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2. Il monachesimo

2.1 Le origini del Monachesimo cristiano

Il monachesimo5 cristiano rappresenta nella storia una scelta di vita radicale, realizzata sia nell’ascesi solitaria dell’eremitaggio (anacoretismo), sia nella vita comunitaria di un monastero (cenobitismo). Come modello spirituale di vita esso è stato attore fondamentale di tanti processi culturali e sociali che hanno segnato l’evoluzione storica di piccole e di grandi comunità.

Le ricerche sulle origini del monachesimo in Egitto hanno dato rilevanza, negli ultimi decenni, agli aspetti politici, sociali ed economici (Giorda, 2010), che furono fondamentali alla genesi e allo sviluppo del fenomeno monastico, accanto alle ragioni spirituali; è innegabile, infatti, che il desiderio di ricercare qualcosa di diverso rispetto a una pratica cristiana vissuta tra le file del clero, e, più in generale, della chiesa ufficiale egiziana, giocò un ruolo importante nella scelta che fecero gli uomini chiamati i “pionieri del deserto”, in Egitto, Palestina e Siria.

Uno stereotipo ormai desueto, eppure ancora autorevole, collega l’emergenza del fenomeno monastico al trionfo cristiano conseguente al cosiddetto editto di Milano (313). Il successo della scelta di vita anacoretica viene sovente spiegato come il recupero di una fede vissuta in modo radicale all’indomani della scomparsa dei martiri e del diffondersi di un certo lassismo nella vita della Chiesa. Ebbene, se questa prospettiva può mantenere qualche elemento d’interesse per i decenni successivi all’editto, essa appare sostanzialmente inadeguata a rappresentare il periodo della nascita del monachesimo. A cavallo dei secoli III-IV, all’epoca di Costantino, Antonio (252- 356), il personaggio cui si attribuisce tradizionalmente l’avvio del nuovo fenomeno, aveva già raggiunto una veneranda età. Senza contare poi che Girolamo intendeva assegnare la palma di primo monaco della storia a un asceta ancora più anziano, Paolo di Tebe (la cui storicità rimane ancor oggi controversa: Vita di Paolo di Tebe).

Insomma, il monachesimo appare senza ombra di dubbio come una realtà in formazione ben prima del presunto rilassamento dei costumi cristiani e del nuovo favore imperiale verso l’istituzione ecclesiastica. In principio, esso non fu dunque solo un’alternativa di ripiego al martirio (si disse un “martirio bianco”), anche se successivamente gli stessi autori antichi ce lo presenteranno come tale. La vita dei monaci fu, infatti, caratterizzata da precisi aspetti spirituali derivanti dalla centralità delle Sacre Scritture. Essi intendevano realizzare una nuova e più profonda ricerca della perfezione cristiana: ispirandosi all’esempio apostolico, ed esercitando sia lo spirito sia il corpo (áskesis), percorrevano un cammino di ritiro e raccoglimento (anachóresis), con la preghiera, i digiuni e le veglie

5 Il termine greco μοναχός (monachos), che deriva da μόνος (monos: unico, solo), indica colui che sceglie di vivere la propria fede in una solitaria e profonda ricerca spirituale. Già nell’antichità furono proposte diverse interpretazioni del termine “monaco”: solitario (san Girolamo); persona “unificata” interiormente (i padri orientali); persona mirante all’“unanimità” coi fratelli (sant’Agostino); oggi si propende per l’accezione secondo cui il monaco sarebbe colui che ricerca l’unità di vita, di corpo e spirito, e l’unità dell’uomo con il Dio.

La vita dei monaci trascorrevanel colloquio costante con Dio (parrhesía) per mezzo della preghiera; essi puntavano all’affermazione di una vita libera dalle passioni (apátheia), per raggiungere la consapevolezza dell’imperfezione della vita terrena. Come spiega Gregorio Penco (1983), nella nascita di questo fenomeno sono fondamentali sia i richiami biblici (Abramo abbandona ciò che possiede e il deserto è luogo della prova e della tentazione) sia i passi del Nuovo Testamento, in cui Cristo chiama i suoi discepoli a seguirlo in una vita più perfetta; a ciò sono da aggiungere le esortazioni di san Paolo sul tema della sessualità.

L’isolamento in luoghi “desertici”, la potenza taumaturgica e il rapporto privilegiato e anticonformista con Dio, tutti elementi ideali della rappresentazione del santo monaco, vennero ritrovati principalmente nelle figure dei profeti Elia, Eliseo, e Giovanni Battista. Essi divennero dei punti di riferimento costanti per i solitari, tanto che nel nominarli, le fonti fecero uso di quella medesima locuzione (uomini di Dio) che nei libri storici dell’Antico Testamento designava i profeti. Antonio, uno dei primi monaci egiziani, per esempio, veniva paragonato a Elia dal suo biografo.

