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5. La “vulgata” della bonifica

1.4. Sermoneta e i Caetani

Bisogna ricordare il legame particolare che, soprattutto nell’età medievale, il papato ebbe con i comuni della provincia di Campagna e Marittima: quest’area costituì il primo nucleo di sperimentazione del potere temporale e fu la roccaforte del potere pontificio quando si scontrava con l’Impero, con il comune di Roma o con i sovrani normanni e svevi. Spesso, i conflitti tra papato e impero trovavano qui un risvolto locale, nelle contrapposizioni partigiane tra comunità fedeli all’uno o all’altro potere. Come per altri comuni del Lazio meridionale, l’affermazione stabile del podestà si verificò più tardi rispetto ad altre realtà dello Stato della Chiesa: per lungo tempo, i podestà provennero per lo più da Roma e furono incaricati su nomina pontificia. La storiografia è concorde nel sottolineare il ruolo svolto dal regime podestarile nella crescita degli organismi di popolo120. Il forte condizionamento che lo Stato della Chiesa esercitava su questi comuni per la nomina dei podestà ha avuto quindi l’effetto di frenare lo sviluppo istituzionale ritardando l’affermazione di comuni popolari, basati su un’assemblea cittadina121

.

Un gruppo di comunità radicalmente differente dagli altri centri era quello delle comunità infeudate. La natura dei rapporti tra comunità soggette e signori feudali nello Stato della Chiesa fu molto varia, e condizionata da fattori come gli Statuti, le privative, la scelta dell’affitto o della conduzione diretta da parte del barone, il carattere più o meno urbano della comunità. Come già detto, a fine Cinquecento il “feudalesimo pontificio” perdurava essenzialmente nel Lazio, dove si trovavano alcuni grandi complessi feudali (ad esempio il ducato di Bracciano o quello di Castro), con notevoli prerogative politiche. I feudi del Lazio erano generalmente caratterizzati da una forte presa di potere del signore sulle comunità: anche in età moderna, il signore feudale manteneva il dominio eminente su tutte le terre del feudo, mentre gli abitanti rimanevano dei semplici “utilisti”122. Tuttavia, i

120 Ead., Marittima medievale, cit, p. 277.

121 C. Carbonetti Vendittelli, Per un contributo alla storia del documento comunale nel Lazio dei secoli XII e XIII, in «MEFRM», 101/1 (1989), pp. 95-132.

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feudatari laziali non erano proprietari assenteisti, bensì un ceto capace di difendere e ampliare il proprio ruolo sociale ed economico. L’acquisto o il mantenimento di un feudo erano operazioni in cui si mescolavano motivazioni economiche, ma anche ideologiche e culturali. Mantenere un feudo, anche quando una condizione economica disastrosa avrebbe suggerito la sua vendita123, voleva dire mantenere l’esercizio della giurisdizione, strumento di coercizione nei confronti della popolazione rurale e fonte di onore.

