4.3 Il labile confine tra carnefice e vittima
4.3.2. I campi di concentramento e di sterminio
In questo paragrafo non è mia pretesa trattare nella sua estensione il fenomeno concen- trazionario, che com’è noto è molto ampio e ha dato origine a una vasta produzione letteraria, artistica, cinematografica. Si intende piuttosto dare un quadro dell’istituzione dei campi di con- centramento e di sterminio, richiamando aspetti sui quali già ci siamo soffermati in precedenza e approfondendo il ruolo che essi hanno nel contesto totalitario. Faremo ciò sempre alla luce delle riflessioni di Hannah Arendt e di autori che ci stanno accompagnando nel presente lavoro.
Si è visto che il campo di concentramento rappresenta un’istituzione centrale per il Re- gime totalitario, un laboratorio di verifica della sua capacità di dominare sull’uomo in maniera totale487. All’interno di esso, gli obiettivi, gli strumenti, le modalità d’azione del Regime sono condotti a un punto di massima tensione, così che le barbarie di cui i singoli funzionari si ren- dono artefici all’esterno costituiscono solo un pallido riflesso di ciò che, al contrario, avviene nel campo. Le atrocità ivi compiute finiscono per essere «the practical application of the ideo- logical indoctrination […], while the appalling spectacle of the camps themselves is supposed to furnish the “theoretical” verification of the ideology»488. Se nell’esercito, nelle fila del Par-
tito, nelle città e in qualsiasi altra realtà collettiva, fine ultimo è ridurre la pluralità all’unità, eliminare le differenze in favore dell’uniformità e in vista della perdita dell’identità individuale, lo stesso accade nel Lager. Qui, anzi, il Regime si spinge là dove non riesce – o non è ancora riuscito – a spingersi nei contesti di vita quotidiana, vuoi perché lì si richiedono processi più lunghi o semplicemente perché incontra forme maggiori di resistenza.
Chi giunge nel campo di concentramento, infatti, è per lo più già provato da tutta una serie di restrizioni e sofferenze fisiche, morali, psicologiche, così da fornire il materiale umano migliore per gli esperimenti che si intendono compiere in quel luogo, al riparo dallo sguardo e dal giudizio del mondo esterno. Scrive a tal proposito Hannah Arendt:
The camps are meant not only to exterminate people and degrade human beings, but also serve the ghastly experiment of eliminating, under scientifically controlled conditions, spontaneity it- self as an expression of human behavior and of transforming the human personality into a mere thing, into something that even animals are not489.
L’autrice utilizza il termine “esperimento”, aggiungendo poco oltre che un esperimento di questo genere può essere compiutamente realizzato solo all’interno del Lager. Personalmente
487 Cfr. ivi, pp. 437-438.
488 Ivi, p. 438. 489 Ibidem.
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– come ho già accennato e come riprenderò – ritengo che il tentativo totalitario di eliminare dall’uomo la spontaneità, di cancellarne l’identità peculiare, di renderlo non-umano, non sia appunto altro che un tentativo, un esperimento, del quale la storia mostra il fallimento. Dunque, certo il campo di concentramento rappresenta il luogo nel quale il Totalitarismo si esprime nelle forme più brutali immaginabili, ma non quello che gli permette di conseguire concretamente i suoi obiettivi ultimi. Esso si spinge fino a modificare profondamente l’uomo, condizionandolo nei suoi tratti più intimi e tipicamente umani e andandone a toccare indelebilmente aspetti del carattere e della personalità; al fondo di tutto, però, l’umanità e l’individualità restano intatte. La stessa spontaneità – aggiungerei – può assopirsi, scoraggiarsi dinanzi alla tragicità del reale, ma non scompare ed emerge, magari improvvisamente, dando forma ad atti di gentilezza e umanità che razionalmente saremmo portati a considerare come impossibili, in contesti che non hanno nulla di umano.
