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Cadmum: l’affermazione secondo cui Cadmo avrebbe portato l’arte della scrittura dai Fenici alla Grecia si trova già in Erodoto (5, 58); si cf anche Hyg.

Nota preliminare

2 Cadmum: l’affermazione secondo cui Cadmo avrebbe portato l’arte della scrittura dai Fenici alla Grecia si trova già in Erodoto (5, 58); si cf anche Hyg.

Fab. 277 (dall'Egitto alla Grecia) e Isid. Or. 1, 3, 6.

Quidam... repperisse: la menzione di Palamede e Simonide di Ceo in rapporto alla creazione dell'alfabeto greco trova dei paralleli in molti autori (per Palamede si cf. già Stesicoro, PMGF 213, ed Euripide, Palam. frg. 3 Van Looy), ma i numeri delle lettere sono diversi: secondo Plin. Nat. 7, 192 l’alfabeto in origine era composto di sedici lettere, a cui Palamede ne aggiunse quattro e Simonide di Ceo altre quattro

(mentre secondo un’altra tradizione, di origine aristotelica, da lui riportata, le lettere originarie dell’alfabeto erano diciotto, portate a venti da Epicarmo); secondo Hyg. Fab. 277 le prime sette lettere sarebbero state inventate dalle Parche o da Ermes, alle quali Palamede ne aggiunse altre undici, Simonide quattro ed Epicarmo due; secondo Isid. Or. 1, 3, 6-7 la scrittura alfabetica, introdotta in Grecia da Cadmo, si sarebbe avvalsa in origine di diciassette lettere, a cui poi Palamede e Simonide aggiunsero tre lettere ciascuno, Pitagora la y. L'originalità dell'esposizione claudiana si rivela, senza dubbio, nella menzione di Cecrope, totalmente priva di paralleli, mentre per quanto riguarda Lino, una leggenda relativa a lui è variamente riportata da Diod. 3, 67 e dalla voce corrispondente della Suda.

3 Etrusci: è ben noto, e attestato dalle fonti antiche, l’interesse erudito dell’imperatore per il popolo etrusco e la sua storia, a cui egli, secondo Svetonio (Claud. 42, 2), dedicò un’opera storica in greco in 20 libri.

Ab Corinthio Demarato: si tratta, secondo quanto afferma Livio (1, 34, 2) del padre di Tarquinio Prisco. La figura di Demarato in collegamento con l’introduzione della scrittura in Etruria compare solo qui, e si può spiegare con l’interesse claudiano per il mondo etrusco (vedi nota precedente), forse addirittura con la conoscenza da parte dell’imperatore di una specifica tradizione etrusca

(MOMIGLIANO 1932b, n. 74). Del resto, come fa notare BRIQUEL 1988b, pp. 263-271, i

Corinzi erano presenti nella tradizione latina come importatori in Italia di alcune arti (Plin. Nat. 35, 16 e 152 menziona l’arrivo in Italia, al seguito di Demarato, di Ecfanto, che avrebbe introdotto la pittura, e dei fictores Eucheir, Diopus e Eugrammos, attribuendo esplicitamente la prima delle due notizie a Cornelio Nepote).

Aborigines: questo nome designa i Latini, abitanti pre-Romani dell’Italia, in vari autori (cf. e.g. Cato Hist. 5; Cic. Rep. 2, 5; soprattutto Liv. 1, 1, 5).

Ab Euandro: considerato il mitico fondatore del Pallanteum sul Palatino (Verg.

Aen. 8, 51 ss.), introdusse la scrittura in Italia secondo un filone tradizionale molto

ben attestato (Liv. 1, 7; D.H. 1, 33, 4; ma secondo il grammatico Mario Vittorino, GLK VI, p. 23, 14 ss., lo si trovava già in Cincio Alimento, Fabio Pittore e Gneo Gellio). Tradizioni alternative chiamavano in causa Ercole (Plu. Quaest. Rom. 59,

che cita l'opera storica di Giuba, e Max. Victor. GLK VI, p. 194), Carmenta, madre di Evandro (una tradizione di origine forse varroniana, attestata solo in Hyg. Fab. 277, Isid. Or. 1, 4, 1 e in quasi tutti i grammatici), i Pelasgi (Plin. Nat. 7, 192 e Solin. 2, 7). Cf. BRIQUEL 1988b, pp. 254-258.

