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I progressi che la pratica agricola fece registrare fra XI e XIII secolo in Europa furono in netta prevalenza di natura “quantitativa’, ovvero legati all’incremento delle superfici coltivate. Strumenti e tecniche colturali conobbero miglioramenti ben più modesti di quanto, soprattutto in passato, si sia potuto ritenere (giungendo a prospettare, per i secoli centrali del medioevo, una “rivoluzione” nei sistemi di coltivazione). Vi furono, tuttavia, anche per questi aspetti, alcune novità significative, delle quali è opportuno far cenno; esse riguardarono essenzialmente il settore primario della produzione, quello cerealicolo.

Si ebbe, anzitutto, nel periodo indicato una sempre più larga diffusione di quell’aratro a versoio, provvisto di coltro e talora di ruote, che, sebbene più pesante e, dunque, di uso meno agevole, introdusse nell’equipaggiamento del coltivatore un attrezzo di efficacia certamente maggiore che l’aratro simmetrico dominante nei secoli precedenti. Alla caratteristica di strumento meramente “discissore” (ovvero in grado di fendere il terreno) propria di quest’ultimo, l’altro aggiungeva, grazie appunto al versoio e al vomere asimmetrico, la capacità di rivoltare le zolle (e, dunque, di realizzare un più profondo rinnovamento dei suoli).

L’affermazione dell’aratro a versoio non si registrò ovunque, né, laddove si ebbe, avvenne negli stessi tempi; si aggiunga che il ricorso a tale strumento non escluse in molte regioni l’uso di tipi di aratro meno complessi. Per quanto riguarda gli strumenti aratori in uso nell’Italia medievale (materia ancor oggi insufficientemente indagata), si tratterà di osservare anzitutto come l’elevato numero di arature testimoniato per le regioni del Sud e talune del Centro induca a pensare all’impiego di quell’aratro leggero e simmetrico, di antica tradizione mediterranea, con il quale “il rovesciamento delle zolle” poteva ottenersi soltanto praticando “arature ripetute e incrociate” (Cherubini, 1996, p. 26): è di questo tipo d’aratro ch’è stata rilevata la diffusione in Puglia (ove la stessa “natura del suolo non favoriva l’uso di aratri pesanti”: Licinio, 1983, p. 47) e in altre regioni del Mezzogiorno.

In altri contesti è, tuttavia, attestato il ricorso a strumenti di maggiore complessità. In un caso fra i meglio conosciuti, quello delle Marche, è stata registrata una larga diffusione del perticaro e del piovo. Il secondo, indicato specialmente per i suoli più duri e compatti o di recente dissodamento, poteva “essere fornito di ruote” e aveva “vomere e coltro in ferro”, mentre il perticaro non aveva ruote “pur avendo vomere e coltro in ferro, anche se di peso un po’ inferiore a quelli del piovo” (Anselmi 1976, p. 207).

Accanto a essi, probabilmente di più raro riscontro, la “piovina” (o vomeria): strumento più leggero, utilizzato - come sembra - per i lavori di rifinitura che precedevano la semina o facevano seguito a essa per la copertura del seme, come pure nella lavorazione degli orti.

Figura 5 - Miniatura in calendario (l’aratura), anno 1000 circa; Cotton ms. Tiberius B. V., f. 3r., Londra, British Library.

Figura 6 - L’aratura: miniatura dal Salterio di Luttrell, XIV secolo - Londra, British Library.

In altri contesti è, tuttavia, attestato il ricorso a strumenti di maggiore complessità. In un caso fra i meglio conosciuti, quello delle Marche, è stata registrata una larga diffusione del perticaro (Fig.7) e del piovo. Il secondo, indicato specialmente per i suoli più duri e compatti o di recente dissodamento, poteva “essere fornito di ruote” e aveva “vomere e coltro in ferro”, mentre il perticaro non aveva ruote “pur avendo vomere e coltro in ferro, anche se di peso un po’ inferiore a quelli del piovo” (Anselmi, 1976, p. 207).

Accanto ad essi, probabilmente di più raro riscontro, la “piovina” (o vomeria): strumento più leggero, utilizzato - come sembra - per i lavori di rifinitura che precedevano la semina o facevano seguito a essa per la copertura del seme, come pure nella lavorazione degli orti.

Figura 7 - Il perticaro (A: dentale, B: bure, C: coltello, D: vomero, S: stegola, F: versoio, G: vite, H: cuneo, I: anello passa corde, L: caviglia) da Pierucci, 1999.

