati di Bracciano, Castro e Sermoneta, caratterizzati da notevole autonomia politica. Ma se si eccettuano gran parte della Sabina e alcune porzioni della Campagna e Marittima, l’intera periferia pontificia si identificava con le comunità immediate e con i contadi di queste, sulle quali le autorità pontificie esercitavano il proprio dominio temporale. Ed è specialmente nell’ambito del governo politico ed economico della periferia che si può individuare l’azione strettamente temporale dello Stato pontificio tra XV e XVIII secolo. Malgrado la progressiva clericalizzazione del personale destinato alla guida degli uffici centrali e degli stessi governatori di provincia, le sfere dello spirituale e del

temporale, spesso commiste, si presentano in questo campo nettamente separate. I cardinali legati, i

governatori o rettori saranno sempre distinti dal vescovo o dall’arcivescovo cittadino: pur appartenendo anch’essi al ceto ecclesiastico, i legati detenevano esclusivamente il governo politico. Sebbene il territorio della Campagna e Marittima fosse in parte infeudato alle famiglie Colonna (ducato di Paliano) e Caetani (ducato di Sermoneta), tuttavia perduravano sul territorio alcune comunità autonome, assoggettate direttamente al potere papale. È il caso di Anagni, Frosinone, Ferentino, Sezze, Veroli e Piperno: che mantengono un loro governo, seppur su indicazione o vaglio pontifici. A parte, i casi di Velletri e Terracina, che godevano di un’autonomia puramente formale ed erano sottoposte a “governi separati” affidati rispettivamente al cardinal decano e al tesoriere generale della Camera apostolica. Già nel Cinquecento si manifesta dunque la tendenza a recuperare al dominio diretto della Santa Sede alcuni territori di periferia (altri casi noti sono Fano e Senigallia nelle Marche)44.

Questa tendenza è imputabile alla debolezza generale della costruzione del dominio pontificio, che avrebbe spinto i pontefici ad accentuare il processo di accentramento. La frantumazione della periferia in una miriade di governi separati era il risultato di un processo storico che aveva visto il governo pontificio, all’epoca dell’esilio avignonese e del Grande Scisma, estremamente debole nelle aree periferiche, dove liberi comuni e signorie detenevano il potere (XIII-XIV secolo). Nel corso di questi due secoli e per quasi tutta la prima metà del Quattrocento al papato era sfuggito quasi completamente il governo delle periferie, pur mantenendo un certo controllo su Roma ed alcune province (Lazio, Marittima e Campagna). Dalla metà del XV secolo, superato lo scisma e la contestazione conciliare, il governo pontificio aveva recuperato il proprio controllo su Marca, Umbria, Patrimonio e Romagna attraverso una serie di patteggiamenti con le élites locali. Ma proprio questa natura “pattizia” del potere pontificio, che non poteva prescindere dal consenso dei governati, aveva finito per favorire la frammentazione: difficilmente all’interno di una provincia una città riusciva a imporsi sulle altre come “capoluogo”. Come la lotta tra Viterbo e Orvieto nel Patrimonio, così quella tra Anagni e Frosinone in Campagna e Marittima aveva spaccato l’unità della provincia. Frosinone venne prescelta come sede del rettore della provincia solo nel 1589, mentre Anagni mantenne il suo governo separato.

42 G. Tocci, Le comunità in età moderna. Problemi storiografici e prospettive di ricerca, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997.

43 A. De Benedictis, Patrizi e comunità. Il governo del contado bolognese nel Settecento, il Mulino, Bologna, 1984. 44 B. G. Zenobi, Dai governi larghi all’assetto patriziale. Istituzioni e organizzazioni del potere nelle città minori della

