3.1 La menzogna come strumento
3.1.1. Il potere della legge
Parlare di verità e menzogna, specie in riferimento al contesto processuale, ci conduce vicino alla questione della legge e a chiederci quale sia il ruolo della legge nel Totalitarismo, quale la sua forma.
Un elemento è rappresentato dal carattere di segretezza che circonda la legge in tutte le sue espressioni: essa «non prescrive la pubblicità»331. Il Totalitarismo evita sempre la pubbli- cità, quando non è necessaria o rischia di essere deleteria per la sua sopravvivenza, e per questo fa sì – per quanto possibile – che processi a carico di sobillatori e traditori del Regime non abbiano pubblica risonanza. Nel caso del gruppo di resistenza contro il Nazismo della Rosa bianca, questo è particolarmente evidente. Il processo a carico dei fratelli Hans e Sophie Scholl e di Christoph Probst si svolge in tempi brevissimi, e la sentenza di morte è eseguita lo stesso giorno in cui viene emessa. Quando i genitori di Sophie e Hans salutano i figli nel carcere di Stadelheim, poco dopo la conclusione dell’udienza,
nessuno di loro sa in quel momento che non si rivedranno più su questa terra. Ma nelle “alte sfere” si è già deciso, fin dal giorno dopo l’arresto. Condanna ed esecuzione dovevano essere esemplar- mente rapide. Il Gualeiter di Monaco, Giesler, aveva chiesto ai suoi superiori di poter organizzare qualcosa di spettacolare e di indimenticabile: un’impiccagione pubblica nella Marienplatz, nel cuore di Monaco, per esempio. Oppure un’esecuzione nella piazza davanti all’università, per spe- gnere nel terrore qualunque sogno di rivolta studentesca. Ma da Berlino, forse dallo stesso Himm- ler, era giunto un secco rifiuto: la condanna andava eseguita in carcere, bisognava annientare i colpevoli ma guardarsi bene dal creare inutilmente dei martiri332.
Questa vicenda, tra le altre cose, ci mostra che la menzogna agisce spesso – come ve- dremo meglio nel paragrafo successivo – prendendo il posto della verità, e producendo un mondo fittizio, alternativo a quello reale. In sintesi, la menzogna si traveste da verità, e la verità è sostituita dalla falsità, in un mondo nel quale è quest’ultima, in ultima analisi, a imperare.
Un problema forse più grave, però, è che non sono fatti passare per lo più sotto silenzio soltanto i processi, ma l’ignoranza si estende alla conoscenza stessa della legge. Essa perde i caratteri che la rendono strumento valido di governo del territorio e di amministrazione dei rapporti tra cittadini, quali la generalità, l’astrattezza, l’accessibilità da parte di chi voglia con- sultarla333. La legge non può essere nota o – positivamente – può non essere nota, proprio
331 DP, cit., p. 94.
332 Paolo Ghezzi, La rosa Bianca. Un gruppo di resistenza al nazismo in nome della libertà, San Paolo Edizioni,
Milano, 2 ed. 1994, p. 183.
333 Cfr. Luca Mannori-Bernardo Sordi, Giustizia e amministrazione, in Maurizio Fioravanti (a cura di), Lo Stato
102
perché non è più qualcosa di stabile e affermato una volta per tutte, bensì viene a coincidere con «the never-resting, dynamic will of the Fuehrer»334.
Anche Kafka si interroga sulla questione della conoscenza della legislazione, in un bre- vissimo racconto intitolato Sul problema delle leggi335. Nella finzione letteraria, egli sostiene che le nostre leggi siano note solo a poche persone e siano mantenute segrete dai nobili che sono al governo. Inoltre,
la nobiltà non ha chiaramente alcuna ragione di lasciarsi influenzare nell’interpretazione da suoi interessi personali a nostro sfavore, dato che le leggi fin dal loro inizio sono state stabilite per la nobiltà; la nobiltà sta fuori della legge, e proprio per questo sembra che la legge debba essere esclusivamente nelle mani della nobiltà336.
