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I rapporti tra i Comuni e le obbedienze dell’Eremo

3. Il monastero della Santa Croce di Fonte Avellana

3.5 Fonte Avellana e il modello della signoria rurale

3.5.3 I rapporti tra i Comuni e le obbedienze dell’Eremo

Nell’ambito dei nuovi assetti territoriali e con consolidamente del ruolo dei nuovi centri istituzionali, fu inevitabile durante il secolo XIII l’incontro, e nella maggior parte dei casi lo scontro, tra i comuni, le città e i castelli con le autorità territoriali già presenti (laiche ed ecclesiastiche) per estendere la propria egemonia politica, economica e finanziaria. La Congregazione di Fonte Avellana non fu estranea a tutto questo tant’è che, talvolta, si arrivò a scontri violenti, come quello tra il Comune di Gubbio e il Comune di Cagli, il cui principale teatro di contesa furono le terre (e chi le lavorava) e i beni dei monaci. La pressione eugubina sulle obbedienze avellanite era anche tacitamente appoggiata dal potere vescovile di Gubbio, interessato al controllo dei beni avellaniti.

La Congregazione, oltre all’inestimabile valore economico delle obbedienze e alla loro strategica dislocazione sul territorio (c.f.r. Cap. 3.3.4), possedeva un’alta considerazione politica e un profondo rispetto e influenza sugli habitatores, verso i quali l’eremo non aveva mai operato una politica di imposizione o di espansione. Inoltre, le condizioni nel contado avellanita offrivano ormai, per i suoi livellari ed enfiteuti, una consolidata situazione di indipendenza e autosufficienza economica.

Dal canto suo Gubbio, dopo la vittoriosa battaglia nel 1051 sotto la guida del vescovo Ubaldo Baldassini († 1160) contro le undici città confederate e guidate da Perugia, divenne libero Comune, riconosciuto successivamente con ampi privilegi sia da Federico Barbarossa151 († 1190) che da Enrico VI († 1197) e da

151 Nel 1177 Federico Barbarossa aveva imposto, a favore di Fonte Avellana, la speciale tuitio (difesa) non solo da fideles, marchiones, comites, capitanei et valvasores, ma anche dai consules civitatum.

Ottone IV († 1218). La città diede ben presto inizio a una forte azione di espansione e controllo verso i territori limitrofi, inasprendo nuovamente i rapporti con la città di Perugia. Inizialmente cercò spazio verso Nocera e Fossato e successivamente verso nord est, nelle Marche e lungo la via Flaminia, nei territori dipendenti (direttamente o indirettamente) dalle città di Cagli e Sassoferrato, ma soprattutto dove le obbedienze dell’eremo erano più numerose, estendendosi su chiese, castelli e nuclei abitati fino alle porte di Pergola.

Anche il libero Comune di Cagli, situato sul Colle della Banderuola, inizialmente città di transito della via consolare Flaminia, cominciò ad attuare una politica di espansione che, anche con il ricorso alle armi, lo portò a prendere possesso di oltre cinquanta castelli, e le sue milizie arrivarono fin dentro i chiostri avellaniti (Mazzacchera, 1990). Proprio il podestà della città di Cagli nel 1208 dichiarava che tutti i dipendenti dell’Eremo erano cittadini del Comune al solo scopo di imporre tasse e tributi sulle terre bonificate, coltivate e condotte nella tradizione damianea.

Numerose furono le litterae e-vecutoiiae inviate dai pontefici, con le quali, oltre a prendere sotto la propria protezione i beni dell’eremo, si cercava di proibire che i comuni, in particolare Gubbio, Sassoferrato e Cagli, “arrecassero molestia” alla comunità monastica. Nel 1251 papa Innocenzo IV († 1254), su istanza del priore Bartolo († 1265), e sull’esempio dei suoi predecessori Gregorio VII, Onorio III, e Gregorio IX, pone l’eremo con tutti i suoi possessi e beni sotto la protezione della Santa Sede, confermando tutte le libertà, immunità ed esenzioni (Marra, 1996). Lo stesso l’imperatore Federico II († 1250) intervenne con un mandato per proibire a un comune marchigiano non identificato, di arrecare molestia” a un hospitale soggetto all’eremo. Anche il Rettore del Ducato di Spoleto, nel 1254, rivendicò la protezione apostolica dei possedimenti avellaniti e dei principali castelli fondati nei decenni precedenti, ordinando al vescovo di Gubbio, di non “molestare” nè i monaci dell’Eremo di Fonte Avellana né i confratelli del monastero Sant’Andrea dell’Isola dei Figli di Manfredo.