Credo sia ora il momento, prima di riprendere le fila del discorso, di precisare che il rife- rimento alla “disumanizzazione del soggetto”, sia nel titolo di questo lavoro che in quello del corrente capitolo, va compreso alla luce di quanto appena ribadito. In primo luogo, la disuma- nizzazione è appunto l’obiettivo posto dal Totalitarismo, ma mai raggiunto, è ciò verso cui sono orientate le azioni e i progetti del Regime, senza che il fine ultimo sia mai compiutamente rea- lizzato. In secondo luogo, direi che il governo totalitario si avvicina a questo obiettivo più con riferimento ai funzionari che educa, che non alle vittime contro cui si rivolge. Di fatto, i carne- fici finiscono per essere meno umani dei prigionieri che vivono in condizioni subumane. In terzo luogo – come già sottolineato – l’assenza dell’umanità nell’altro, il suo essere non-umano si configura non soltanto come il fine, ma anche come il criterio di giustificazione del tratta- mento riservato a certe categorie di individui, una giustificazione ideologica e insieme psicolo- gica, l’unica in grado di scusare ciò che scusabile non è. Infine, come si evince pure dalla testi- monianza di Bettelheim490 o di Frankl, è lo stesso soggetto internato a percepire di non essere più considerato alla stregua di una persona, bensì di un oggetto che di umano non conserva nulla. Così, la disumanizzazione si determina, dal suo punto di vista, come una percezione sca- turita dal trattamento che gli è riservato, e non come qualcosa in cui lui crede o che sperimenta come reale; o meglio, essa è reale solo nella misura in cui la sente, la vive sulla sua pelle nel Lager, e non in quanto dato di fatto.
490 Si veda l’esergo a questo capitolo.
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Tornando più vicino al fenomeno concentrazionario, si tenga presente che Hannah Arendt scrive quando non sono trascorsi molti anni dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. In tal senso, si conosce ancora poco di questa realtà, specie per quello che concerne, ad esempio, i campi di prigionia sovietici – attivi anche successivamente – e quelli giapponesi.
La scarsità di informazioni, però, non è solo legata alla mancanza di fonti attendibili o – si pensi al caso dei gulag russi – all’impossibilità di toccare certi argomenti senza correre seri rischi. Ci sono, infatti, almeno altri due elementi da considerare: da un lato, la difficoltà del superstite a raccontare quanto vissuto; dall’altro, conseguenza e causa della ritrosia dei soprav- vissuti, l’incredulità che ancora anima il pubblico di ascoltatori. I due versanti della questione sono strettamente connessi, nella misura in cui «the very immensity of the crimes guarantees that the murderers who proclaim their innocence with all manner of lies will be more readily believed than the victims who tell the truth»491 e la vittima, che già fatica a rivivere nel racconto quanto esperito nella quotidianità, finisce per preferire il silenzio, quando non si risolve a con- siderare lei stessa irreale l’esperienza della prigionia. Dopo la liberazione,
the survivor returns to the world of the living, which makes it impossible for him to believe fully in his own past experiences. It is as though he had a story to tell of another planet, for the status of the inmates in the world of the living, where nobody is supposed to know if they are alive or dead, is such that it is as though they had never been born492.
In sostanza appare più credibile l’assassino, che mente sulla propria colpevolezza, che non la vittima; si preferisce credere alla versione del carnefice, e ritenere frutto di una fantasia perversa la narrazione del deportato, poiché ciò che questi racconta è inimmaginabile.
Se i campi di concentramento sono l’istituzione centrale del Regime totalitario, bisogna però evitare l’errore di considerarli altresì un prodotto del Totalitarismo. Quest’ultimo, ancora una volta, si sarebbe limitato a sviluppare nella maniera più tragica e cruenta forme di deten- zione già sperimentate in passato. I primi campi di prigionia nei quali vengono internati non
491 OT, cit., p. 439. Cfr. anche quanto afferma P. Flores d’Arcais, L’esistenzialismo libertario di Hannah
Arendt, p. 63: «La menzogna, perciò, gode di infinita autonomia. Alla fantasia si chiede solo di creare secondo
coerenza. Se vi riesce, nessuna verità di fatto potrà mai disturbare il mentitore […]. La menzogna, inoltre, è in genere assai più verosimile dei fatti realmente accaduti. Proprio perché costruita secondo il criterio della coerenza, le oscurità e gli elementi inspiegabili saranno ridotti a1 minimo. Che è quanto l’uomo in genere cerca. I fatti realmente accaduti, al contrario, si discostano assai da un disegno a filigrana razionale. Offrono resistenza a una spiegazione che si pretenda esaustiva. Conservano “impurità” irrazionali che nessun alambicco storicistico sarà mai in grado di rettificare».
