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3. Il monastero della Santa Croce di Fonte Avellana

3.4 I prodotti della terra

3.4.3 Il bosco

Nell’incolto la sylva107 ha sempre assunto un ruolo economico fondamentale per le comunità rurali avellanite. In particolare la loro proprietà e gestione collettiva ha permesso di sviluppare una importante cultura locale delle tecniche e dell’utilizzazione delle risorse boschive.

Con l’espansione fra i secoli XI e XIII delle attività agricole e pastorali e con l’aumento demografico, le aree boscate subiscono una rilevante contrazione in particolare nelle aree collinari. La produzione di carbone108, di legna da ardere, di legname da costruzione e la necessità di disporre di terre per l’agricoltura e l’allevamento, incisero fortemente sull’estensione dei boschi dell’area alto collinare e montana. I documenti di affitti e compravendite evidenziano a partire dal secolo XII, una progressiva riduzione delle superfici boscate ma anche il loro utilizzo per attività agro-pastorali, per la produzione di materie prime e per la caccia (Salbitano, 1999).

Figura 28 – Taglialegna, particolare miniatura dal Salterio di Luttrell, XIV secolo - Londra, British Library.

107 CFA Vol. 1, doc. n. 100, a. 1108, pp. 225-226. 108 CFA Vol. 1, doc., n. 5, a. [103.], pp. 12-13.

Gli stessi toponimi ronco e ranco109 incominciarono a essere usati frequentemente non solo nella designazione di nuove località ma anche nella determinazione di particolari unità colturali. La selva ha, quindi, una funzione importante, grazie anche a tutte le altre attività correlate al suo ambiente come il pascolo (di ovini, suini, bovini), la raccolta di legname, di prodotti forestali e la caccia.

Della terra silvare, sfruttata dal signore e dai coloni, cui si riconosceva il diritto di godimento, non viene mai descritta la composizione specifica: si rimanda spesso alla semplice formula stereotipa di pomes et arbores, oppure arbores fructiferi et infructiferi, riferita in generale a popolamenti arborei, boschi e boschetti che fornivano produzioni particolari (Chiappa, 2008), principalmente utilizzate appunto nell’alimentazione animale. Fra questi vengono, infatti, annoverate anche alcune querce isolate o in piccoli gruppi (rovere, roverella e farnia, più raramente leccio e quasi mai cerro), le cui ghiande erano parte integrante dell’alimentazione animale e anche umana. La diffusione dei cedui, tagliati o sgamollati regolarmente e frequentemente permetteva di ottenere materiale per usi artigianali, energetici e per l’alimentazione animale con frasca. Dallo studio dei documenti, della toponomastica dei luoghi e per le caratteristiche geomorfologiche ed ecologico-climatiche dell’epoca è possibile ipotizzare oggi la composizione dei boschi che ricoprivano le pendici del monte Catria e ricostruirne le utilizzazioni e cure colturali praticate. Gli appezzamenti boschivi interessati da contratti giuridici si trovavano prevalentemente in ambiente pedemontano. La sylva, citata come parte del dominico o ubicata nei suoi pressi110, veniva distinta in sylva maior e sylva minor, rispettivamente connotate da boschi di alto fusto e boschi cedui. Nel primo caso il querceto111 o campum a quercu doveva essere la presenza dominante in ambito alto- collinare e pedemontano, valorizzato per la sua importanza economica in relazione agli allevamenti bradi e di maiali, per l’approvvigionamento di materie prime legnose e non legnose indispensabili alla sopravvivenza delle popolazioni rurali. Nelle CFA non vi è nessun riferimento ai castagneti e alla loro coltura mentre il faggio, mai menzionato come albero isolato, rappresentava un’importante specie di riferimento per l’allevamento.

Le cure colturali descritte si limitano a potature, raccolta del fogliame, delle ghiande e delle faggiole a uso alimentare e foraggero. I boschi del piano basale presentavano probabilmente una composizione mista di cui si trova riscontro nella toponomastica e nelle descrizioni confinarie, con la presenza di roverella, orniello112, carpino nero113, cerro114, tiglio, acero campestre e montano. Nelle

109 Il termine ronco dal latino runcare, estirpare, in riferimento ai luoghi disboscati compare in CFA Vol. 1, doc., n. 30, a. 1071, pp. 80-82; n. 41, a. 1078, pp. 105-106; n. 44, a. 1079, pp. 113-115; n. 131, a. 1119, pp. 289-290; n. 167, a. [1125 o 1128], p. 358; CFA Vol. 2, doc., n.196, a. [1129 (?) – 1142], p. 9; n. 343, a. 1194, pp. 294-296.

110 CFA Vol. 2, doc. n. 239, a. 1154, pp. 93-94. 111 CFA Vol. 1, doc., n. 113, a. 1110, pp. 250-251. 112 CFA Vol. 1, doc., n. 104, a.1109, pp. 233-234.