La spiritualità monastica si esprimeva così in una lotta continua, nella quale il monaco era impegnato a dare la sua testimonianza alla legge divina, mirando a raggiungere la vetta della perfezione (theopoíesis) in una tensione continua che lo portava a sentirsi soldato o atleta di Cristo.

Non necessariamente questo si traduceva in isolamento e in forme di solitudine. Fin dall’inizio, a forme di vita isolata, trascorsa in luoghi remoti, si accostarono forme comunitarie o miste; l’identità monastica plurima, inclusiva piuttosto che esclusiva, fu capace di assumere forme anche molto diverse, che sfuggono al tentativo di un rigido incasellamento. Gli specialisti sono ormai concordi su questa difficoltà di analisi; pertanto, si pensa a una “unità nella diversità” del monachesimo. La classica dicotomia tra anacoreti e cenobiti, cui si aggiungono, come terza categoria, anche i monaci girovaghi, deve essere superata da un’analisi più complessa: vi erano forme differenti di praticare la vita monastica e senza dubbio la mobilità era un fattore da tenere in considerazione, perché favoriva l’unificazione culturale dell’ambiente monastico, in fatto di circolazione d’idee, dottrine e posizioni. Non bisogna dimenticare che molti viaggi erano altresì compiuti dai monaci con precise finalità di vendita dei prodotti del lavoro svolto dai singoli o all’interno delle comunità. Altra cosa, invece, erano i monaci erranti che si procuravano il sostentamento attraverso le elemosine e non avevano alcuna comunità o gruppo di riferimento. Tra il modello dell’eremo e quello del cenobio, vi erano quindi anche altri tipi di vita monastica, come le celle organizzate a grappolo o gli eremitaggi raggruppati in pochi numeri, o ancora gli insiemi di piccoli monasteri o i monasteri che divennero centri culturali, spirituali e lavorativi tanto grandi da attrarre centinaia di persone, monaci e non monaci.

Una tipologia di organizzazione monastica delle origini particolarmente interessante fu quella della laura, diffusa in Palestina come anche in Egitto. Essa prevedeva la realizzazione di un gruppo più o meno grande di “celle” (per lo più piccole capanne o grotte scavate nel terreno arido e roccioso), ognuna separata dalle altre, ma con un’area in comune. Senza dubbio un tratto comune

a ogni forma di monachesimo fu l’importanza del rapporto tra un padre e i suoi figli spirituali: la relazione che si instaurava, di ascolto, fiducia e obbedienza, fu centrale nella composizione delle piccole o grandi comunità monastiche e si collocò alla base della costruzione di un sistema di gestione delle colpe e del perdono, ma anche dei valori e delle virtù considerati importanti per la vita ascetica. Nacque così il rapporto maestro-discepolo che sarebbe successivamente evoluto nelle varie forme di direzione spirituale che conobbero i monasteri di epoca moderna.

Le fonti letterarie e documentarie dei primi secoli, tra il IV e il V, forniscono vari esempi di interazione tra il mondo monastico e quello detto più specificatamente ecclesiastico. Numerosi erano i casi di monaci chiamati a ricoprire il ruolo di presbitero e di vescovo. L’esistenza di forme urbane di vita ascetica e monastica, nei villaggi e nella capitale egiziana, è un altro degli argomenti che spinge a favore della necessità di ripensare la categoria della separazione. I papiri che sono stati ritrovati in zone urbane, che attestano l’esistenza di monaci e monasteri nelle città, il ritrovamento archeologico di monasteri e celle in zone urbane e peri-urbane sono una testimonianza preziosa del rapporto del monachesimo con il mondo abitato.

Giovanni Cassiano († 435) scrive che l’eremita non è colui che raggiunge il deserto per sfuggire il consorzio umano, ma è colui che si ritira nel silenzio del deserto per meglio ascoltare la parola di Dio e di conseguenza la parola degli uomini6. Il deserto che ha in mente Cassiano è, anzitutto, un deserto interiore, spirituale: è la capacità di silenzio, concentrazione e meditazione. Dalle prime esperienze compiute dai monaci nel binomio “preghiera e penitenza”, prese forma un patrimonio comune di pratiche spirituali e fisiche attuato in forme differenziate dal punto di vista organizzativo e istituzionale.