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Nel corso del Cinquecento, al riassetto dell’apparato politico dello Stato ecclesiastico, corrispose un’analoga stabilizzazione degli assetti economici e sociali delle comunità. Il variegato mondo delle comunità pontificie – dalle grandi città di Bologna o Perugia ai piccoli centri di poche centinaia di abitanti – assumeva così una configurazione che avrebbe mantenuto per tutta l’età moderna45. Sembra fondamentale, per meglio delineare il quadro contestuale, approfondire la storia di quelle città che ruotavano attorno alla palude, e per posizione geografica e per interessi diretti su quel territorio. Un’analisi delle comunità che sia attenta alle funzioni politiche ed economiche da esse svolte induce a rivedere quell’immagine, spesso distorta, che la tradizione storiografica ha di esse tramandato. Le caratteristiche dell’urbanizzazione dello Stato della Chiesa erano infatti assai peculiari. Nei domini pontifici furono rari i centri urbani di dimensione paragonabile alle città lombarde o venete. Soprattutto nel Lazio, il fenomeno urbano aveva conosciuto uno sviluppo modesto, come è testimoniato anche dalla distrettuazione diocesana, estremamente frammentata46. Nel 1656 le sole grandi città dello Stato pontificio, che superassero cioè i 15.000 abitanti, erano Roma, Bologna, Ferrara e Perugia47. Nella Marca e in Umbria esistevano diverse città di medie dimensioni, tra i dieci mila e i sei mila abitanti: Spoleto, Narni, Terni, Città di Castello. Nelle province del Lazio, invece, il fenomeno di urbanizzazione era stato relativamente moderato, visto che le città superiori ai 5.000 abitanti non erano numerose: Viterbo e Orvieto nel Patrimonio, Velletri e Alatri nella Campagna e Marittima48. Questi centri condividevano un’economia a base agricolo-pastorale e una indebolita identità politica – rispetto all’epoca medievale, come si vedrà – che permetteva alle autorità romane di scegliere i governatori locali e, d’altro canto, conduceva i ceti dirigenti locali a gravitare su Roma. Anche un centro importante come Viterbo (12.236 abitanti) non riuscì a imporsi come polo di aggregazione per le comunità circostanti, spesso infeudate o restie a subire la supremazia di una città che non fosse Roma.

Nel Lazio meridionale un ruolo rilevante fu quello di Velletri, città agricola circondata da comunità feudali di rilevanti funzioni demografiche e dotate di alcune funzioni urbane. Gli altri centri della regione, pur avendo dimensioni demografiche ridotte (tra i 3.000 e i 5.000 abitanti), avevano funzioni urbane (erano sedi di governatori o della diocesi) ed erano governate da un ceto dirigente capace di uscire da un ambito locale. Il mondo delle comunità pontificie era dunque un mondo di piccoli e medi centri urbani, che frammentavano lo spazio politico-giurisdizionale dello Stato e si ponevano come naturale controparte del papato, pur rimanendo a questo soggette.

Rispetto alle province di Patrimonio e Sabina, la Campagna e Marittima poteva vantare numerose piccole città “libere” su un territorio quasi completamente infeudato (feudo di Paliano e feudo di Sermoneta): Anagni (3.360 abitanti), Cori (4.530), Ferentino (2.345), Frosinone (1885), Piperno (3.740), Sezze (3.837), Terracina (1395) e Veroli (3.916)49. C’è da dire, però, che i dati del 1656 non sono pienamente significativi della reale consistenza demografica, soprattutto per quanto riguarda le aree meridionali del Lazio: si tratta infatti di località vicine al Regno di Napoli o sulle vie di comunicazione verso di esso, che furono perciò maggiormente esposte al contagio della peste di quegli anni. Un quadro più completo si può avere considerando, in media, i dati relativi agli anni precedenti e successivi, facendo riferimento alle stime di Beloch per i quattro anni 1503, 1656, 1701 e 170850. Se i valori di Anagni (3.208), Cori (4.614), Ferentino (2.464), Piperno (3.747) e Terracina (1690) non si discostano molto dal dato del 1656, superiore risulta invece la consistenza demografica di Frosinone (2.464), Sezze (4.619) e Veroli (5.069). Si trattava di un insieme piuttosto eterogeneo, talora cittadine in crescita, spesso centri che avevano subìto, tra tardo medioevo e prima età moderna, la subordinazione economica e politica alle famiglie signorili prima e al papato poi,

45 S. Tabacchi, Il Buon Governo. Le finanze locali nello Stato della Chiesa (secc. XVI-XVIII), Viella, Roma, 2007. 46 A. Gardi, La distrettuazione diocesana dello Stato Pontificio in età moderna, in G. Biagioli (a cura di), Ricerche di

storia moderna IV. In onore di Mario Mirri, Pisa, 1995, pp. 483-504.

47 K.J. Beloch, Storia della popolazione italiana, Le Lettere, Firenze, 1994 (1961). 48 F. Corridore, La popolazione dello Stato romano (1656-1901), Loescher, Roma, 1906. 49 S. Tabacchi, Il Buon Governo, cit, p. 92.