Et forma: M ha formas con s erasa, probabilmente per influsso delle parole successive; è a mio avviso preferibile per ragioni paleografiche porre a testo forma piuttosto che formae, lezione di alcuni recenziori proposta anche da Beroaldo ed accolta solo da Koestermann e Wellesley.

Sed... fuere: come nel caso dell’alfabeto greco (cf. supra, nota a quidam...

repperisse), anche per quello latino si riteneva che il numero originario di lettere

fosse sedici (notizia già presente in Varrone, come si evince da Pomp. GLK V, p. 98, 21 e p. 108, 10-11).

Deinde additae sunt: è sottinteso litterae. Secondo Plutarco (Quaest. Rom. 54) la

g fu introdotta all’epoca della prima guerra punica da Spurio Carvilio, anche se in

realtà la si può già trovare nelle più antiche iscrizioni degli Scipioni (III sec. a.C.);

y e z (quest’ultima un’antica lettera caduta in disuso) erano impiegate nel periodo

di Cicerone (Orat. 160) solo per scrivere parole greche; x, nonostante la sua comparsa sporadica in antiche iscrizioni, era anch’essa un’aggiunta, non sempre usata. Nel complesso, Cicerone parla in Nat. Deor. 2, 93 di un alfabeto composto alla sua epoca di 21 lettere, escludendo probabilmente, anche alla luce di Quint.

Inst. 1, 4, 7 ed Asper GLK V, p. 547, 13-14, y e z; dato che anche secondo Svet. Aug. 88 e Quint. Inst. 1, 4, 9 l’ultima lettera dell’alfabeto era x, è possibile che

anche al tempo di Claudio, cronologicamente intermedio, l’alfabeto latino fosse considerato di 21 lettere. Un’ipotesi alternativa è che l’alfabeto claudiano inglobasse anche y e z (come di norma nel periodo successivo), essendo così formato da 26 lettere (23 + 3 aggiunte da Claudio stesso), come quello etrusco arcaico.

Tres litteras: si tratta dell’antisigma ͻ, di ʄ e di ᅡ. Della prima lettera non abbiamo alcuna attestazione documentaria certa, il che crea problemi nel capirne l'esatta forma (BÜCHELER 1915 pensava ad un sigma rovesciato, ma dai manoscritti sembra

di ricavare piuttosto una lettera simile allo psi arcadico (Җ); essa doveva eliminare l’incertezza, solo grafica, tra bs e ps ad esprimere per iscritto il suono ps (Priscian.

GLK II, p. 33, 4-13). La seconda doveva servire, invece, ad esprimere graficamente la v semiconsonantica, ed è visibile su alcuni documenti ufficiali di epoca claudiana, mentre successivamente compare solo negli Atti degli Arvales del 60 (cf. Quint. Inst. 1, 7, 26, Gell. 14, 5, 2, Priscian. GLK II, p. 15, 1 ss.). La terza, infine, secondo alcuni indicava forse il sonus medius tra i e u brevi (BÜCHELER 1915,

pp. 13-15 sulla base di un passo, in realtà pesantemente corrotto, di Velio Longo, GLK VII, p. 75, 12ss), ma di fatto si trova nelle iscrizioni pressoché solo ad indicare y breve in parole greche (su tutte e tre le lettere, ma in particolare sulla terza, con ampia disamina delle attestazioni letterarie ed epigrafiche, si cf. OLIVER

1949).

<In> usu: accolgo qui la lezione di una parte dei recenziori usu con <in> preposto da Nipperdey, come fanno Koestermann, Weiskopf, Wuilleumier ed Heubner. Essa mi appare più congruente al contesto rispetto ad usui di M ed altri recenziori, lezione preferita dai restanti editori, ma che può essersi generata per dittografia ed inoltre non significa "in uso", ma "di utilità".