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soltanto militari, ma anche civili, risalgono alla Seconda Guerra Boera (1899-1902) e sono con- cepiti dai Britannici per sfiancare l’esercito e la popolazione nemica493. Successivamente, si diffondono in Russia e poi, specie a partire dagli anni ’30, in Germania e, tra gli altri, in Giap- pone.
I gulag sovietici494 presentano caratteristiche abbastanza affini a quelle di altri campi di
prigionia, per quanto si tratti di luoghi di reclusione in cui la mortalità è piuttosto elevata. Di- verso, invece, è il discorso da fare intorno ai Lager nazisti, molti dei quali, negli anni della Guerra, hanno come scopo principale l’eliminazione della popolazione di origine ebraica. In particolare, «what was different, and of unprecedented horror, in the Nazi genocide of the Jews as it now developed, was the concept and organization of the “extermination camps”»495. Hitler
non si limita a progettare dei campi di concentramento e prigionia analoghi ai gulag russi, ma realizza anche dei veri e propri campi di sterminio.
La frequente confusione tra queste due realtà è legata – secondo Gitta Sereny – all’esiguo numero di superstiti, che non si soffermano sulla distinzione dei termini e faticano a raccontare quanto vissuto, e ad un’universale riluttanza a riconoscere l’esistenza di posti come questi496.
Donatella Di Cesare, da parte sua, ritiene che la stessa Hannah Arendt abbia contribuito alla confusione che si è venuta a generare, «vedendo in Birkenau o in Treblinka solo una variante aggravata del sistema concentrazionario»497 e mettendo a confronto due realtà a tal punto di- verse come i Lager nazisti e i gulag sovietici. Prescindendo dalla questione della responsabilità, resta il fatto che le differenze tra un campo di concentramento e uno di sterminio sono notevoli, e non vanno misconosciute.
In linea generale, possiamo definire campi di concentramento gran parte dei campi che sono stati progettati nel corso della storia recente, nati inizialmente come estensioni delle pri- gioni statali e luoghi dove relegare gli oppositori politici, e successivamente trasformati, per lo più, in «vast slave-labour markets»498. Sicuramente, da uno Stato all’altro, variano i modi di organizzare Lager di questo genere, e ce ne saranno di più o meno duri, ma la principale diffe- renza con i campi di sterminio è data dalle maggiori chance di sopravvivere. La mortalità –
493 Cfr. ivi, p. 440 e Il Mein Kampf di Adolf Hitler, pp. 178-179 [nota 44], oltre all’introduzione di Giorgio
Galli, p. 56.
494 Fino a questo punto del lavoro, come sottolineato in precedenza, non si è prestata particolare attenzione alla
differenza tra campi di sterminio e campi di concentramento, differenza che ora, invece, introduco ed esplicito.
495 ITD, cit., p. 98. 496 Ibidem.
497 D. Di Cesare, Se Auschwitz è nulla, cit., pp. 114-115. 498 ITD, cit., p. 99.
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come accennato – è elevata e le condizioni di vita disastrose, e tuttavia restano possibilità di uscire vivi dal periodo di detenzione499.
I gulag sovietici sono quindi campi di concentramento, ideati per sfiancare fisicamente l’uomo, abbatterne le difese psichiche, condurlo eventualmente alla morte a causa del duro la- voro, ma non votati allo sterminio per natura500. Essi mirano all’internamento degli individui
indesiderati, sebbene siano indicati «as forced-labor camps because Soviet bureaucracy has chosen to dignify them with this name»501. In pratica, «il cardine del campo era il lavoro; la
morte era la conseguenza estrema. In altri termini: la morte, spesso orribile, era un accidente previsto, ma non programmato»502. Se restiamo sullo studio del fenomeno proposto da Hannah Arendt, vediamo che l’autrice distingue tre diversi sistemi di Lager sovietici, per due dei quali vale la descrizione finora proposta dei campi di concentramento.