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perdendo la capacità di organizzare il territorio. Nella parte della Campagna e Marittima più prossima alle paludi pontine, le comunità avevano quindi dimensioni demografiche non trascurabili e una situazione finanziaria abbastanza solida, in virtù della buona disponibilità di beni comuni. Sebbene alcune di queste comunità erano dominate da un notabilato capace di sottrarsi al pagamento delle imposte camerali e di imporre tasse superiori al fabbisogno51.

Alla base della piramide c’erano infine le comunità rurali: diversificate tra loro dalla posizione, dalle coltivazioni e dalle dimensioni demografiche. Il variegato mondo delle comunità rurali non si presta a facili generalizzazioni, ma si può osservare che nello Stato della Chiesa il controllo esercitato dai centri maggiori sulle piccole comunità rurali fu più debole di quanto non avvenisse nell’area padana. Nel Lazio, come nell’Umbria e nella Marca, le condizioni del territorio e le vicende politiche non avevano consentito la creazione di contadi paragonabili a quelli delle città lombarde o venete52. La maggiore autonomia delle piccole comunità non fu però, necessariamente, un riflesso di un’economia dinamica: anzi, alcune delle comunità prese in esame subiranno sul finire del Cinquecento processi di forte crisi – demografica ed economica – che contribuiranno a destrutturare il tessuto comunitativo (Terracina).

Sezze

Il centro abitato si trova a un’altitudine di 319 metri, ma il territorio setino si estendeva anche al di sotto della zona montana, nella pianura pontina. In età medievale l’area di sua appartenenza raggiunse la massima estensione, ma nei secoli successivi (XVI-XVIII) Sezze fu costretta a vendere molte delle sue proprietà ai Caetani e ai privati per risanare il dissestato bilancio comunale.

La zona montana appartenente a Sezze comprende la porzione occidentale dei monti Lepini, nel suo lato più frastagliato (Colle di Mezzo e Monte Nero le maggiori elevazioni). Una seconda serie di alture, che separa nettamente Sezze da Bassiano, si estende verso la pianura dove dominano il Monte Acquapuzza e il Monte della Bufala53. La rete idrografica superficiale era relativamente scarsa, costituita in gran parte da fiumiciattoli di modesta portata, mentre molto più rilevante per le conseguenze sulla pianura sottostante, era l’idrologia sotterranea. La conformazione calcarea del suolo permetteva all’acqua piovana di penetrare e scorrere sottoterra per lunghi tratti fino a risalire in superficie, in grandi quantità, tra il margine pontino e la valle Latina (valle che si estende sul versante orientale dei monti Lepini, in provincia di Frosinone)54. L’acqua scaturiva lungo il tratto meridionale della Pianura pontina andando a comporre non solo le molte sorgenti tra Ninfa e Terracina ma anche polle e laghetti, uno dei tanti ostacoli al drenaggio delle paludi55.

Ancora nel Catasto piano56 (1781) si rispettava la distinzione tra Campo superiore, Agro inferiore e Palude: quest’ultima risultava avere una superficie pressoché uguale alla somma delle prime due. Il Campo superiore corrisponde tuttora alla zona collinare e montuosa caratterizzata da altopiani e vallate, che raggiunge le creste dei monti Lepini, toccando i territori di Roccagorga, Maenza e Bassiano. Nelle aree di maggiore altitudine si incontravano boschi di faggi, lecci e prati naturali, mentre scendendo verso le zone abitate predominava la macchia di querce e cerri. In questa zona si trovavano anche castagneti57. La fascia collinare, estesa lungo il versante orientale ai margini tra

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È il caso di Cisterna, Cori e Sermoneta, cfr. S. Tabacchi, Il Buon Governo, cit, p. 369. 52 R. Volpi, Le regioni introvabili, cit, pp. 62-63.

53 P. G. Sottoriva, L. Zaccheo (a cura di), I Monti Lepini. Ambienti, storie, immagini, Priverno: XIII Comunità Montana dei Monti Lepini, 1994.

54 R. Almagià, Lazio, cit, p. 65.

55 G. Morandini, I monti Lepini. Studio antropogeografico, TEMI, Trento, 1947, p. 39.

56 La compilazione del catasto di tutto lo Stato pontificio fu ordinata nel dicembre del 1777 da papa Pio VI, ma si protrasse per molti anni, incontrando enormi ostacoli e ricorsi da parte dei proprietari. Cfr. A.M. Girelli, La genesi del

primo catasto generale dello Stato pontificio, Università degli studi di Roma La Sapienza, Roma, 1988.

