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La nuova concezione del lavoro e dell’agricoltura

3. Il monastero della Santa Croce di Fonte Avellana

3.3. Pier Damiani priore di Fonte Avellana

3.3.3 La nuova concezione del lavoro e dell’agricoltura

Nel confronto e nella discussione su come realizzare la riforma della Chiesa e della societas cristiana Pier Damiani propone al comune uomo medievale una nuova concezione morale del lavoro fisico: da un’attività necessaria alla sopravvivenza, il lavoro diventa strumento di ascesi per raggiungere la vita eterna e la libertà dalla povertà. Il lavoro fisico, considerato comunemente un castigo che deve essere svolto dai ceti sociali più bassi, assume un nuovo significato, e sono proprio gli eremiti che con la imitatio Christi ritrovano in esso gli ideali della vita apostolica.

L’interpretazione del lavoro come strumento sociale viene espressa nelle lettere inviate da Pier Damiani ai monasteri riformati. Egli, infatti, considera la terra come il “giardino di Dio”, e quindi scrive che è “doveroso costringere con il

lavoro la terra a produrre sempre di più e sempre meglio”, ovviamente non solo

quanto basta alla sopravvivenza ma quanto può assicurare e migliorare il presente e il futuro di chi lavora e della terra vive.

Opere di Pier Damiani59,

In questo contesto il lavoro della Regola benedettina60 appare in una concretezza nuova, che va al di là del concetto di lavoro quotidiano per il sostentamento e per combattere l’ozio, e uscendo dal chiostro assume una funzione sociale. Al centro del suo modello vi è, quindi, la funzione sociale dei beni, da sviluppare non nel diritto alla proprietà, ma a favore di chi non li ha, trasformando il proprietario in “ministro delle cose di Dio”. Nel suo instancabile lavoro di condanna e riforma dei costumi e della corruzione del tempo, Pier Damiani condanna il cattivo uso che gli uomini fanno dei mezzi concessi da Dio per conseguire un fine terreno e arrivare al maggior vantaggio individuale. Egli però non condanna i mezzi stessi, cioè la terra, anzi, afferma che i beni terreni e la proprietà terriera sono mezzi necessari, concessi dal Signore ai proprietari che ne sono amministratori. Principi etici fondamentali e indispensabili per avviare allora un processo evolutivo e di crescita socioeconomica.

59 vol. I/1, Lettere 1-21, a cura di G. I. Gargano, N. D’Acunto, Roma 2000; vol. I/2, Lettere 22-40, a cura di G. I. Gargano, N. D’Acunto, Roma 2001; vol. I/3, Lettere 41-67, a cura di G.I. Gargano, N. D’Acunto, Roma 2002; vol. I/4, Lettere 68-90, a cura di N. D’Acunto, L. Saraceno, Roma 2005; vol. IV, Poesie e preghiere, a cura di U. Facchini, L. Saraceno, Roma 2007.

60 Il lavoro manuale perse via via importanza nella vita dei monaci nel corso dei secoli e già presso i Cluniacensi al monaco competevano gli aspetti spirituali dell’esistenza e il lavoro manuale era molto ridotto e fu gradatamente affidato ai servi e ai contadini che dipendevano o gravitavano intorno alle Abbazie.

“Coloro che sono ricchi debbono considerarsi piuttosto dispensatori che possessori: e non debbono giudicare di loro proprietà ciò che hanno, perché non hanno ricevuto i beni transeunti affinché abbondassero di piaceri e li usassero a loro arbitrio, ma perché adempissero all’obbligo della amministrazione, finché rimanessero in quella condizione” (…)

“Quando dunque sovveniamo ai poveri, restituiamo senza dubbio l’altrui, non doniamo del nostro... Coloro che trascurano di sovvenire ai poveri, nel terribile esame del giudizio non solamente verranno denunciati di avarizia, ma di furto, e verranno incriminati non soltanto come avari dei propri beni, ma piuttosto come ladri delle altrui sostanze...”

Opusc. IV, Patrologia Latina CXLV “De elemosina. Ad Mainardum episcopum

urbinatem”, coll. 207-222. “Per questo soltanto uno è più ricco di altri, perché non solo possegga le cose che gli sono state affidate, ma perché le distribuisca a coloro che non hanno; e affinché non tanto per pietà ma secondo giustizia - non essendo egli il padrone ma soltanto l’amministratore - dispensi i beni che di diritto sono degli altri”

Lettera VI agli eremiti di Gamugno (ibid., coll. 422-432).

La terra, unica fonte di reddito, viene quindi sfruttata per trarre il maggior utile possibile da ridistribuire equamente tra le varie classi sociali. Il surplus deve essere ridistribuito a chi non possiede nulla, ponendo l’elemosina come virtù e giustizia. Un progetto collettivo che poteva essere raggiunto soltanto attraverso il perseguimento del benessere del singolo e della sua famiglia.

I prodotti ottenuti e ricevuti dalle numerose donazioni e lasciti di terre e beni vengono, quindi, utilizzati in primo luogo per soddisfare le esigenze primarie degli eremiti e in secondo luogo a coprire le necessità delle comunità locali secondo il principio ispiratore della charitas christiana.

I veri e unici beneficiari di tutto il reddito del lavoro agricolo dovevano restare, quindi, i contadini. Il rapporto che legava gli eremiti nell’amministrazione dei beni di loro competenza era un vincolo obnoxius, cioè soggetto a intransigente restituzione ai poveri di quanto altri hanno donato, in modo tale da sostentarli.

In un’ottica di gestione comune della risorsa, gli eremiti come supervisori portavano l’esempio: vivendo del proprio lavoro, coltivando l’orto e partecipando ai lavori comuni di raccolta del fieno o della legna e, con il permesso del priore, al lavoro nei campi, evitando così le “maldicenze sul loro operato” (“operando bene si chiuderà la bocca all’ignoranza degli uomini protervi e non si darà motivo di mormorare e di sparlare dei servi di Dio”).

La redistribuzione delle ricchezze, si realizzava così nel contado mediante concessioni del patrimonio terriero e una sua gestione oculata, al fine di valorizzarne e migliorarne le rese in favore della popolazione rurale. Ma si

concretizzava anche presso l’eremo, con l’elemosina e l’ordinaria assistenza ai malati, ai poveri e ai pellegrini.

La concessione ai contadini della gestione di unità agricole autonome, il più possibile funzionali, favoriva inoltre lo sviluppo di forme di coesione sociale, cooperazione e innovazione nel lavoro quotidiano. Come evidenzia lo storico Simone Chiappa61 “su questa base si inserì l’azione modellatrice del Monastero: intorno all’eremo si venne a creare una zona compatta di proprietà appartenenti all’ente monastico”, e successivamente, grazie sia alle donazioni pro animae, ai lasciti, alle permute e alle compravendite dei beni terrieri, una vera e propria “signoria rurale” che andava oltre i confini delle Marche (c.f.r. Cap. 3.5).