In aere publico [dis plebiscitis] per fora ac templa fixo: trovo convincente riguardo a questo passo la spiegazione di Heubner, il quale ritiene che il testo di M e di una parte dei recenziori publico dis plebiscitis sia il risultato della corruttela di un'originaria lezione publico publicandis plebiscitis (riscontrabile in altri recenziori), a sua volta risultato dello scivolamento a testo di una glossa esplicativa (publicandis plebiscitis) e che dunque dis plebiscitis vada espunto. L'espunzione, del resto, era stata già effettuata da Nipperdey, Orelli-Baiter (secondo cui “in glossa codicis Medicei dis compendium videtur pro decretis”) e Jackson; si aggiunga anche che con “plebisciti” si dovrebbero intendere solo quei provvedimenti presi da Claudio in virtù della sua potestà tribunizia, il che risulterebbe una specificazione non spiegabile. Per quanto concerne il nesso aes publicum, pur essendo di norma utilizzato il solo sostantivo aes, al singolare o al plurale, per indicare le tavole bronzee su cui venivano incisi e dunque resi pubblici i provvedimenti (e.g. Ov.

Met. 1, 92 fixo aere, Tac. Ann. 3, 63, 4 figere aera, cf. TLL I, 1073, 83 ss.), esso

ricorre quasi certamente infra a 12, 53, 3 (M ha in quel punto aere publico con aere aggiunto a margine da mano recenziore a colmare una lacuna di qualche lettera nel testo; si veda la nota ad loc. per le posizioni degli editori). Meno persuasive mi

paiono le numerose altre proposte avanzate, come la croce davanti a dis di Furneaux, Fisher e Goelzer, la scelta di porre a testo publicandis plebiscitis di Koestermann, Weiskopf e Wuilleumier, le congetture publicandis plebi s.c. iis di Wellesley, in aere publicandis plebi litteris di ERIKSSON 1939, pp. 25-26, publicandis plebi senatus consultis di Grotius e Woodman.

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1 Super collegio haruspicum: “circa la fondazione di un collegio degli aruspici”; il collegium o ordo haruspicum Augustorum, di sessanta membri (CIL VI. 2162), infatti, fu fondato poco dopo questo periodo. Gli aruspici, molto considerati nel mondo etrusco, erano invece guardati con diffidenza dai Romani (cf. Cic. Nat.

Deor. 2, 11; Div. 2, 51; Fam. 6, 18, 1), anche se con il tempo entrarono a far parte

dell’ordo haruspicum persone di rango equestre (CIL VI. 2164 e 2168). Sul rinvenimento, negli anni ’40 a Tarquinia, di frammenti degli elogia degli aruspici risalenti al periodo claudiano, di cui due furono dedicati ai propri antenati da M. Tarquizio Prisco, legato d’Africa nel 52-53 e governatore di Bitinia dal 58 al 60 (cf.

infra 12, 59, 1), forse uno dei consiglieri di Claudio in materia religiosa, si cf.

HEURGON 1953. Più in generale, la politica religiosa claudiana si caratterizzò per la

volontà di mantenere vivo il legame con la tradizione, preservandola, e al contempo di inglobare elementi di novità (secondo un atteggiamento di “tradizionalista innovatore”, come definito da GARZETTI 1960, p. 123), nello spirito che l’imperatore

mostra di possedere nel suo discorso sui notabili della Gallia Comata (per un'interpretazione di questa politica come generatrice di contraddizioni difficilmente sanabili cf. MOMIGLIANO 1932b, pp. 52-77 e SCRAMUZZA 1940, pp. 145-

156; per una sua interpretazione nel senso della ricerca di stabilità e sicurezza per lo Stato cf. LEVICK 1990, p. 87): da una parte, infatti, si hanno l'ampliamento del