Come è noto, le giurisdizioni baronali non erano uniformemente distribuite sul territorio ecclesiastico, ma erano particolarmente concentrate nell’area gravitante intorno a Roma, e specialmente nelle province di Patrimonio, Sabina, Lazio, Campagna e Marittima. È forse proprio questo aspetto ad accomunare maggiormente queste province nel Cinquecento. L’amministrazione dei governatori provinciali finiva dunque per essere esercitata su zone prive di continuità territoriale, intervallate come erano da più o meno estesi domini feudali. A metà Cinquecento, le giurisdizioni baronali subirono un certo ridimensionamento per importanza politica ed estensione geografica in tutto lo Stato ecclesiastico, ma il fenomeno si concentrò al di fuori dell’ambito laziale. All’epoca di Gregorio XIII, i luoghi prima infeudati recuperati alla Santa Sede nella sola Romagna furono il triplo rispetto a quelli delle province laziali124. La serie di incameramenti e “recupere” da parte del potere pontificio aveva attenuato il controllo feudale sulle aree più ricche e urbanizzate dello Stato. Se all’epoca del pontificato di Martino V (1417-1431) più del 70% della popolazione dello Stato ecclesiastico era sottoposta a dominio feudale, nel 1797 la quota di popolazione “infeudata” si era ridotta al 9,5% del totale, perdendo quasi i 2/3 dell’insieme degli abitanti. La feudalità residua subiva, di converso, un aumento della popolazione soggetta e un arroccamento nelle aree tirreniche: Bandino Zenobi ha definito questo fenomeno “ponentizzazione” della feudalità pontificia. Rilevando, cioè, uno spostamento nella collocazione degli spazi a governo feudale, prima situati sul versante adriatico poi concentratisi, a partire dal 1509 (dopo la vittoria della Lega di Cambrai), nelle aree laziali-sabine. Se prima della data spartiacque oltre il 54% della popolazione infeudata si concentrava sul versante adriatico, dopo il 1509 i valori scendevano a uno scarso 18% mentre sul versante tirrenico si toccava il 40%. A ponente, da valori che nel 1509 risultavano ancora inferiori alla metà delle popolazioni soggette a governo feudale, a metà Cinquecento si arrivò a quote maggioritarie (51%), destinate a salire specialmente nell’intervallo 1631-1649, quando il 76% della popolazione infeudata era in Sabina e Campagna e Marittima. Nel frattempo in area adriatica solo il 2,3% degli abitanti erano sottoposti a modulo feudale. A fine Settecento nel Lazio si trovava un terzo della popolazione ancora infeudata125.

Abbiamo notato prima come siano state in particolare le province situate vicino Roma a subire per più lungo tempo la presenza feudale. Una prima motivazione è di natura squisitamente pratica: il rifornimento annonario della capitale si basava sulle province del Patrimonio, di Campagna e Marittima e spesso anche della Sabina, che insieme costituivano la naturale riserva di grano di Roma. Ma ad ostacolare il processo di de-feudalizzazione contribuì decisamente il ruolo stesso di Roma, considerata tre volte capitale (centro della cattolicità, sede ideale del Sacro Romano Impero e sede reale dello Stato della Chiesa), intorno alla quale gravitavano interessi e ambizioni di molte famiglie nobili126. Il baronato romano-laziale conservava al di fuori di Roma, nei feudi, le proprie aree di sostegno: il ceto nobiliare che rivestiva incarichi di prestigio, o comunque aveva un ruolo eminente sul panorama politico, doveva poter contare su tenute, possedimenti e feudi nel vicino

123

M. A. Visceglia, «Non si ha da equiparare l’utile quando vi fosse l’onore». Scelte economiche e reputazione:

intorno alla vendita dello stato feudale dei Caetani, in Ead. (a cura di), La nobiltà romana in età moderna. Profili istituzionali e pratiche sociali, Carocci, Roma, 2001, pp. 203-223.

124 A. Theiner, Codex diplomaticus, cit, III, p. 547-582.

125 B. G. Zenobi, Le «ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età moderna, Bulzoni, Roma, 1994, p. 219.

126 G. Signorotto, M. A. Visceglia (a cura di), La corte di Roma tra Cinque e Seicento teatro della politica europea, Bulzoni, Roma, 1998.

