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Se le innovazioni tecnologiche, per quanto da non sopravvalutare, dovettero in qualche misura contribuire all’incremento della produzione, risultati apprezzabili sembrano essere scaturiti in questo senso anche da una nuova organizzazione degli spazi e dei sistemi del lavoro agricolo: il riferimento è anzitutto alla diffusione di quei cicli colturali più razionali e serrati che vennero sostituendo, sia pure parzialmente, gli avvicendamenti propri di un’agricoltura di carattere più estensivo. In particolare, assistiamo, dalla metà del XII secolo, alla progressiva affermazione di una rotazione triennale delle colture e al restringersi, in parallelo, delle superfici governate secondo il tradizionale ciclo biennale. Con le espressioni rotazione biennale, triennale, ecc. si intende indicare, com’è noto, quella conduzione della terra per la quale -a tutela della produttività - le semine si susseguono regolarmente in un certo ambito temporale, intervallate da periodi di riposo (maggese) altrettanto regolari.

Con l’avvicendamento su base biennale - che, già conosciuto in antico, si era andato sostituendo nell’alto medioevo sistemi più primitivi di coltivazione, fondati sull’abbruciamento della vegetazione spontanea e sull’alternanza di lungo periodo di seminativi e pascoli - metà del terreno veniva lasciata a maggese ogni anno, mentre si procedeva nell’altra metà alla coltivazione del cereale (frumento o un qualsiasi altro cereale, perlopiù invernale, secondo le necessità del coltivatore, la natura dei suoli, il clima, ecc.).

Diversamente, la rotazione triennale prevedeva che solo un terzo della terra venisse fatto riposare, mentre gli altri due terzi erano destinati uno alla semina di cereali invernali (frumento, segale, orzo invernale, spelta, etc.), l’altro a quella di colture primaverili, che potevano essere tanto cereali (avena, orzo primaverile, miglio, panico, sorgo, etc.) che leguminose. Il cereale invernale, più esigente quanto ai suoli e di maggior pregio, veniva solitamente coltivato entro quello che l’anno precedente era stato il maggese; le piante di semina primaverile si avvicendavano, dal canto loro, alle colture invernali. Beninteso, le rotazioni potevano applicarsi - senza che si procedesse ad alcuna ripartizione del terreno - all’appezzamento nella sua interezza, dispiegandosi in tal caso in un arco di tempo biennale, triennale, etc.

Da quanto appena illustrato può evincersi come l’adozione del ciclo triennale presentasse non trascurabili vantaggi rispetto al sistema di coltivazione su base biennale, non solo per il fatto di consentire che da ciascuna parcella si ricavassero due raccolti ogni tre anni (applicazione integrale), ma anche in quanto favoriva, ove si ripartisse il terreno per quote, una equilibrata distribuzione delle operazioni agricole (aratura, semina, mietitura) nell’ambito dell’annata e riduceva, grazie alla presenza di colture invernali e primaverili che potevano in qualche misura compensarsi, il rischio che i raccolti risentissero di sfavorevoli condizioni climatiche.

Si aggiunga che, soprattutto sui terreni più fertili - e non di rado per le necessità indotte da una pronunciata crescita demica - si sarebbe ben presto

affermato l’uso di effettuare sul maggese (per l’intera superficie o su una parte soltanto) semine di cereali primaverili e, soprattutto, di legumi, i quali ultimi, stante la ben nota proprietà di fissare l’azoto nel terreno, non solo non depauperavano i suoli, ma contribuivano a tutelarne la capacità produttiva.

Il caldo precoce delle primavere mediterranee, la siccità delle estati, non consentirono nel Mezzogiorno d’Europa una diffusione dei cereali primaverili d’importanza analoga a quella che ebbe a registrarsi nelle contrade del centro- nord; ne risultò ovviamente limitata anche l’adozione del ciclo triennale. Le attestazioni che se ne hanno per l’Italia sono tarde e non intaccano quasi mai il predominio della rotazione biennale.