Pomerio (infra 12, 23, 2-24), la restaurazione delle antiche formalità sacrali dei trattati tramite i fetiales (Svet. Claud. 25, 5 e J. A.J. 19, 274), dell’augurium salutis (infra 12, 23, 1), il compimento di una cerimonia d’espiazione secondo un rituale arcaico per il presunto incesto di L. Silano con la sorella Calvina (infra 12, 8, 1), la cacciata degli astrologi dall’Italia (infra 12, 52, 3), le persecuzioni contro i Druidi (Svet. Claud. 25, 5) e gli Ebrei, verso cui inizialmente Claudio era stato conciliante

(in J. A.J. 19, 280-285 e 287-291 sono riportati due editti del 41 con cui l’imperatore ribadì i privilegi stabiliti da Augusto per gli Ebrei alessandrini e li estese a quelli abitanti nelle altre parti dell'impero; nella lettera agli Alessandrini, sempre del 41, in greco, preservata dal papiro Lond. 1912 rinvenuto a Philadelphia nel 1920-21 e forse coincidente con uno dei due editti summenzionati, il tono è conciliante anche se i torbidi suscitati dagli Ebrei vengono duramente condannati; su questi documenti cf. OSGOOD 2011, pp. 65-67 e 76-79), per poi inasprirsi, fino ad

arrivare, secondo Svet. Claud. 25, 4, alla loro espulsione da Roma nel 49 (secondo D.C. 60, 6, 6, invece, egli si limitò a togliere loro il diritto a riunirsi); dall’altra il tentativo di introduzione a Roma dei Misteri Eleusini (Svet. Claud. 25, 5), forse il riconoscimento ufficiale del culto frigio di Cibele e Attis (ma ciò è dubbio; si cf. SCRAMUZZA 1940, pp. 152-155), la conferma dei privilegi che Augusto aveva

concesso alle associazioni degli artisti e atleti di Dioniso (OSGOOD 2011, pp. 69-72)

e l’accettazione di certe manifestazioni del culto imperiale (nella Lettera agli

Alessandrini succitata, Claudio ammise che ad Alessandria fosse festeggiato il

proprio compleanno, che una delle tribù fosse chiamata Claudia, che in ogni nomos fossero realizzati boschetti sacri in suo onore, che gli fossero elevate statue, pur rifiutando un vero e proprio culto divino con templi e sacerdoti. Cf. HUZAR 1984,

pp. 641-647).

Accitos: sottinteso “dall’Etruria”, poiché lì si trovavano le sedi più importanti degli aruspici (cf. Cic. Har. Resp. 25 e nota seguente).

Primoresque Etruriae: Cic. Div. 1, 92 cita un senatoconsulto in base al quale sei figli dell’alta aristocrazia etrusca dovevano essere istruiti, all’interno di ciascuna comunità, nell’arte dell’aruspicina.

Primoresque... propagasse: su questo si veda Cic. Div. 1, 92 e Fam. 6, 6, 3. Per quanto riguarda propagare, lo stesso verbo torna anche nell’excursus sul Pomerio (12, 23, 2), e una sola volta in seguito (15, 59, 5); SYME 1967-1971, II, p. 931

ipotizzava dunque che Tacito riproducesse anche nel vocabolario materiali claudiani. Cf. anche infra nota a benignitati deum e 11, 23, 2, nota a paenitere. Publica... socordia: a questo ablativo di causa corrisponde in variatio la successiva causale quia... valescant. Per la variatio cf. supra 11, 9, 1, nota a vi... Hibero

Circa bonas artes: circa ad introdurre il complemento di limitazione è attestato da Celso (4, 28, 1) in poi. L’espressione bonae artes, che ricorre anche in Ann. 3, 70, 3 in senso leggermente diverso, ha qui il valore di “sapienza tradizionale”, connotata positivamente in opposizione alle superstizioni straniere.

Externae superstitiones: la sprezzante allusione è qui soprattutto all’astrologia e alla magia (cf. e.g. Ann. 2, 27, 2, dove esse sono definite inania), ai culti egizi e alla religione ebraica (cf. Ann. 2, 85, 4, in cui sono definiti superstitio), al druidismo (Ann. 14, 30, 3), forse al cristianesimo (cf. Ann. 13, 32, 2).

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