First, there are the authentic forced-labor groups that live in relative freedom and are sentenced for limited periods. Secondly, there are the concentration camps in which the human material is ruthlessly exploited and the mortality rate is extremely high, but which are essentially organized for labor purposes503.
Dal momento che, in questi casi, la detenzione rappresenta in genere la pena conseguente a una colpa, sarà inoltre stabilito un limite temporale della reclusione stessa, e dunque la data del rilascio del prigioniero. L’internato del campo di concentramento può quindi riacquistare la libertà, dato che la sua reclusione si misura in mesi e anni. Inoltre, sapere di dover trascorrere nel Lager un periodo di tempo limitato è un fattore che aiuta la sopravvivenza dell’uomo, che vede di fronte a sé – più o meno lontano – un obiettivo da raggiungere, quale appunto la libertà.
Diverso è il discorso da fare per i campi di sterminio. Essi non offrono ai deportati chance di sopravvivenza: chi giunge in uno di questi campi è condannato a morte certa. Come accen- nato, si tratta di installazioni progettate per la prima volta dai Nazisti, ideate come vere e proprie “macchine della morte”, capaci di fare della morte stessa una realtà vivente, e pensati per acce- lerare il progetto di sterminio, in primis del popolo ebraico. Tenendo per buona l’analisi storica proposta da Gitta Sereny, si consideri che soltanto quattro Lager nazisti possono essere – a
499 Ibidem.
500 Cfr. D. Di Cesare, Se Auschwitz è nulla, p. 115: «I deportati in Unione Sovietica, non solo i kulaki, furono
impiegati per disboscare intere regioni, costruire ferrovie e linee elettriche, edificare aree urbane. I campi sovietici erano veri e propri “colossi industriali” che tendevano alla modernizzazione del paese».
501 OT, cit., p. 444.
502 D. Di Cesare, Se Auschwitz è nulla, cit., p. 115. 503 OT, cit., p. 443.
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ragione – definiti “campi di sterminio”, in quanto luoghi concepiti esclusivamente a questo scopo:
first, and as a testing ground, Chelmno (Kulmhof), set up in December 1941. Then, following the Wannsee Conference of January 1942 which, chaired by Reinhard Heydrich, put the official seal of approval on the extermination program, Belsec (March 1942), Sobibor (May 1942), and the largest of them, Treblinka (June 1942). All were within a two-hundred-mile radius of Warsaw504.
Tutti e quattro i campi sono situati in Polonia, specie per l’antisemitismo diffuso tra la popolazione e la possibilità di sfruttare la rete ferroviaria del territorio, e nessuno di essi resta in attività per più di diciassette mesi, dato il rischio connesso alla scoperta di tali installazioni e della loro funzione, da parte dei locali e non solo.
Ora, la distinzione tra campi di concentramento e campi di sterminio non deve trarre in inganno. Quelli elencati qui sopra e individuati in numero di quattro sono Lager – sottolinea Gitta Sereny – «planned exclusively for extermination»505. Ciò non toglie: in primo luogo, che
i campi di concentramento siano talvolta luoghi di transito verso mete ulteriori, quali appunto i campi di sterminio; in secondo luogo che anche lì i prigionieri vengano uccisi spesso arbitra- riamente, vivano in condizioni disastrose e, specie una volta elaborata più compiutamente la soluzione finale, vengano installate strutture per l’eliminazione degli Ebrei e degli altri “inde- siderati” analoghe a quelle dei peggiori campi di sterminio506. Insieme, però, l’autrice ribadisce
che in tali luoghi – pure a Birkenau – restano in ogni caso chance di sopravvivenza maggiori che non in un qualsiasi campo di sterminio. In questi ultimi, invece, gli unici che possono spe- rare di restare in vita più a lungo sono i cosiddetti “work-Jews”507, Ebrei – e detenuti in genere
– addetti al lavoro nel campo e al mantenimento in funzionamento della macchina della morte. Sul loro ruolo e l’assunzione, da parte loro, di comportamenti analoghi a quelli dei carnefici, torneremo nel prossimo paragrafo.
Considerando quanto detto in merito ai campi di sterminio nazisti, Hannah Arendt fa rientrare in questa categoria anche il terzo tipo di Lager sovietici, «annihilation camps in which the inmates are systematically wiped out through starvation and neglect»508.