113 CFA Vol. 1, doc., n. 95, a. 1104, pp. 214-215; n. 123, a. [1106 o 1116], pp. 269-270; CFA Vol. 2, doc., n. 308, a. 1187, pp. 222-223.

aree di pianura la presenza della farnia è testimoniata da numerosi toponimi115 e quando non è espressamente nominata negli atti notarili la sua presenza si deduce nei canoni colonici che prevedono la corresponsione di parti di maiale.

In generale l’approvvigionamento costante di materiali legnosi (paleria, legna da ardere ecc) necessari al ciclo produttivo agricolo era garantito dalla silva minor, il bosco ceduo. La documentazione avellanita non riporta, comunque mai i termini silva astalaria o stalaria, utilizzati in generale all’epoca per definire il bosco da cui si ricavano i pali.

Regolarmente si incontrano invece i saliceti (salectis o salcetis, salepto, salcibus e salceto, salectis), sia spontanei che coltivati, per lo più in aree marginali, ai bordi dei campi o lungo i fossi. Assumevano, insieme ai felceti116, una particolare importanza nella gestione delle vigne (paleria minuta di sostegno) e nell’artigianato agricolo (manufatti, cesti, panieri, nasse da pesca, canestri e contenitori di vario tipo, lacci, ecc.). Erano soggetti a donazioni117 e a vendite118, attestando una prevalente utilizzazione privata, sottratta spesso all’uso pubblico (Chiappa, 2008).

Il bosco era caratterizzato da turni di utilizzazione significativamente brevi e da trattamenti selvicolturali ben più spinti di quelli attuali. Per la produzione di assortimenti legnosi sottili e frasca si praticava diffusamente il ceduo a capitozza (taglio alto del fusto in corrispondenza dell’inserzione delle branche principali) e a sgamollo o sclavo (taglio delle branche laterali e rilascio del cimale e di quelle apicali) che assumevano spesso denominazioni locali come scapezzatura e mozzico natura, apparse nel XVI secolo (Salbitano, 1999).

Oltre che per i prodotti legnosi, il bosco rappresentava anche una fonte di altri prodotti alimentari (selvaggina di grossa e piccola taglia, frutti del bosco e del sottobosco), indispensabili nell’economia rurale dell’epoca. Il miele era un altro alimento di elevato valore per i coloni: nelle aziende signorili non era difficile trovare sistemi di arnie per l’allevamento delle api119. La caccia120 risultava una pratica sporadica, attivamente escitata da nobili ed ecclesiastici, assumendo nel tempo sempre più il carattere di attività di svago.

Nel suo complesso, la sylva dell’area del Catria subisce progressivamente la pressione antropica della crescita demografica, passando da una funzione di supporto all’economia rurale, a un uso eccessivo nelle utilizzazioni selvicolturali, agricole e in particolare pascolive. Tra i secoli XV e XVI si arrivò alla necessità di limitare l’uso per pascolo e legnatico della montagna.

114 Si trovano riferimenti esplicito che confermano la sua presenza in zona: CFA Vol. 2, doc., n. 318, a. 1189, pp. 244-245; altri riferimenti nella toponomastica in CFA Vol. 1, doc., n. 131, a. 1119, pp. 289-290; n. 145, a. 1122, pp. 314-315; n. 170, a. 1130, pp. 362-363.

115 CFA Vol. 2, doc., n. 304, a. 1186, p. 210; CFA Vol. 1, doc., n. 107, a. 1109, pp. 239-240; n. 120, a. 1116, pp. 263-264.

116 CFA Vol. 2, doc., n. 328, a. 1192, pp. 263-264. 117 CFA Vol. 1, doc., n. 174, a. 1131, pp. 370-371. 118 CFA Vol. 1, doc., n. 46, a. 1080, pp. 117-118. 119 CFA Vol. 2, doc., n. 356, a. 1196, pp. 325-328 120 CFA Vol. 2, doc., n. 304, a. 1186, pp. 210-212

Secondo una stima, durante il XVI secolo vennero mandati annualmente al pascolo almeno 500 capi grossi e 2.000 – 3.000 capi piccoli su una superficie di circa 6.000 ettari. Il pretesto immediato dell’atto di limitazione all’uso fu il disgusto che provò il Cardinale di Urbino, Abate commendatario del monastero, nel vedere come “quei monaci degenerati, con improvvidi affitti, avessero contribuito alla devastazione dei sacri boschi del Catria, sua passione e suo vanto” (Piussi, 1986).

Figura 29 – Particolare del mese di dicembre“Il Ciclo dei Mesi” di Venceslao (1400-1407), Torre Aquila, Castello del Buonconsiglio, Trento.