Nonostante i beni avellaniti godessero della protezione papale e imperiale (c.f.r. Cap. 3.5.1), i fermenti sociali e le ingerenze dei comuni aumentarono. Molti castelli medievali vennero così distrutti o gravemente danneggiati sia per le guerre che i comuni ingaggiarono per sottometterli, sia più direttamente per la ribellione dei sudditi dei feudatari e talora anche dei “dipendenti” del monastero. Furono danneggiati castelli e beni appartenenti, direttamente o indirettamente agli avellaniti, soggiogate alcune città e villaggi e obbligati gli abitanti a trasferirsi all’interno dei castelli (come nel 1257, quando gli abitanti dei castelli152 siti nel territorio controllato dal Comune di Gubbio, ma dipendenti da

152 Castello di Montesecco (diocesi di Cagli), di Leccia (diocesi di Nocera), di Campietro, di Capitale, di Isola dei Figli di Manfredo (Costacciaro) e di Villa Sorte (diocesi di Gubbio) e di Sorchio e Scheggia.

Fonte Avellana, istigati e spalleggiati dagli eugubini, si ribellarono ai monaci, incendiando e distruggendo questi castelli, saccheggiando e rubando tutto quello che si poteva (Petrucci, 1988)).

Molte famiglie si trasferirono a Pergola, e/o furono costrette a raggiungere i castelli di Costacciaro153 e di Serra S. Abbondio154. Tra i comuni, castelli e città di pertinenza di Gubbio e Cagli ci furono solamente brevi intervalli di pace. Un primo accordo tra i due comuni fu stipulato solamente nel 1258, dopo che Perugia nel 1257 occupò parte dei territori eugubini che furono poi restituiti con il trattato di pace del 1273. Vantando privilegi ed esenzioni papali e imperiali, Fonte Avellana rivendicò sempre i suoi diritti sulle proprietà e beni che con la forza i comuni si erano accreditati. Una costante di Fonte Avellana nella difesa dei propri diritti fu la quasi assenza del ricorso alla giustizia ordinaria, sia per i costi che implicava sia per le sentenze sproporzionate e difficili da riscuotere che prevedeva. Fonte Avellana riconobbe fin dall’inizio i liberi Comuni155, osservandone consuetudines e leggi e continuò regolarmente, attuando le regole indicate da san Pier Damiani, a portare avanti la gestione dei propri beni. Senza quindi sottoporsi al giudizio dei magistrati imperiali ricercò la migliore soluzione delle controversie, cercando sempre la collaborazione fra le parti e il godimento equo del bene conteso.

Ma l’evolversi degli eventi determinò la necessità di accettare le crescenti richieste di emancipazione della popolazione rurale156. Oltre all’interesse economico e strategico di nobili e semplici feudatari157, che ponevano con opportuni accordi i propri beni sotto la protezione dei comuni, nei principi ispiratori e fondanti dei nuovi ordinamenti comunali vennero intraviste, e in molti casi coltivate, nuove opportunità di libertà da parte delle popolazioni rurali. Aspirando all’emancipazione, le popolazioni dei possedimenti avellaniti e i vassalli feudatari, spesso fomentati dagli eugubini, incominciarono quindi a ribellarsi ai monaci di Fonte Avellana e ai signori feudali. I contrasti nati dalla prima metà del secolo XIII con le proprie popolazioni ha le caratteristiche tipiche di quelle “rivoluzioni paesane”, dove la scintilla non è legata a un vero e proprio risentimento, ma scaturisce da un disegno esterno di eversione pilotato per tutt’altri scopi che quelli del miglioramento delle condizioni degli habitatores (Sinatti D’Amico, 2010).

153 Castrum Costacciarii, edificato ampliato e consolidato sotto l’influenza eugubina.

154 Serra Sant’Abbondio, vide la sua struttura ripianificata urbanisticamente nel 1255 dagli eugubini che restaurarono le sue difese a protezione del passo per Pergola e a controllo della pianura verso Sassoferrato.