57 Nello statuto cinquecentesco di Sezze viene nominata una castaneta «in cone Susi», cfr. Archivio di Stato di Roma (ASR), Statuti, n. 538, (Sezze), p. 137.

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centri abitati e incolto, era riservata alle vigne. Nell’agro inferiore, compreso tra la fascia collinare e la palude, si coltivavano la vite e i grani invernali. In tutta quest’area si trovavano campi seminativi sparsi, nonostante questa parte fosse ricoperta da acquitrini per diversi mesi l’anno. Anche nella fascia paludosa, in seguito ai diboscamenti, molti appezzamenti venivano coltivati in una parte dell’anno. In quest’area la vegetazione era costituita principalmente da selve e canneti.

I confini settentrionali generarono molto raramente dei conflitti, come testimonia l’assenza di controversie con i comuni montani di Roccagorga, Maenza e Carpineto: le aree limitrofe a questi comuni si trovavano infatti in zone di scarso interesse economico, poste come erano sul crinale di monti brulli. Al contrario, infinite furono le liti nella zona piana con quelle comunità che vantavano possedimenti in pianura: Terracina, Trevi, Priverno e ovviamente Sermoneta, Bassiano e San Donato. Con queste località Sezze stipulò a partire dal Duecento diversi patti, che saranno rinnovati o modificati nel corso dei secoli successivi.

In età medievale il confine di Sezze con Terracina correva lungo due assi: sull’asse est-ovest, il limite partiva dal mare e seguendo il percorso del fiume Martino si snodava attraverso la macchia palustre, raggiungendo la via Appia. In epoca moderna, con l’affermarsi della signoria Caetani, il rio Martino divenne il confine meridionale tra il feudo e Terracina, mentre il rio Nocchia delimitava i laghi litoranei, anch’essi inclusi nel feudo. Il confine sulla direttrice nord-sud, invece, rimase più o meno lo stesso nel corso dei secoli: era segnalato dalla Chiesa della Trinità di Mesa lungo la via Appia e arrivava fino a un pantano chiamato Forcellata. In epoca medievale, l’area compresa tra il Rio Nocchia e il Rio Martino e l’area intorno a Mesa e alla Forcellata erano d’uso comune tra la popolazione setina e quella terracinese, che qui potevano far legna e cacciare58. Aree in comune che con il passare dei secoli andarono drasticamente diminuendo, soprattutto a causa delle molte vendite o degli affitti cui i comuni erano costretti per saldare i propri debiti. Il territorio di Sezze comprendeva dunque tutta l’area sulla sponda sinistra del fiume Cavata (guardando Terracina) e terminava alla cosiddetta «fossella dell’Arsiccio» al di là della quale iniziava il territorio terracinese.

La carta dell’ingegner Serafino Salvati riportata nell’opera di Nicola Maria Nicolai, che ritrae la condizione delle paludi pontine prima della bonifica del 1777, ben esemplifica la questione dei confini: i limiti tra i territori raramente seguono direttrici lineari, nel migliore dei casi corrispondono a corsi d’acqua o a punti di riferimento chiaramente distinguibili (torri, chiese, ruderi). Le lunghe liti tra le varie comunità stabilirono delle spartizioni rigide che spesso non si adattarono ai cambiamenti connaturati a un territorio come quello paludoso: si pensi alla tenuta della Formicosa, appartenente a Sezze poiché al di sopra dell’antico confine naturale, il fiume Antico, venne poi a trovarsi al di là del nuovo confine, il fiume Sisto. Il fiume Antico, ormai completamente interrato, era stato “sostituito” anche nelle funzioni di confine naturale dal fiume Sisto, aperto artificialmente all’epoca della bonifica sistina, ma Sezze aveva mantenuto il suo possedimento anche se al di là del confine stabilito.

43 Figura 3. ASR, Collezione Disegni e Piante, Cart. 116, n. 24, “Terracina - Territorio comunale”, Carta esprimente lo Stato paludoso dell’Agro Pontino come fu trovato nella Visita dell’Anno 1777 prima che si mettesse mano alla Bonificatione che fu quindi eseguita, stampata nel 179559.