Oltre quelle relative allo strumento cui si attribuiva la generica denominazione di aratrum, provvisto di vomere simmetrico e coltro ma privo di ruote, non sono rare anche nella documentazione toscana le menzioni del perticaro, che risulta presente fino al secolo nostro solo nella parte orientale della regione (Casentino, Val di Chiana, Val Tiberina); tale strumento, munito pur esso di coltro, sembra differire dal primo essenzialmente per la ricorrente presenza del vomere asimmetrico, a forma di mezza vanga e, dunque, di minor peso. Simile al perticaro doveva essere quella celloria (il cui nome direttamente richiama la “sloira” d’età moderna) testimoniata per molte zone del Piemonte a partire dal XII secolo, verosimilmente munita di versoio e che una rappresentazione cinquecentesca mostra fornita di un grande “orecchio” e di una lunga stegola. Da osservare come nelle fonti statutarie della stessa regione (e particolarmente in quelle del Fossanese e del Monregalese) ricorra con frequenza anche la menzione del plovum, dotato qui come nelle Marche di avantreno a ruote (carruca) e per il quale è documentata nel caso specifico anche la presenza di coltro, “orecchio” e due manici. Del plovum si hanno attestazioni, seppur rare, anche per l’area veneta, dove sembra conoscere ampia diffusione uno strumento denominato versorium, munito di coltro.

Allorché il seminativo veniva fatto riposare, il coltivatore si trovava a poter distribuire nell’arco di oltre un anno i diversi lavori d’aratro (ed eventualmente di vanga o di zappa), scegliendo per essi il momento più adatto. Il numero delle arature variava a seconda dei luoghi, in dipendenza di molteplici fattori: la natura e la qualità del terreno, le caratteristiche dell’attrezzo in uso, la disponibilità di forza-lavoro e di animali da tiro, la consuetudine locale, etc. Nel caso in cui si trattasse di preparare alla semina autunnale un campo appena liberato dalle messi, il ciclo dei lavori si faceva, di necessità, più contenuto.

Nel De Agricultura il fiorentino Michelangelo Tanaglia suggerisce, per questa circostanza, il ricorso a due arature: una successiva alla mietitura, la seconda

nell’agosto-settembre; ma i documenti della stessa area parlano anche della possibilità di un terzo passaggio dell’aratro. Circa il maggese (terreno destinato a riposare fino alla semina dell’anno successivo) il De Crescenzi attesta come “gli huomini ammaestrati, ed esperti nell’agricoltura” (Trattato della Agricoltura, I, p. 90: l. II, cap. 15) ritengano che si debba arare tre o quattro volte. Dalle tre alle cinque arature venivano, di fatto, praticate in area pedemontana.

In Romagna, un documento del 1141 relativo al Cesenate testimonia per l’affittuario di un arativo l’obbligo a svolgere “tres operas de bobus, unam ad rumpere, aliam ad volgere, terciam ad seminandum” (Fumagalli, 1985, pp. 18- 19): se ne deduce che il rivolgimento delle zolle era legato a più passaggi incrociati dell’aratro, strumento dunque sprovvisto di vomere asimmetrico. Negli statuti duecenteschi di Bologna (a. 1288) le arature richieste ai coltivatori sono quattro (“arrumpere, remenare et reterçare et quarta vice cum semine sulcare”); sarebbe, comunque, intervenuto nella seconda metà del XV secolo - secondo quanto rilevato dall’Iradiel (1978, p. 244) - il passaggio dalle quattro alle cinque arature, destinate a mantenersi per tutto il secolo XVI e a cedere, in seguito, di nuovo il passo alle quattro e finanche alle tre lavorazioni. Sempre in Emilia, sono quattro le arature imposte ai rustici dallo statuto di Reggio, mentre tre soltanto vengono richieste a Modena e a Parma.

Nel tardo Quattrocento il Tanaglia prescrive, sulla base della sua esperienza toscana, che il maggese venga arato a febbraio, aprile, giugno e luglio. Contratti di mezzadria della fine del XIII secolo attestano, per le campagne fiorentine, l’uso delle tre arature (rumpere, menare, rezzare), cui poteva accompagnarsi, in qualche caso, una vangatura. Nel Senese del tardo Duecento e del Trecento si richiedevano solitamente al mezzadro quattro lavorazioni.

In altra terra mezzadrile, le Marche, i coltivatori erano tenuti, secondo testimonianze del XV secolo, a quattro o cinque passaggi dell’aratro (arrumpere, refrangere, remenare et rethocare); le operazioni potevano limitarsi a quattro quando, anziché al perticaro, si ricorresse all’uso del piovo, strumento più efficace, grazie al quale “il refrangere e il remenare” potevano essere realizzati con “un solo passaggio” (Anselmi, 1976, p. 205).

Il numero delle arature praticate cresceva sensibilmente procedendo verso sud: se nel Viterbese del Duecento poteva talora superare quello di sette, almeno otto passaggi d’aratro erano richiesti dagli statuti dei bovattieri romani (a. 1407) per i vasti seminativi del territorium Urbis.