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Agro romano127. Il possesso di un feudo era, su tutti, fonte di grande onore: al feudatario spettavano l’esercizio della giurisdizione (civile e criminale), quindi il potere di coercizione sulla popolazione e ovviamente parte dei proventi delle attività agricolo-pastorali. Il feudo assicurava non soltanto quel sostegno economico indispensabile per chi volesse fare carriera a Roma ma, in caso di indebitamento, costituiva garanzia di solvibilità. I feudi erano prevalentemente a conduzione dominicale, dunque molto vantaggiosi sotto il profilo economico per i titolari128. Intorno al possesso di un feudo si mescolavano ragioni politiche ed economiche insieme a quelle simboliche e culturali. D’altro canto, spesso per le comunità la soggezione a un signore feudale offriva forme di utilità reciproca. Per gli abitanti di Sermoneta, ad esempio, la presenza signorile aveva significato maggiori tutele dei propri beni nei confronti della vicina comunità di Sezze oppure il riconoscimento di più ampi diritti di sfruttamento, rispetto alle altre comunità infeudate, su pascoli o peschiere. La politica di un feudatario non era necessariamente in contrasto con l’acquisizione di una certa autonomia da parte delle comunità. Nella stessa Sermoneta, gli organi di governo cittadini si erano rafforzati a tal punto da agitare, nel 1623, una vera sollevazione popolare contro i Caetani, costretti poi a modificare lo statuto cittadino129. Al di là del caso specifico, gli studi sembrano smentire l’idea che le comunità infeudate fossero dei soggetti politici deboli, privi di una ben definita identità in conseguenza della soggezione feudale130. Indubbiamente, però, le comunità subivano delle restrizioni ed erano meno autonome rispetto alle comunità immediatae subiectae. Nell’area a sud di Roma, nelle due province pontificie del Lazio e della Campagna e Marittima, la presenza feudale controllava una delle percentuali più alte di territorio e di popolazione e aveva conservato molti diritti e prerogative di natura feudale.

Alberto Caracciolo non condivideva l’idea che la feudalità pontificia fosse «più ricca di titoli che di potere»131, sostenendo al contrario che essa continuò ad esercitare l’alta e la bassa giustizia almeno per tutto il Seicento, nonostante alcune bolle pontificie cercassero di limitare l’infeudamento. Un esempio concreto furono le difficoltà incontrate da parte della congregazione dei Baroni – creata da Clemente VIII nel 1596 per eseguire condanne, e dunque espropri, ai danni dei beni feudali e allodiali dei nobili – nel dare esecuzione alle sentenze. Senza trascurare la lunga controversia giurisdizionale con la congregazione del Buon Governo, alla quale i baroni rifiutavano di riconoscere alcuna competenza sulle proprie comunità, sottraendosi così al pagamento delle tasse camerali. Lo studio dei provvedimenti pontifici che, a partire dalla metà del XVI secolo, avevano cercato di ridimensionare l’autorità dei feudatari (il divieto di nuove infeudazioni nel 1567, l’istituzione della congregazione dei Baroni nel 1596, l’eliminazione del predicato dai titoli nobiliari nel 1679 e infine la sottomissione delle comunità baronali al Buon Governo tra il 1701 e il 1704), aveva proiettato un’immagine distorta e della nobiltà feudale e del papato: la nobiltà appariva privata d’ogni giurisdizione, mentre il papato sembrava concentrato in una lotta senza quartiere contro la così detta “rifeudalizzazione”132

. Il dibattito storiografico degli ultimi anni si è allontanato da questa visione troppo rigida, superando l’impostazione di Caracciolo133 e Zenobi134

127

B. Forclaz, La famille Borghese et ses fiefs. L’autorité négociée dans l’État pontifical d’ancien régime, École française de Rome, Roma, 2006.

128 P. Villani, Ricerche sulla proprietà e sul regime fondiario nel Lazio in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», XII, 1960, pp. 107-139, p. 112.

129

P. Pantanelli, Notizie istoriche della terra di Sormoneta in distretto di Roma, Tipografia del Senato, Roma, 1911, vol. II, p. 49.

130 C. Casanova, Comunità e governo pontificio in Romagna in età moderna, Clueb, Bologna, 1981; B.G. Zenobi, Dai

governi larghi all’assetto patriziale, cit.

131 A. Caracciolo, Da Sisto V a Pio IX in M. Caravale, A. Caracciolo, Lo stato pontificio da Martino V a Pio IX, Utet, Torino, 1978, p. 441.