155 CFA Vol. 2; nn. 273, 368, 279 Vol. 6, perg. n.768.

156 Tra il 1254 e il 1265 le CFA (Vol. 5) oltre ai molti rinnovi d’enfiteusi, due donazioni pro anima, nove vendite. Emergono inoltre sette carte di affrancazione (pro affrancancatione, absolutione et quietatione de omnibus servitiis, usantiis et reddibus) per via delle controversie con i vari comuni, che si stanno affermando anche nelle zone rurali (estratto da Brunetti, 1994).

157 Anche per questo, come emerge dagli atti raccolti nel terzo e quarto Volume delle Carte, tra il 1203 e il 1253 le donazioni e le concessioni incominciarono a ridursi e il processo di espansione dell’eremo subì un rallentamento.

La Congregazione diede, quindi, avvio a un progressivo processo di affrancazioni dal vincolo simbolico di servitù e vassallaggio all’eremo, naturalmente esigendo il ritorno dei beni di proprietà. Fu il priore Bartolo o Bartolomeo (1254–1265) ad avviare questo processo158 di maturità civica, necessario però alle contingenze e che i suoi successori proseguirono. L’affrancazione, dei singoli o di intere collettività, in molti casi veniva richiesta negli atti di arbitrato a soluzione delle controversie con i comuni. In questi casi l’eremo mirava a garantire il miglior trattamento per gli habitatores delle obbedienze avellanite contese, evitando in particolare di farli considerare parte dei beni immobili (terre e castelli) al centro dei contenziosi. Cercò di garantire sempre condizioni di vita migliori o almeno analoghe a quelle godute sotto l’amministrazione avellanita159.

Con il priorato di Albertino, interventi di rivendicazione dei diritti violati, di rispetto degli obblighi assunti e di emancipazione e rispetto delle popolazioni si presenteranno sempre più frequenti e la sua azione diplomatica di pacificazione

158 CFA Vol. 5, nn. 732, 733, 734,755, 756, 757.

159 Un caso interessante è proprio il ricorso alla Santa Sede che l’eremo fece contro il comune di Gubbio per avere risarciti i danni subiti nel 1257 (Gubbio diplomatico VIII 5. SASG, Libro Rosso, c. 61v.). Rimettendosi al giudizio del cardinale Umberto (Liberto), diacono di S. Eustachio venne trovato un accordo per porre fine alla vertenza sorta tra il comune e l’eremo. L'arbitrato stipulato il 10 novembre 1265 prevedeva: (Estratto da Petrucci, 1988): 1) che il comune di Gubbio procurasse che gli abitanti dei suddetti castelli e rispettivi distretti restituissero all'eremo di Fonte Avellana, avanti la festa di s. Lucia, tutti i feudi e quanto a questi apparteneva di cui si erano impossessati dal giorno in cui fu a lui rimessa la causa. Inoltre dovevano dare all'eremo metà di tutti i beni immobili dovunque e comunque acquistati durante lo stesso tempo. Per quelli mobili invece ogni singolo od ogni famiglia doveva sborsare all'eremo otto libbre di ravennati; 2) che procurasse inoltre di far restituire pacificamente, prima della festa dell'Epifania, la metà di tutte le possessioni che i suddetti avevano comprato o avuto in enfiteusi dall'eremo, e che fosse in facoltà di questo ritirare anche l'altra metà restituendo il prezzo debito, oppure lasciarla loro con l'obbligo d'un annuo censo o fitto;3) che tutti quelli che affermassero di aver comprata qualche possessione o di tenerla in enfiteusi, dovessero dimostrarlo nella curia di Gubbio; 4) che tutte le vendite delle possessioni e dei beni immobili fatte dai suddetti abitanti dal tempo della distruzione dei castelli in poi fossero nulle e il comune di Gubbio dovesse farsene rendere conto; 5) che nullo dovesse essere qualunque acquisto o conferma di beni fatti od ottenuti nei distretti dei suddetti castelli dopo che al predetto cardinale fu commessa la causa; 6) che i luoghi dove esistevano i detti castelli dovessero di diritto appartenere a Fonte Avellana, e fosse in facoltà di questa fabbricarvi abitazioni per i suoi dipendenti; 7) che le persone dei predetti luoghi dopo aver soddisfatto ai loro obblighi verso l'eremo fossero dichiarate libere insieme i loro discendenti da ogni vincolo di servitù e vassallaggio e, quali uomini liberi e cittadini romani, potessero testare ed esercitare qualunque atto legittimo; 8) che le stesse persone dovessero stare in avvenire, come tutti gli altri del territorio di Gubbio, sotto la giurisdizione del comune e del podestà di questa città, e non si dovessero loro imporre aggravi maggiori di quelli che l'eremo soleva, salvo sempre il diritto della Chiesa Romana su di loro; 9) che, infine, se cercassero, circa le predette disposizioni, recar molestia all'eremo, il comune e podestà di Gubbio dovessero prendere la difesa dell'eremo. L’11 giugno 1266 fu proprio il priore Albertino che diede mandato a Clario (converso di Fonte Avellana), di dare attuazione l’arbitrato stipulato il 10 novembre 1265. Vennero quindi sciolti da ogni vincolo di servitù e vassallaggio tutti gli abitanti, e i loro eredi, delle obbedienze avellanite dei Castelli di Leccia, Campietro, Sorchio e Capitale (Mittarelli J. B., Costadoni A., Annales Camaldulense, IX, Venezia, 1773, pp. 73-74) rendendoli così “uomini liberi e cittadini romani”, potendo così “testare ed esercitare qualunque atto legittimo”. Ancora il 3 dicembre del 1269 ritroviamo la richiesta da parte dell’eremo di esecuzione dell’arbitrato per le sanzioni previste e non ancora risolte (CFA Vol.6; Pergg. Coll. Germ. nn. 489, 490, 491, 492).