Il testo, come molte altre pagine dell’autore, è in alcuni punti piuttosto oscuro, ma credo si possa interpretare questo passaggio – e il senso generale del racconto – esplicitando una duplice critica presente al suo interno. Da un lato, Kafka rivolge le proprie accuse alla nobiltà, che aspira, fondamentalmente, al mantenimento della propria posizione e del proprio prestigio sociale. Così, essa promulga sempre leggi a suo favore, e tuttavia queste leggi, dal momento che devono tutelare gli interessi borghesi, esigono rispetto da parte del popolo, e non della nobiltà che le impone. Dall’altro lato, tali norme – oltre a essere manifestamente sbilanciate verso un singolo gruppo sociale – non sono nemmeno disponibili alla conoscenza di coloro che sono chiamati a rispettarle. Per questo, l’autore parla di «leggi apparenti [che] possono solo essere supposte»337: si è convinti per tradizione della loro esistenza e del fatto che sono conser- vate segretamente dalla nobiltà, ma questa convinzione non è passibile di verifica, proprio in virtù della segretezza che caratterizza il suo contenuto. Il modo di agire dell’uomo, di conse- guenza, assume un carattere abitudinario, per cui si progetta lo stare al mondo nel tempo pre- sente sulla base dello stare al mondo dei padri e del comportamento da loro adottato.
In pratica, secondo il racconto, noi cerchiamo costantemente di orientare la nostra azione a degli imperativi universali, a delle norme stabili. Poiché, tuttavia, questi imperativi e queste norme sono irraggiungibili, in quanto sconosciuti all’uomo, questi risulta essere in continua tensione verso qualcosa di assolutamente indefinito, incapace anche solo di capire se si stia, effettivamente, almeno avvicinando a qualcosa. Infatti, come progettare di tendere a ciò che
334 OT, cit., p. 365.
335 Franz Kafka, Sul problema delle leggi, in Tutti i romanzi. III-Racconti postumi, pp. 722-723. 336 Ibidem.
103
non si conosce? O come sapere che la tensione che avvertiamo è tensione verso un positivo – e non verso un negativo – se non abbiamo alcuna nozione di questo positivo?
Se nel brano, Kafka sostiene che «ciò che fa la nobiltà, è legge»338, possiamo dire che, nel Regime totalitario, ciò che il leader pensa, fa, dice è legge. Tuttavia, data la dinamicità della volontà del dittatore, diventa per l’uomo difficile – quando non impossibile – capire in che modo assecondarla in ogni situazione, senza travisarla. E d’altra parte, il racconto si conclude con una sentenza lapidaria e provocatoria, che ciò nondimeno aiuta, ancora una volta profeti- camente, a comprendere la presa che il Totalitarismo è riuscito ad avere sulle coscienze dei cittadini. Scrive, infatti, Kafka: «l’unica legge, visibile, indubitabile, che ci è imposta, è la no- biltà e dovremmo noi stessi voler distruggere quest’unica legge?»339. Trasferendo anche questa affermazione al mondo totalitario e fingendo di essere attori di questo mondo, chiediamoci: “Se l’unica legge che ci è imposta è il Führer, è Stalin, e un mondo senza legge è un mondo invivi- bile, siamo disposti a distruggere quest’unica legge che ancora ci vincola?”.
In sintesi, lo scrittore praghese non concepisce come netta la distinzione tra dentro e fuori la legge, tra legalità e illegalità, tra congiura e processo340 – come si evince da questa rapida analisi – ma, in ultima istanza, pare non negare che una legge ci sia, e che stia all’uomo indivi- duarla e seguirla. Certo, forse potrebbe non trattarsi della Legge dello Stato, bensì piuttosto di una legge scritta nei cuori341, ad esempio, sebbene ciò non muti la sostanza del concetto che abbiamo espresso: l’uomo è chiamato a compiere un percorso di appropriazione della norma, che non è qualcosa di semplicemente dato, e di dato una volta per tutte.
Quanto appena detto è velatamente espresso in un altro breve racconto di Kafka, intitolato Dinanzi alla legge342, che riassumo. Un uomo si reca dal guardiano che custodisce il portone per entrare nella Legge, ma questi si rifiuta di lasciarlo passare. «L’uomo riflette e domanda se potrà entrare più tardi. “È possibile”, dice il guardiano, “ma ora no”»343. Anzi, quand’anche
338 Ibidem.
339 Ibidem.
340 Cfr. Matteo Colombi, La giustizia con le ali ai piedi. Analisi di congiura e processo in “Der Prozess” di
Franz Kafka, in S. Micali (a cura di), Cospirazioni, trame. Quaderni di Synapsis II, Le Monnier, Firenze 2003, pp.
