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Trasformazioni e sviluppo oltre la Peste nera

La peste, che non si manifestava in Europa dal secolo VIII, tornò tragicamente ad affacciarvisi nel Trecento a seguito dell’intensificato movimento di carovane e di armati che le steppe eurasiatiche conobbero dopo l’avvento della dominazione mongola. Tramite esso, infatti, i roditori selvatici della steppa, portatori cronici della peste bubbonica, poterono attraversare le frontiere epidemiologiche ed estendere il contagio ad animali e uomini fin sulle sponde del Mar Nero. Il flagello fece la sua funesta apparizione in Italia nell’autunno del 1347 e di lì, con devastante rapidità, si propagò per l’intera Europa, aggredendo per ultima la Scandinavia nel 1349 e spazzando via complessivamente almeno un terzo della popolazione.

È facile intendere come un evento di tale portata fosse destinato a produrre mutamenti profondi negli ordinamenti della produzione agro-pastorale e negli assetti demografico-insediativi. L’arretramento dei coltivi a seguito del calo demografico fu certamente tra i fenomeni di maggiore evidenza e più diffuso riscontro. Venuta meno la forte pressione esercitata sulla terra da una popolazione in crescita, i terreni marginali, gli appezzamenti di minore produttività, i divelti strappati con scarso risultato alle montagne presero a essere via via abbandonati. Non di rado si diede il caso di cospicue superfici restituite all’incolto. Quasi ovunque, pianure costiere e terreni di fondovalle, che capillari lavori di drenaggio avevano sottratto con fatica alla palude e all’acquitrino, sarebbero tornati alla condizione originaria per il venir meno di una sistematica manutenzione dei canali e dei fossati.

La vicenda che si viene esaminando presenta, tuttavia, anche facce diverse, sulle quali pure sarà bene soffermarsi. Proprio l’abbandono delle terre peggiori e uno sfruttamento meno spinto dei campi più fertili consentirono, infatti, l’aumento delle rese cerealicole che le fonti testimoniano con una certa chiarezza a muovere dalla fine del Trecento. L’espansione dell’incolto nelle sue varie forme (sterpeto, prato naturale, bosco, macchia, etc.) poté rendere, inoltre, meno problematica quella coesistenza fra pratica agricola e pastorale che, in ragione dell’ampliamento dei coltivi dispiegatosi incessantemente a partire dal Mille, aveva conosciuto fra XIII e XIV secolo una delle fasi di maggiore difficoltà. Sulle più alte colline e in montagna, il recupero alla copertura forestale di aree più o meno vaste contribuì, altresì, a ripristinare le condizioni di un equilibrio ambientale che disboscamenti talora dissennati avevano in molti luoghi compromesso. Si aggiunga, infine, che il forte calo della popolazione rurale, il diradarsi della trama insediativa, il conseguente abbandono di interi parcellari agevolarono quel processo di concentramento della proprietà fondiaria e di razionalizzazione del suo sfruttamento che nelle regioni dell’Italia centrale determinò, soprattutto a seguito dell’investimento di capitali cittadini, quella sempre più vasta affermazione della mezzadria poderale della quale si è detto.

In merito all’assetto insediativo è da ricordare che la crisi del popolamento investì le campagne non meno pesantemente che i centri urbani. Numerosi villaggi e minori agglomerati contadini furono spazzati via dai flagelli che si susseguirono incessantemente nei secoli XIV e XV: è il fenomeno ben noto dei

“villaggi abbandonati” (Wüstungen per la storiografia tedesca, fra le prime ad aver posto attenzione al problema), che vistosamente interessò, nella fase storica in esame, gran parte dei territori europei.

Dei 170.000 insediamenti rurali computati in Germania intorno al 1300 ben 40.000 non esistevano più nel 1500; su 625 comunità provenzali testimoniate nel 1315 almeno 177 mancavano all’appello nel 1471. Esiti analoghi si ebbero anche in Italia, dove la Sardegna e talune aree del Mezzogiorno registrarono percentuali altissime di abbandoni; nella Campagna Romana, fra la metà del XIV secolo e gli inizi del successivo, scomparve, come sembra, circa un quarto dei presidi abitativi.

Bastano le epidemie di peste, i terremoti e le ondate di maltempo, le distruzioni operate da eserciti e soldataglie, le carestie a motivare mutamenti di questa portata nella distribuzione delle sedi umane?