504 ITD, cit., p. 99. 505 Ibidem. 506 Cfr. ivi, p. 100. 507 Ibidem. 508 OT, cit., p. 443.
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Un’ultima precisazione di carattere storico. La Arendt sottolinea come possa risultare semplice paragonare la detenzione nel campo di concentramento ad altre forme storiche di li- mitazione della libertà umana e di negazione dei diritti dell’uomo, siano esse la schiavitù, il lavoro coatto o la proscrizione. Tuttavia, a ben guardare, si scopre che sono maggiori le diffe- renze, che non i punti di contatto tra realtà a tal punto diverse. Lo schiavo, per esempio, gode comunque di alcuni diritti strettamente connessi al suo status sociale, non è escluso dal consor- zio umano ed è certo considerato – se vogliamo – alla stregua di un oggetto, ma di un oggetto di valore, da rispettare in nome di tale valore; nel Lager, invece, l’internato è separato dal resto della società, privato dei diritti fondamentali e trattato come un oggetto privo di qualsiasi valore. Il lavoro che è costretto a svolgere, inoltre, è assolutamente inutile, o comunque imposto non tanto in vista della produzione di un utile, bensì dello sfinimento fisico del prigioniero. Per questo, non possiamo nemmeno paragonare il detenuto di un campo di concentramento al la- voratore forzato e giustificare l’esistenza dei Lager a partire dal bisogno di risorse belliche, considerato che i Nazisti «in the midst of the war, despite the shortage of building material and rolling stock, they set up enormous, costly extermination factories and transported millions of people back and forth»509. Ed è chiaro, infine, che la condizione dell’internato non è identica nemmeno a quella di un proscritto, costretto solo ad abbandonare il suo Paese, non la compagnia degli uomini, la libertà e – in ultima analisi – la vita510.
L’immagine migliore che Hannah Arendt individua per dare l’idea dei campi di concen- tramento è desunta dalla vita ultraterrena, così com’è stata pensata dagli Antichi, che hanno elaborato la credenza nell’Ade, e dai moderni, che parlano di Purgatorio e Inferno:
To Hades correspond those relatively mild forms, once popular even in non-totalitarian countries, for getting undesirable elements of all sorts – refugees, stateless persons, the asocial and the un- employed – out of the way […]. Purgatory is represented by the Soviet Union’s labor camps, where neglect is combined with chaotic forced labor. Hell, in the most literal sense, was embodied by those types of camp perfected by the Nazis, in which the whole of life was thoroughly and systematically organized with a view to the greatest possible 511.
Le immagini rendono l’idea, ma l’interpretazione dell’autrice è in parte condizionata dalla sua appartenenza al popolo ebraico e dalla maggiore vicinanza a quanto accaduto a quest’ul- timo, rispetto all’esperienza di altri detenuti. Gustaw Herling, infatti, in almeno un passaggio
509 Ivi, p. 445. Queste ultime considerazioni di Hannah Arendt andrebbero incontro alla critica di Donatella Di
Cesare, che probabilmente rimarcherebbe la distinzione tra campi di sterminio e campi di concentramento, descri- vendo questi ultimi come vere e proprie installazioni per lo sfruttamento della forza lavoro dell’uomo.
510 Cfr. ivi, p. 444. 511 Ivi, p. 445.
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riconosce che le atrocità e le modalità di sterminio proprie dei Nazisti differiscono certo da quelle dei Sovietici, ma soltanto nelle forme, poiché i prigionieri di entrambi i Regimi vivono in pessime condizioni e, quotidianamente, a stretto contatto con la morte. Scrive in proposito:
Ora che ho letto qualche testimonianza sui campi di concentramento tedeschi, mi rendo conto che un trasferimento a Kolyma, nei campi di lavoro sovietici, era l’equivalente della “scelta per le camere a gas” dei tedeschi. L’analogia diviene ancora più precisa quando si considera che, come per le camere a gas, i prigionieri per Kolyma erano presi tra quelli in peggior stato di salute; in Russia tuttavia non venivano inviati a una morte immediata, ma a un lavoro durissimo che richie- deva una forza e una resistenza fisica eccezionali512.
Riepilogando quanto già visto intorno a deportati e funzionari dei Lager, è importante