Deve considerarsi che proprio dal fitto ripetersi delle arature poteva venire la risposta più efficace a una delle maggiori preoccupazioni dell’agricoltura mediterranea, quella relativa al mantenimento dell’umidità dei suoli; tutte le operazioni intese alla polverizzazione dello strato superficiale e allo sminuzzamento delle zolle concorrono, infatti, a ridurre fortemente l’evaporazione capillare e ad accrescere, al contempo, la capacità del terreno di assorbire per infiltrazione l’acqua piovana.

L’adattamento alle esigenze di strumenti aratori più robusti e la necessità di una più rapida esecuzione dei lavori a fronte del moltiplicarsi dei seminativi determinarono mutamenti importanti nella trazione animale. Essi interessarono tanto le specie utilizzate per il tiro quanto i sistemi di attacco e lo stesso ricorso alla ferratura. Nei paesi mediterranei continuò a essere il bue l’animale da tiro per eccellenza, pur non mancando, almeno per l’Italia, testimonianze relative all’aggiogamento di vacche e, in presenza di suoli pesanti e mal drenati, anche di bufali.

Nei terreni cerealicoli dell’area padana fecero la loro apparizione, nel tardo medioevo, anche gli equini, a ulteriore sottolineatura delle caratteristiche di una regione che in certo modo si poneva come cerniera fra l’agricoltura centro- europea e quella mediterranea. Ovviamente, il maggior peso degli aratri in uso a partire dal secolo XI-XII finì col rendere necessario l’aggiogamento di più coppie di animali, accentuando con ciò la distanza fra chi a stento poteva permettersi l’equipaggiamento per un aratro leggero e quanti erano in condizione di beneficiare a pieno del progresso delle tecniche.

Si ponessero al tiro buoi o cavalli, la trazione risultò, comunque, nei secoli centrali del medioevo, non poco potenziata dai nuovi sistemi di attacco che allora si vennero diffondendo. L’introduzione del collare di spalla (rigido e imbottito) in luogo di quello in cuoio tenero che, applicato al collo, finiva col premere sull’arteria tracheale rendendo faticosa la respirazione, consentì di sfruttare a pieno le energie del cavallo. Quanto al bue, il perfezionamento dell’attacco consistette nel far gravare il giogo non più sul garrese, fissandolo con una cinghia intorno al collo, bensì sulla fronte, assicurandolo alle corna. Dell’uso di ferrare i cavalli da aratro si hanno notizie certe a partire almeno dal secolo XI. Per i buoi, l’uso di ferrarli si sarebbe imposto solo col tempo, ciò che poté contribuire a renderne l’impiego ancor più economico.

Nella pratica agricola dei secoli di riferimento l’aratro svolgeva senza dubbio un ruolo fondamentale; non per questo è da sottovalutare il contributo di quegli attrezzi che con esso (e talora in sua assenza) componevano ai più diversi livelli l’equipaggiamento del coltivatore medievale, riflettendo pur essi, in certa misura, l’affinamento della tecnologia agraria verificatosi fra XI e XIII secolo. La crescente produzione di ferro, frutto anche dei progressi delle tecniche estrattive, consentì tanto di disporre di un maggior numero di strumenti che di accrescerne l’efficacia e la resistenza ricorrendo più largamente al metallo. Particolarmente preziose, nel quadro degli attrezzi disponibili, erano certamente la vanga e la zappa (dalla lama perlopiù triangolare o a rettangolo, raramente a due rebbi); indispensabili per la lavorazione della vigna, esse potevano sostituire l’aratro sia in mancanza di quest’ultimo sia nei casi in cui lo stesso non potesse essere utilizzato: ad esempio, sui terreni pietrosi, in forte pendìo o negli spazi ristretti dell’interfilare.

All’erpice, costruito sovente interamente in legno e trainato perlopiù da uno o due cavalli (in grado di imprimere allo strumento la velocità necessaria), si

ricorreva per lo sminuzzamento delle zolle in vista della semina come pure per la copertura del seme. Il tipo triangolare, che, più maneggevole, costituì un indubbio passo in avanti rispetto all’erpice tradizionale, di forma quadrata, sembra sia stato introdotto a partire dal XIII secolo. Tardivamente, e solo nelle regioni europee di tecnologia più avanzata, prese a diffondersi la falce lunga, che a partire dal XIV secolo subentrò in parte al falcetto (dentato o liscio), tradizionale strumento del mietitore, e intervenne, altresì, ad agevolare il faticoso lavoro della fienagione.

Con il XIII secolo è da registrare anche l’infittirsi delle menzioni del correggiato, grazie al quale poté aversi una più razionale ed efficiente conduzione della trebbiatura; in area mediterranea, nondimeno, si continuò diffusamente a trebbiare col sistema del calpestamento (utilizzando soprattutto cavalli e asini), anche se ciò poteva determinare una maggiore dispersione del cereale e un certo danneggiamento dello stesso.

Figura 8 - Miniatura di Pol de Limburg, (VX sec) Marzo il mese dell’aratura; Chantilly, Musée Condé “Les très riches heures du duc de Berry”.