È evidente che la piena valorizzazione dei cicli colturali di vario tipo (dal XIII secolo n’è attestato anche uno quadriennale largamente fondato sulle semine di legumi) non poteva realizzarsi se non in un contesto di sistematica applicazione, che, nei fatti, poté aversi quasi soltanto nelle regioni europee del centro-nord connotate dall’organizzazione collettiva degli spazi agrari.

Figura 9 – Mesi di aprile e agosto nel “Il Ciclo dei Mesi” di Venceslao (1400- 1407), Torre Aquila, Castello del Buonconsiglio, Trento.

Se, infatti, le esigenze di rigenerazione dei suoli, soprattutto dei più poveri fra essi, dovettero non di rado spingere il coltivatore a introdurre fra il compimento di un ciclo colturale e l’avvio del successivo (talora anche nell’ambito del ciclo stesso) prolungati periodi di riposo, sovente si diede pure il caso che un pressante fabbisogno cerealicolo inducesse a forzare i ritmi della produzione, a sacrificare il maggese a ulteriori semine, in definitiva a prescindere da ogni meditata pianificazione colturale. E tanto più gravi si rivelavano gli effetti di tali comportamenti giacché, in conseguenza sia di uno sviluppo ancora modesto dell’allevamento stabulare sia delle difficoltà che la pratica pastorale incontrava per la progressiva erosione degli incolti, restava generalmente inadeguata la disponibilità di concime (peraltro utilizzato, quando ci fosse, quasi esclusivamente per gli orti e per gli altri spazi dell’agricoltura intensiva).

Uno sguardo all’indice del rendimento cerealicolo - che, pur con limiti evidenti, meglio di altri sintetizza gli effetti delle molte variabili che “concorrono a definire il livello tecnologico” (Montanari 1984, p. 55) di un sistema economico-sociale - consentirà di avvalorare le linee dell’analisi fin qui condotta. Non solo non si registrano per il pieno e basso medioevo incrementi di particolare rilievo, ma, con riferimento a talune aree - ad es. l’Inghilterra - può finanche negarsi che incremento ci sia stato. In Italia, agli inizi del XIV secolo, le rese che si ottenevano in Piemonte tanto per il frumento che per i cereali minori non eccedevano di molto quel 2-3 per uno che evoca immediatamente lo scenario altomedievale. Parimenti, per la Lucchesìa dei secoli XII-XII, sulla base di calcoli di larga approssimazione, si è potuto proporre un rendimento cerealicolo minimale intorno al 3 per uno.

Una riflessione sul complesso dei dati finora disponibili circa le rotazioni agricole nell’Italia medievale (argomento sul quale non è dato intrattenerci qui in dettaglio) non può prescindere dalla constatazione di pratiche assai differenziate anche nel medesimo contesto territoriale, ciò che rende perlomeno rischioso ogni approccio generalizzante. La stessa distinzione fra regioni dove risultino affermati cicli colturali complessi, espressione di un’agricoltura più avanzata, e altre ancorate a usi più tradizionali sembra non possa essere formulata senza qualche forzatura.

È certamente nelle campagne del Centro-Nord che risultano più largamente diffusi avvicendamenti incardinati sulla durata triennale o su periodi ancora più ampi; resta, tuttavia, da verificare (se mai le fonti possano consentirlo) in che misura essi incidano effettivamente nell’ordinamento della produzione e, dunque, se e fino a qual punto siano in grado di connotare le attività colturali nel segno del rinnovamento e del progresso. Anche al Sud, d’altra parte, non risultano assenti pratiche orientate a conferire allo sfruttamento dei suoli ritmi differenti da quelli caratterizzanti la cerealicoltura estensiva.

Su un piano più generale, sembra comunque di poter escludere fin d’ora, anche per i secoli più tardi, che avvicendamenti serrati, di sistematica applicazione, possano aver prodotto in area padana come, a maggior ragione, nei territori peninsulari, trasformazioni dell’attività agricola comparabili a quelle che, a muovere dalla metà del XVI secolo, conosceranno alcuni settori dell’area irrigua lombarda (specialmente il Lodigiano) in seguito all’affermazione dell’alternanza cereali-foraggere (sistema cui sarà legato per molti aspetti il peculiare sviluppo di quell’economia regionale).