Se il ruolo di tali calamità non va enfatizzato, nulla tuttavia autorizza a minimizzarlo. Compilare nutriti elenchi di abbandoni riconducibili a eventi catastrofici è senz’altro possibile per molte regioni; ciò non deve, però, far dimenticare che in molti casi intervennero ragioni di natura diversa e che, quand’anche l’abbandono fosse originato da qualche sciagura, esso avrebbe potuto non risultare definitivo se cause di carattere economico e sociale non fossero intervenute a dissuadere dalla ricostruzione, dal tornare sui luoghi una volta che il pericolo fosse passato.

La restituzione all’incolto, in seguito alla minore pressione demografica, di terre marginali e scarsamente produttive ebbe certamente il suo peso in taluni contesti: non aiuta, comunque, a spiegare la scomparsa di tanti villaggi del ferace openfield inglese, né quella così ricorrente di casali e castelli del Mezzogiorno italiano, terra di antica agrarizzazione e, spesso, di buona produttività. Si tratterà, piuttosto, in questi e in altri casi, di tenere nella dovuta considerazione - muovendo sulla strada aperta da Wilhelm Abel nella sua riflessione sulle Wüstungen dell’Europa centrale - l’andamento del mercato cerealicolo nel secolo successivo alla Peste nera e il crollo dei prezzi che fece registrare; esso orientò, infatti, risolutamente la scelta della grande proprietà e dei signori verso l’allevamento, per i cui prodotti (carne, lana, pelli, formaggio, etc.) la domanda non subiva flessioni e i prezzi si conservavano remunerativi.

Ne conseguì, soprattutto nelle regioni europee a dominante cerealicola, l’abbandono di numerosi villaggi e del relativo territorio a beneficio di una ricomposizione fondiaria in chiave pastorale che passò per l’esproprio e la proletarizzazione di grandi masse contadine. Ove ciò poté accadere, gli abbandoni non ebbero carattere di provvisorietà ma generarono paesaggi nuovi, che almeno in parte sono ancora sotto i nostri occhi: è il caso delle enclosures inglesi - la cui realizzazione comportò la scomparsa di centinaia di comunità coltivatrici - e di tante regioni dell’Italia del Sud interessate dall’impresa allevatizia signorile e dalla pratica della transumanza, promossa attraverso la costituzione delle dogane statali dei pascoli.

Il contrarsi delle terre seminative comportò generalmente l’incremento delle superfici destinate al pascolo; si crearono, pertanto, le migliori premesse per lo sviluppo dell’allevamento, che fu incoraggiata anche dai prezzi dei prodotti che

ne derivavano. A beneficiare della situazione fu, più di quello stanziale, l’allevamento transumante, cui prese a indirizzarsi, per l’utile che ne proveniva in termini di entrate fiscali, l’attenzione dei governi.

In Italia, riaffermando il monopolio pubblico sui pascoli contro i ricorrenti abusi di signori e comunità, la Repubblica di Siena, lo Stato della Chiesa (probabilmente con Martino V), il Regno di Napoli istituirono speciali uffici - le “dogane” del bestiame - cui venne affidato il compito di promuovere e organizzare la migrazione delle greggi che in autunno scendevano dalla montagna appenninica alle pianure costiere e in primavera riprendevano la strada dei pascoli alti, nonché quello di riscuotere quanto dovuto dai pastori per l’erbatico e la protezione a essi accordata. Il Tavoliere delle Puglie, la Maremma senese e quella alto-laziale, la Campagna Romana e le acquitrinose distese della Marittima (Lazio meridionale) divennero fra Tre e Quattrocento l’approdo di un numero crescente di ovini e, in misura secondaria, di bovini.

La Dohana Menae Pecudum, la cui riorganizzazione Alfonso il Magnanimo aveva intrapreso nel 1443, accoglieva vent’anni dopo, entro i pascoli di Puglia, circa 600.000 capi, che aumentarono nei decenni successivi fino a raggiungere nel 1536 il numero di 1.062.400. Nel 1496 l’imposizione della “fida” fruttava alle finanze del Regno ben 100.000 ducati.

Dall’arco alpino e prealpino alle Marche, all’Abruzzo, alla Sardegna, alla Sicilia, migrazioni stagionali di minore portata intervenivano a completare il quadro di un’attività che, alla fine del medioevo, interessava ormai gran parte del territorio italiano. Analogamente - com’è noto - altre regioni mediterranee conoscevano, al contempo, un forte sviluppo dell’allevamento transumante. In particolare, di una solida organizzazione fruì, a partire dal secolo XIII, la pastorizia del Regno di Castiglia. Si è calcolato che nel XV secolo le greggi organizzate dalla Mesta siano arrivate a riunire fra i 2 milioni e mezzo e i 3 milioni di ovini, destinati, peraltro, a divenire ancor più numerosi nel secolo successivo.