Tra i Padri del monachesimo, all’inizio del IV secolo, vi è san Antonio Abate7 († 356). Antonio godette di una fama sempre crescente e l’influsso da lui esercitato sulla spiritualità monastica fu enorme. La sua biografia, Vita di Antonio, scritta nel 365 da Atanasio († 373), fu subito tradotta in latino e diventò un testo conosciutissimo in tutto il mondo cristiano, esercitando un’influenza decisiva su tutta la posteriore letteratura agiografica, sull’ascesi e sull’iconografia. Antonio nasce in un villaggio della campagna egiziana (Sozomeno dice Koma) intorno al 251. Di famiglia cristiana, egli frequenta sin da bambino la chiesa locale. Verso il 271, alla morte dei genitori e dopo aver udito tra le letture domenicali il passo evangelico del giovane ricco, Antonio lascia tutti i suoi beni ai poveri, affida la sorella ad alcune non meglio precisate vergini locali e si dedica all’ascesi. Nel 285 circa, si ritira in un vecchio fortino abbandonato per sostenervi una lotta senza quartiere con i demoni.

6 C.f.r. Giovanni Cassiamo (360-435), Collationes e Institutiones: resoconto di colloqui tenuti da lui e dal suo amico Germano con eremiti egiziani.

7 San Antonio Abate è uno dei santi pi importanti della tradizione cristiana in genere rappresentato in tarda età, il volto incorniciato da una lunga barba bianca, con indosso una tonaca da frate col cappuccio, un bastone con il manico a Tau (la crux commissa), un campanello per scacciare gli spiriti maligni tentatori, e in compagnia di un maiale, il cui lardo era utilizzato come medicamento contro il “fuoco di S. Antonio”, da cui la fiamma, altro suo attributo (da Bianca di Maria Giombetti, 2007).

Vent’anni dopo, si stabilisce sul monte Pispir, nel deserto, e ivi accoglie i primi discepoli. Pispir sarebbe il monte esteriore, sede in cui Antonio riceve i visitatori e istruisce i propri seguaci, mentre il monte Kolzim, definito interiore perché più isolato, diviene la sua dimora personale, nonché il luogo di ulteriori combattimenti spirituali con il diavolo. Antonio muore nel 457, all’età di 105 anni. Le sette Lettere che gli sono attribuite rappresentano una delle prime testimonianze del monachesimo. In esse Antonio si presenta come un padre spirituale, evidentemente a capo di diverse comunità di discepoli che da lui dipendono.

A sud, nell’Alto Egitto, sempre in questa prima metà del IV secolo, si afferma una forma di monachesimo più istituzionale, destinata in poco tempo a uno straordinario successo: si tratta della koinonia fondata da Pacomio. In greco il termine significa comunità, ed è collegato a “koinobion”, che indica per l’appunto un monastero di tipo comunitario (donde viene poi la parola cenobio). L’avventura cenobitica ci è nota attraverso un corpus di fonti (Vite di Pacomio, Lettera di Ammone, Regole) che appartiene per la maggior parte alla seconda metà, se non alla fine, del IV secolo. Gli unici testi che appartengono veramente a questo periodo sono gli scritti di Pacomio stesso, la maggior parte dei quali è rappresentata da un corpus di Lettere redatte facendo uso di un linguaggio simbolico di non facile comprensione. Dalle Vite anonime (le versioni più antiche ci sono rimaste in greco, copto e arabo) ricaviamo comunque diversi dati che paiono storicamente attendibili. Pacomio, diversamente da tanti altri santi monaci, nasce pagano. Sua madre lo mette al mondo a Šne (Latopoli) intorno al 292, e lo fa crescere come un egiziano fedele alle antiche tradizioni.

Nel 312, il giovane viene arruolato a forza nelle guarnigioni di Massimino (in guerra con Licinio). Si trova ancora rinchiuso nella caserma di Tebe quando incontra per la prima volta dei cristiani, venuti a portare conforto ai prigionieri. Colpito dalla generosità dell’aiuto gratuitamente offerto, fa voto di divenire cristiano e di dedicarsi al servizio del prossimo, qualora fosse scampato da quella terribile situazione. Tornato finalmente libero, si stabilisce nel villaggio di Šheneset (presso Chenoboscion), dove riceve il battesimo (313) e si dedica a un’ascesi rigorosa. Presto si mette alla scuola di Palamone, un vecchio eremita che abita nei dintorni: da lui Pacomio impara le regole della vita monastica e le tecniche del discernimento degli spiriti, necessario per individuare le trame dei più acerrimi nemici dei monaci, i demoni.