con i poteri comunali assunse un peso rilevante160. Dai suoi interlocutori, il priore Albertino fu presto definito, proprio per le sue capacità diplomatiche, communis amicus. Attraverso un attento lavoro diplomatico, cogliendo i segni del tempo riuscì a costruire nuovi e buoni rapporti con le autorità comunali e recuperare il contrasto apertosi con le popolazioni rurali.

Egli, dando, infatti, seguitoal processo di affrancamento da quei vincoli che le concessioni avellanite avevano precedentemente creato, nelle controversie su proprietà e confini con i Comuni pose una particolare attenzione agli aneliti di libertà personale e politica delle popolazioni locali. Le carte del priorato albertiniano (CFA Vol. 6) attestano comunque una attenta amministrazione del patrimonio per tutelarne l’integrità e migliorarne la resa. Riprendono, infatti, le donazioni, le cessioni, le riconferme di enfiteusi su terre, case, orti e mulini, le concessioni a vita e a laboritium, le locazioni, gli affitti e anche nuovi acquisti e permute di terre161 per azioni di ricomposizioni fondiaria.

È così che, attraverso un continuo negoziato tra le forze politiche non solo locali, teorizzando la divisione equa dei prodotti della terra e affermando l’uguaglianza e il diritto degli uomini secondo il principio non servuli sed homines162, la “riforma” di Fonte Avellana riscopre le sue origini, pur in un contesto storico profondamente mutato rispetto a quello di Pier Damiani. Anche se convinto promotore della libertà e dell’emancipazione del popolo, sia fisica dal potere laico ed ecclesiastico, sia politica dall’impero e dai feudatari, Albertino voleva comunque che questi restassero fedeli alla Chiesa almeno nel campo spirituale. L’eremo ritornò quindi a svolgere un ruolo ispiratore per le popolazioni rurali e nella sua funzione istituzionale diventò esempio di scelta, di possibilità di autogestione per le amministrazioni comunali circostanti. Tutto il priorato di Albertino fu, infatti, caratterizzato da documenti e atti di rivendicazione dei diritti offesi e di affrancazione, che vennero comunque portati avanti dai priori successivi, come il caso del 1303 quando il priore Giacomo affrancò ben 22 capifamiglia163 (18 della Foce e 4 di Frontone) (Pierucci, 1988). In questo nuovo contesto, Fonte Avellana va considerata come forza sociale incentivante non solo l’economia agraria ma anche quella urbana delle nuove realtà politiche comunali.

160 Per maggiori approfondimenti si rimanda a Brunetti, 1994 e Atti del XVIII convegno del centro studi avellaniti, 1994.

161 Vengono attestati, da parte del priore Albertino, acquisti di beni terrieri (CFA Vol.6, Pergg. Coll. Germ. nn. 653, 738) e permute (CFA Vol.6, Pergg. Coll. Germ. nn. 485, 504, 545, 601, 659,672, 709,).

162 Non servi ma uomini.

3.6 La crisi dell’eremitismo, la decadenza e la soppressione