132 G. Borelli (a cura di), La rifeudalizzazione nei secoli dell'età moderna: mito o problema storiografico?, Atti della terza giornata di studio sugli antichi Stati italiani (1984), numero monografico di «Studi Storici Luigi Simeoni», XXXVI, Verona, 1986.

133 A. Caracciolo, Da Sisto V..., cit, pp. 441-443. 134 B. G. Zenobi, Le ben regolate città, cit, p. 219.

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sull’esistenza di una politica antifeudale nello Stato della Chiesa: «in nessuno Stato italiano d’età moderna furono realizzate politiche dirette a cancellare la presenza feudale»135. Tuttavia, in quasi tutti gli Stati possiamo riconoscere una politica comune volta a sottomettere i rappresentanti più inquieti della feudalità, aumentare gli strumenti di controllo nei confronti delle comunità e favorire lo spezzettamento dei grandi complessi feudali.

Paolo Prodi ha messo in evidenza come la serie di provvedimenti pontifici nei confronti della feudalità non siano che una conferma dell’efficace processo di centralizzazione operato dalla monarchia papale sin dalla metà del XV secolo. Secondo Prodi l’azione politica dei pontefici avrebbe prodotto un graduale svuotamento del potere di giurisdizione dei baroni, costituendo un esempio quasi unico rispetto agli altri Stati italiani136. Irene Fosi ha evidenziato, al contrario, la scarsa efficacia a fine Cinquecento degli interventi della giustizia centrale nelle terre infeudate137. Le giurisdizioni baronali si concentravano nell’area gravitante intorno a Roma (nelle province di Patrimonio, Sabina e soprattutto Lazio, Campagna e Marittima): per questa area gli studi di Pasquale Villani hanno mostrato il peso preponderante rivestito dai baroni nella distribuzione della rendita fondiaria, che costituiva la base principale del loro potere138.

A mio parere, se è indubbio che il potere papale abbia adottato una politica accentratrice, è pur vero che questa dovette scontrarsi con le forti resistenze della nobiltà romana. Il percorso non fu poi lineare, ma segnato da fallimenti e indietreggiamenti, complice anche la natura non ereditaria del potere papale che privava della necessaria continuità le decisioni pontificie. Occorre inoltre rilevare che se dallo studio dei provvedimenti generali si passa a un’analisi più approfondita delle realtà locali e del loro rapporto con l’amministrazione centrale, la capacità di azione del potere pontificio risulta ridimensionata139. Vari studi degli ultimi anni concordano più o meno su uno stesso punto: almeno fino ai primi del Settecento, il barone nel Lazio continuò ad esercitare poteri di signore nel suo feudo, quali l’esercizio della giustizia (almeno in primo grado) e l’immunità fiscale140. Ma come ha rilevato Guido Pescosolido, studiando il patrimonio Borghese, nella seconda metà del XVIII secolo le prerogative giurisdizionali esercitate dalla nobiltà feudale sui vassalli erano ormai fortemente ridimensionate141.

Ad eccezione di quella dei Colonna142, la signoria dei Caetani fu il più vasto complesso feudale a rimanere nelle mani di una famiglia romana la cui nobiltà risaliva all’età medievale. Negli altri feudi, infatti, all’antica aristocrazia si erano via via sostituite le nuove famiglie pontificie oppure il dominio diretto della Chiesa. Il territorio del feudo di Sermoneta era però, in epoca moderna, assai ridimensionato rispetto alla vasta signoria territoriale composta nel Medioevo, grazie soprattutto a Bonifacio VIII, primo papa della famiglia Caetani143.

La cittadina di Sermoneta, situata su uno sperone a 257 metri di altitudine, è circondata sul versante orientale dai monti Lepini, sui quali sorgono i paesi di Ninfa, Norma e Bassiano. Se il lato orientale costituiva la parte montuosa del suo territorio, il versante occidentale, digradante verso la pianura pontina, era collinare e perciò destinato alla coltivazione. Al di sotto della cittadina, il terreno si

135 S. Tabacchi, Il Buon Governo, cit, p. 97. 136 P. Prodi, Il sovrano pontefice, cit. 137

I. Fosi Polverini, Signori e tribunali. Criminalità nobiliare e giustizia pontificia nella Roma del Cinquecento, in

Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di M. A. Visceglia, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 214-30.