167-177.
341 Cfr. Geremia 31,33: «Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice
il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo». Ma si veda anche, ad esempio, I. Kant, Critica della ragione pratica, p. 501: «Due cose colmano l’animo di ammirazione e riverenza [Ehrfurcht] sempre nuova e crescente, quanto più spesso e assiduamente sono oggetto di riflessione: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me [Der bestirnte Himmel über mir, und das
moralische Gesetz in mir]».
342 Franz Kafka, Dinanzi alla legge, in Tutti i romanzi. I. Racconti pubblicati dall’autore, 6. Un medico di
campagna, pp. 575-576.
104
chiudesse un occhio e lo facesse entrare, per il protagonista non cesserebbero le difficoltà, dal momento che si troverebbe a trattare con altre guardie, parimenti restìe a concedergli di proce- dere. L’uomo è quindi posto di fronte a difficoltà che non immaginava di incontrare e, pensando che «la Legge dovrebbe essere accessibile a tutti e in qualsiasi momento»344, decide di aspettare il permesso per entrare. Passano gli anni, ed egli trascorre il tempo sempre in attesa di questo permesso, tentando in tutti i modi, nel frattempo, di corrompere il guardiano. Quando è ormai vicino alla morte, rivolge allora un’ultima domanda al custode della Legge:
“Tutti si sentono portati verso la Legge” dice l’uomo, “com’è possibile che in tutti questi anni nessuno all’infuori di me abbia chiesto di entrare?”.
Il guardiano si accorge che l’uomo è ormai giunto alla fine e per raggiungere il suo udito che sta già spegnendosi gli urla: “Nessun altro poteva entrare da qui, questo ingresso era destinato soltanto a te. Adesso me ne vado e lo chiudo”345.
Come dicevo nel capitolo precedente introducendo Kafka, l’atmosfera di alcuni racconti è a dir poco destabilizzante e, conclusane la lettura, viene spontaneo chiedersi: “E quindi?”. Cosa avrebbe dovuto fare l’uomo, se il guardiano continuava a impedirgli di entrare? Per ri- spondere, possiamo solo lavorare di fantasia: forse, il divieto altro non era che una prova, la prova per essere ammessi al cospetto della Legge. Era ad essa che il protagonista doveva obbe- dire, non ai comandi del guardiano, che sta al di fuori della Legge, ed avrebbe perciò dovuto evadere tale divieto, ignorando gli ammonimenti ricevuti. Inoltre – sembra suggerire Kafka – ognuno ha il proprio accesso alla Legge, per quanto non si neghi mai esplicitamente essa possa avere valore universale. Oppure, in maniera del tutto diversa, non potremmo ipotizzare che una Legge certo ci sia, ma che all’uomo sia proibito stare al suo cospetto?
Un’ultima considerazione. Questo racconto è riportato anche verso la fine de Il processo, narrato da un sacerdote che, insieme a K., cerca di interpretarne il messaggio. Le opinioni di- vergono; infatti, se tendenzialmente si è soliti riconoscere al guardiano una posizione di supe- riorità, si potrebbe altresì ritenere l’uomo in posizione di vantaggio, dato che egli è libero e, come è giunto al cospetto della Legge, può parimenti scegliere di andarsene. D’altra parte, il sacerdote narra la storia pensando proprio alla situazione in cui si trova il suo interlocutore, dal quale si congeda con queste parole: «Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni, ti lascia andare quando vai»346. La corte agisce quindi in maniera analoga al guardiano, che
344 Ibidem.
345 Ibidem. 346 DP, cit., p. 182.
105
accoglie l’uomo quando si reca da lui e non gli impedisce di andarsene, una volta esposto il divieto di entrare. Dunque, forse Josef K. poteva liberarsi del tribunale, qualora lo avesse real- mente voluto? È a tal punto diventato parte del Sistema da non rendersi conto che è imprigionato al suo interno perché privo del coraggio di uscirne? da non rendersi conto di essere, nel mede- simo istante, carnefice e vittima di se stesso? O – come si diceva sopra – si risolve ad accettare l’apparato che lo accusa soltanto perché un’organizzazione è comunque meglio di nessuna or- ganizzazione347?