Dopo qualche anno, nel 324 circa, il giovane monaco, su indicazione di una visione (la stessa avuta la notte del battesimo) si reca a Tabennisi, pronto ad accogliere dei discepoli e ad avviare una nuova forma di vita monastica. Alcune fonti ci raccontano di due primi tentativi di vita comune andati male: il primo con il fratello Giovanni, troppo legato a una prassi tradizionale di vita solitaria (sì da rifiutare la proposta di allargare ad altri la fraternità); il secondo con alcuni seguaci, dimostratisi poi troppo disobbedienti per poter vivere insieme.

Al terzo tentativo, Pacomio riesce a formare una comunità monastica, dove lo raggiunge anche la sorella Maria (viene costruito apposta un monastero di donne). In poco tempo, la nuova realtà avviata dal santo raccoglie un successo enorme, tanto da rendere necessarie altre fondazioni (la più importante, destinata a divenire il centro della koinonia, è quella di Pbow) e da attrarre nella

propria orbita alcuni monasteri già esistenti. La storia della koinonia è quella di uno sviluppo imponente, accompagnato da una crescente prosperità economica. Pacomio trascorre infine gli ultimi anni guidando con decisione quella che è divenuta una vera e propria confederazione.

La regola a lui attribuita, scritta in lingua copta, rappresenta la più antica Regola monastica oggi conosciuta e in cui è minuziosamente fissato l’orario relativo al lavoro, alla preghiera, ai pasti, alla penitenza e viene tra l’altro codificato il sistema decanale, ossia la distribuzione dei monaci in gruppi di dieci, criterio adottato anche dalla Regola di San Benedetto (c.f.r. Cap. 2.2). Questi modelli, Antonio e Pacomio, sono importantissimi perché segnano l’inizio dell’esperienza monastica e danno l’avvio a forme differenti di vita alla ricerca dell’unità fisica e spirituale.

In Cappadocia san Basilio di Cesarea († 379) fondò, numerosi monasteri, portando così alla piena affermazione il cenobitismo: erano comunità che vivevano seguendo i dettami evangelici e le regole morali erano costituite da una raccolta dei principali passi del Nuovo Testamento, con un commento e una esemplificazione pratica. I suoi monaci scelsero la comunione dei beni, la rinuncia di ogni ricchezza, l’amore fraterno, l’assistenza reciproca, la preghiera comune. L’impegno di Basilio si distinse non solo nel favorire il lavoro, inteso come occasione di crescita per il singolo e per la comunità, ma anche nell’individuare nelle azioni caritatevoli la prima preoccupazione del monaco.

A questo proposito i monasteri basiliani si contraddistinsero per lo sviluppo di ospedali, orfanotrofi e ospizi nelle adiacenze del cenobio: un polo assistenziale di primaria importanza, che era punto di riferimento per tutta la popolazione che abitava nelle vicinanze. La sua vita e le sue opere influenzarono grandemente il monachesimo antico e lo stesso San Benedetto.

Ancora prima che gli esempi della vita monastica orientale venissero conosciuti in occidente, l’ideale monastico era sicuramente già presente in Italia8, sede del successore di Pietro e centro di confluenza delle varie correnti religiose e filosofiche del mondo antico. Scarsissime sono però le testimonianze storiche intorno ai primi asceti in terra d’Italia, che vivevano le loro severe esperienze spirituali in modo individualistico, per iniziativa privata e in ambito domestico, senza renderle pubblicamente note.

Fu il vescovo alessandrino Atanasio, giunto a Roma nel 340, a diffondere la prima idea di monachesimo: come si è detto con la Vita di Antonio scritta in greco e tradotta in lingua latina, l’influenza del monachesimo egiziano ebbe modo di esercitarsi direttamente sul movimento ascetico italiano. Sempre sul finire del IV secolo, particolare importanza nella diffusione delle pratiche monacali sulla penisola italiana ebbero le traduzioni della Regola di san Pacomio, a opera di san Girolamo († 420), e del corpus delle regole di san Basilio a opera di Rufino d’Aquileia († 411).

8 Già dal II-III secolo si hanno infatti notizie di cristiani che a Roma conducevano vite austere e penitenti (per approfondimenti si rimanda a San Giustino, I Apologia, 15; Minucio Felice, Octavius, 31; Erma, Simil., IX, 10, 11; Eusebio, Hist. eccl., 6,43). In particolare si trattava di nuclei di asceti, di continenti e di sacre vergini, miranti a riprodurre nella maniera più alta possibile l’ideale cristiano di perfezione.