138P. Villani, Ricerche sulla proprietà, cit, pp. 107-112.

139 C. Castiglione, Patrons and Adversaries. Nobles and Villagers in Italian Politics, 1640-1760, Oxford University Press, New York and Oxford, 2005.

140 A. M. Girelli, Il problema della feudalità nel Lazio tra XVII e XVIII secolo, in G. Borelli (a cura di) La

rifeudalizzazione..., cit, pp. 29-55.

141 G. Pescosolido, Terra e nobiltà. I Borghese, Secoli XVII-XIX, Jouvence, Roma, 1979, p. 50.

142 S. Raimondo, Il prestigio dei debiti. La struttura patrimoniale dei Colonna di Paliano alla fine del XVI secolo

(1596-1606), estratto da «Archivio della Società romana di Storia Patria», Roma, n. 120 (1997), pp. 65-165.

143 G. Caetani, Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, vol. I.2, Medioevo, Fratelli Stianti, San Casciano Val di Pesa, 1927, pp. 229-266.

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estendeva in pendenza, percorso da molti corsi d’acqua di varia ampiezza: Ninfa, Teppia, Portatore, Cavata, i cui alvei attraversavano terreni di pertinenza delle comunità confinanti. Nei periodi di piena, l’acqua facilmente straripava, inondando e danneggiando i fondi coltivati situati a valle: numerose furono le liti, in epoca medievale e anche in età moderna, con le vicine comunità (in particolare con Sezze). Solitamente i proprietari dei terreni a valle, o comunque con pendenza sfavorevole in caso di esondazione, cercavano di porre un freno agli allagamenti con interventi di arginatura od ostruzioni allo scopo di deviare il corso d’acqua. Sermoneta lamentava la perdita della navigabilità dei propri fiumi, mentre Sezze denunciava la perdita dei raccolti visto che i suoi campi venivano regolarmente inondati144.

Nel XIII secolo Sermoneta era una comunità di piccola estensione, sottoposta a un dominio consortile di signori che preferivano delegare a vassalli le funzioni di controllo e governo. Il dominio consortile era venuto componendosi attraverso una serie di contratti di compravendita con i quali i “cosignori” entravano in possesso non solo del dominio sulla terra, ma dell’esercizio di alcuni diritti giurisdizionali sui vassalli. La documentazione del tempo ha permesso così di stabilire che Sermoneta non fu mai concessa in feudo. Nella seconda metà del secolo, però, la signoria degli Annibaldi assunse sempre più una posizione di dominio su larga parte del Lazio (Tuscia meridionale, Campagna romana, Marittima) e dell’Umbria. La politica territoriale della famiglia si concretizzò nell’acquisizione e nella fondazione di numerosi castra: gran parte della Marittima finì sotto il suo controllo e con essa l’importante sistema viario che la attraversava, tra Roma e Terracina. Nel caso di Sermoneta gli Annibaldi acquistarono la proprietà dell’intero castrum; a Terracina stabilirono una signoria quasi assoluta mentre esercitarono la propria egemonia su Sezze. Quando il dominus di Sermoneta era il cardinale Riccardo Annibaldi, le consuetudini del castrum trovarono una codificazione scritta negli Statuti. Segno questo – ha sostenuto Marco Vendittelli - delle conquiste fin’allora raggiunte dai Sermonetani in termini di erosione dei diritti signorili145. Attraverso alcuni documenti precedenti all’avvento degli Annibaldi, infatti, si è potuta verificare l’esistenza già nel 1262 dei consules dominorum e dei consules massariorum, rappresentanti pro