I confini con i territori di Sermoneta, Bassiano e San Donato vennero stabiliti ufficialmente nel 1299 con la famiglia Caetani, che nel frattempo si stava impadronendo di vaste aree nelle province di Marittima e nella contea di Fondi. Limite naturale tra il territorio setino e quello sermonetano era da sempre il fiume Cavata: il confine partiva dalla torre Petrata, proseguiva lungo il corso del fiume fino alla peschiera di Marittima. Qui il confine era indicato dal corso del fiume Antico: le terre verso il mare erano di San Donato, mentre le aree ad ovest del fiume, verso i monti, spettavano a Sezze. Con questa separazione, però, alcuni beni di privati e del Capitolo di Santa Maria di Sezze vennero arbitrariamente inclusi tra i possessi Caetani: ne seguirono altre liti, risolte nel 1305 con un nuovo atto in cui si sanciva il ritorno dei beni ai legittimi proprietari. Nei secoli successivi la linea di demarcazione tra Sezze e Sermoneta rimarrà la stessa: simboleggiata dal fiume Cavata fino alla peschiera di Marittima, dal fiume Antico-Sisto fino all’innesto del rio Martino e da questo fiume fino ai laghi. I confini con Piperno seguivano il corso del fiume Ufente/Portatore, ma non erano mancate controversie anche con questa comunità. Nel 1275, infatti, le due cittadine avevano stipulato un accordo in cui sarebbero stati d’uso comune tutti i pascoli, le selve, i pantani e le paludi della Marittima comprese tra la porta principale di Sezze e quella di Piperno. Patto che venne rispettato solo per un paio d’anni e che portò al riaccendersi delle liti. I confini vennero stabiliti con sentenza nel 1396.

Con un atto del 1279 il Comune procedé al riassetto amministrativo del centro urbano, diviso in sei rioni denominati decarcie, che contavano un totale di 996 case: si può dunque ipotizzare una popolazione di circa 4000 abitanti, senza contare chi viveva stabilmente in campagna e gli

59 In nero con linea continua ho evidenziato i confini del territorio setino; in blu, con linea puntinata, i confini di Terracina; con tratteggio verde i limiti del ducato di Sermoneta.

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ecclesiastici (almeno un altro centinaio di persone). Questo è l’unico dato demografico per i secoli XIII e XIV: non ci sono altri elementi, infatti, che permettano di quantificare l’andamento demografico anche se, in linea con le comunità vicine, si può supporre un contenuto incremento almeno fino al 1348 (ma non è possibile stabilire quanto abbia inciso la peste nera)60.

Le liste del sale e del focatico del 1416, in cui Sezze risultava tassata per sole 30 rubbia, farebbero pensare a un calo della popolazione a mille unità: in realtà, Sezze era esente dal pagamento della tassa (almeno dal 1360) e dunque la cifra segnata sarebbe una ripetizione meccanica dell’importo ipotetico risalente a un secolo prima61. I registri della distribuzione effettiva del sale testimoniano che a metà Quattrocento Sezze consumava 165 rubbia di sale e da questa cifra è stata calcolata una popolazione complessiva di 3.300 persone62. Nel primo catasto cittadino del 1520 vengono nominati i capifamiglia, che risultano essere in tutto 773: se ne desume una popolazione di 3100 persone circa, alle quali andrebbero aggiunti nullatenenti e chierici, il cui peso è però difficile da stimare63.

Nel Medioevo la struttura sociale si articolava intorno a due classi sociali: i milites e i pedites64. I

milites erano il ceto eminente: i nomi dei suoi rappresentanti erano sempre preceduti

dall’appellativo dominus ed erano i possidenti locali. Ma la distinzione tra le due classi sembra relegata agli atti ufficiali, e in particolare ai cittadini che ricoprivano cariche nel Comune. Al gruppo dei pedites apparteneva la gran parte della popolazione, dedita all’agricoltura, alla caccia e alla pesca organizzate, oltre che all’artigianato e al commercio. Pochi erano i pedites proprietari di terreni agricoli: appezzamenti così piccoli da non garantire l’autosufficienza. Veri e propri proprietari terrieri erano invece i massari, che detenevano appezzamenti di piccola e media grandezza e, pur essendo pedites a tutti gli effetti, godevano di maggiore considerazione e di qualche privilegio. Saranno proprio i massari, nel 1332, a trattare le condizioni di pace con i