tempore eletti rispettivamente dai domini e dagli homines castri Sermineti. Tuttavia, con gli statuti

concessi da Annibaldi nel 1271, gli spazi di manovra ed autonomia dei rappresentanti di Sermoneta furono fortemente ridimensionati: i pieni poteri vennero infatti concentrati nelle mani del vicecomes e del castellanus ovvero dei vicari, rappresentanti il dominus, che avevano soltanto l’obbligo formale di giurare fedeltà agli Statuti. Non è chiaro quali compiti spettassero al vicecomes, mentre più definite sono le funzioni del castellanus: oltre a essere governatore della rocca di Sermoneta e dunque capo del presidio militare, aveva l’obbligo di controllare, insieme a sei massari, che entro i confini sermonetani la vendita di merci e prodotti locali (pesce, carne, vino e calzature) rispettasse un prezzo non eccessivo («pro pretio moderato»). Un ruolo importante aveva poi la Curia, composta da uno o più giudici, un notaio e, in alcune occasioni, da alcuni massari: amministrava la giustizia civile e criminale dirimendo le controversie tra privati e infliggendo le pene previste dagli statuti; inoltre sorvegliava sulla produzione di derrate e sui commerci. Era infine incaricata della riscossione di varie gabelle, tra cui il placzaticum un prelievo sul commercio locale, sulle esportazioni e sullo scambio di prodotti dal quale erano però esentati gli abitanti di Ninfa, Acquapuzza, Bassiano e Roma.

I quarantotto articoli componenti lo statuto disciplinavano per lo più le attività agricole e commerciali, pur non mancando di regolare l’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia. Non esisteva un organo stabile di rappresentanza della popolazione, ma un Consilium massariorum i cui componenti, scelti dal dominus o dalla Curia, venivano chiamati a collaborare in occasioni straordinarie. Per esempio, in situazioni di emergenza come guerre e carestie, la popolazione poteva eleggere ogni quattro mesi quattro rappresentanti, in carica per un solo mese, che avrebbero mediato

144 Ivi, pp.144-145.

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le istanze della comunità presso il castellanus (in caso di penuria alimentare, si concordavano i tempi migliori per la raccolta del fruttato).

Con l’elezione al soglio pontificio di Benedetto Caetani (papa Bonifacio VIII, 1294-1303) l’ascesa della famiglia divenne inarrestabile: già signori di Norma e in procinto di accaparrarsi Ninfa, i Caetani miravano ad includere nei loro possessi anche Sermoneta, Bassiano e San Donato. Proprio sotto le forti pressioni del casato emergente e del papa stesso, gli eredi del cardinale Annibaldi furono costretti a vendere i loro domini al nipote del papa, Pietro II Caetani, conte di Caserta. L’accaparramento avvenne tra il 1297 e il 1299, attraverso una serie di contratti di compravendita, che prevedevano la consueta formula del conferimento del dominio utile sulla terra e dei diritti sui vassalli. In questi anni il tenimentum di Sermoneta raggiunse la massima estensione: oltre alla cittadina, entrarono a far parte del feudo le terre di Cisterna e Bassiano, la tenuta di San Donato, il castello di Ninfa e il castello di San Felice ma soprattutto tutta la contea di Fondi, con la sua corona di feudi tra Terra di Lavoro e Campagna pontificia (la contea di Fondi passerà poi al ramo dei Caetani di Aragona (1504) e da questo alla famiglia Colonna)146.

Nel 1304, già da qualche anno subentrato agli Annibaldi, Pietro decise di modificare gli statuti del 1271: forte era la necessità di rafforzare il legame di fedeltà dei suoi sudditi in quel periodo quando, all’indomani della morte di papa Bonifacio, i Colonna avevano scatenato la lotta contro il casato Caetani. Pietro aprì a diverse concessioni di tipo istituzionale: riconobbe il Consiglio dei massari come organo di rappresentanza della popolazione di Sermoneta, alla quale da adesso sarebbe