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5.4 Colpa morale

5.4.1. Il caso Stangl

Nei dialoghi tra Gitta Sereny e Franz Stangl, questi si serve più volte delle giustificazioni qui sopra richiamate, cercando di convincere i giudici e la giornalista della propria buona fede, ma finendo per non credere più nemmeno lui ad esse. Seguiamo il suo cambiamento nel corso delle interviste, senza la volontà di esprimere giudizi morali o di domandarci se egli sia mai realmente giunto a redimersi, quanto piuttosto allo scopo di osservare come – almeno razional- mente e a parole – pervenga a una conclusione che vedremo essere la medesima di Jaspers.

Stangl racconta innanzitutto del momento in cui gli viene affidato l’incarico nell’ambito del programma di eutanasia, il suo stupore alla scoperta di quello che effettivamente accade nel castello di Hartheim, la comprensione del suo superiore, che lo rassicura sul fatto di non dover prendere parte alle operazioni che ivi si compiono, in quanto unicamente «responsible for law and order»571. Una situazione analoga si ripropone, poi, quando gli viene assegnato il comando

di Sobibor: anche in questo caso, egli è in principio all’oscuro dei fini per i quali il campo è costruito. Allora sorge però spontanea una domanda, per mezzo della quale la stessa giornalista cerca di provocare il suo interlocutore: perché accetta? Per quale motivo, una volta scoperto quanto accade a Hartheim e a Sobibor, non rifiuta l’incarico che gli viene proposto?

Se, per il momento, guardiamo solo al primo incarico, possiamo tralasciare le motivazioni particolari che spingono Stangl ad accettare, mentre ci interessa il fatto – sottolineato dalla Sereny e non negato dal comandante – che vi sia possibilità di scelta, che si possa rifiutare il compito proposto. Quando poi si tratta di dirigere Sobibor, Stangl si trova ancora una volta di fronte alla barbarie, e tuttavia accetta, giustificandosi in questi termini: «We agreed that what they were doing was a crime. We considered deserting – we discussed it for a long time. But how? Where could we go? What about our families? […] We also knew what had happened in the past to other people who had said no»572. Egli non si vede costretto ad accettare il primo

570 Cfr. ibidem.

571 ITD, cit., p. 51. 572 Ivi, p. 113.

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incarico per paura, lo accetta e basta, ma per paura dichiara di non aver osato rifiutare il se- condo. Ha fatto la sua scelta: tra migliaia di morti, e la morte sua e/o della sua famiglia, sceglie le migliaia.

Un primo aspetto che emerge da quanto detto finora è che una possibilità di scelta c’è sempre: «sotto il nazismo, all’uomo che desideri restare tale, si presenta una scelta più facile che conservare la propria vita, la morte»573. In condizioni estreme, anche la morte costituisce una possibilità, rappresentando un gesto di grande responsabilità e l’unico atto che – magari – si è nella posizione di poter compiere liberamente. Infatti,

il destino guida l’uomo, ma l’uomo va perché così vuole, e sarebbe libero di non volere. Il destino guida l’uomo che si fa strumento delle forze distruttive, e diventa in tal modo perdente, non vin- citore, […] una creatura sporca e peccatrice che ha assaggiato il terribile potere dello Stato tota- litario, un uomo che è caduto, si è inchinato, ha avuto paura e si è sottomesso574.

Come si è più volte ribadito nel capitolo precedente, per quanto risulti evidente che

in un tempo così terribile l’uomo non è più artefice della propria felicità, e che il destino del mondo ha ricevuto il diritto di graziare o punire, portare alla gloria o coprire di fango, e trasfor- mare in polvere di lager, tuttavia non è concesso al destino del mondo e alla Storia, alla gloria o all’infamia della lotta di trasformare coloro che hanno nome di uomini. Qualunque cosa li attenda, la celebrità per la loro fatica o la solitudine, la disperazione e la miseria, il lager e la condanna, essi vivranno da uomini e da uomini moriranno, come quelli che sono periti hanno saputo fare; proprio in questo consiste per l’eternità l’amara vittoria umana su tutte le forze maestose e disu- mane che ci sono state e ci saranno nel mondo575.

Tornando a Stangl, vediamo come egli, nel corso delle conversazioni con la giornalista, riesca comunque a trovare un riparo di fronte a tanto male, a trovare un conforto nell’idea di non aver mai fatto altro che l’amministratore, senza uccidere personalmente nessuno.

Scrive Gitta Sereny: «It is, I think, because of this universal acceptance of a false concept of responsibility that Stangl […] has felt for years that what is decisive in law, and therefore in the whole conduct of human affairs, is what a man does on isolated occasions rather than what he is»576. È grazie a questo falso concetto di “responsabilità” che il comandante nazista è in grado di essere, per lo più e nonostante tutto, in pace con la propria coscienza. È grazie a una frammentazione della responsabilità, tipica dello stesso Sistema totalitario, che egli riesce a portare avanti gli incarichi che gli vengono affidati.

573 Vasilij Grossman, Vita e destino, tr. it. di C. Bongiorno, Jaca Book, Milano 1984, p. 532. 574 Ivi, pp. 533-534.

575 Ivi, p. 849 [corsivo mio]. 576 ITD, cit., p. 124.

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Per certi versi, anche Stangl propone una teoria della colpa – così come ce la propone Jaspers, sostenendo che affinché si possa davvero parlare di colpevolezza, devono esserci alcuni elementi specifici. In proposito, si consideri questo passaggio, estrapolato dalla narrazione della sua esperienza come comandante di Treblinka:

“But you, months before, had acknowledged to yourself that what was being committed here was a crime. How could you, in all conscience, volunteer, as you were doing now, to take any part in this crime?”

“It was a matter of survival – always of survival. What I had to do, while I continued my efforts to get out, was to limit my own actions to what I – in my own conscience – could answer for. At police training school they taught us […] that the definition of a crime must meet four require-

ments: there has to be a subject, an object, an action and intent. If any of these four elements are

missing, then we are not dealing with a punishable offence”.

“I can’t see how you could possibly apply this concept to this situation?”

“That’s what I am trying to explain to you; the only way I could live was by compartmentalizing

my thinking. By doing this I could apply it to my own situation; if the ‘subject’ was the govern- ment, the ‘object’ the Jews, and the ‘action’ the gassings, then I could tell myself that for me the fourth element, ‘intent’ [he called it ‘free will’] was missing”.

[…]

“What if you had been specifically assigned to carry out the actual gassings?” “I wasn’t”577.

Queste affermazioni, alquanto interessanti, richiamano alcuni dei concetti precedente- mente espressi. In breve, vediamo che ancora una volta la giornalista desidera capire cosa ha spinto Stangl ad accettare l’incarico a Treblinka. Ormai, il gerarca nazista non può più avanzare come pretesto l’ignoranza di ciò cui andava incontro, ben sapendo a quale scopo erano costruiti i campi di sterminio. Così, egli ripiega nuovamente su giustificazioni legate alla sicurezza, ma insieme chiarisce come facesse a sopportare l’insopportabile vita del Lager e a reggere il peso della responsabilità, e dunque per mezzo di una compartimentazione del pensiero.

In sostanza, Stangl si considera innocente dal punto di vista criminale, non avendo mai ucciso nessuno, e innocente sotto l’aspetto morale, non avendo mai avuto alcuna intenzione di sterminare gli Ebrei. Poiché era il Governo a stabilire che gli Ebrei andassero eliminati nelle camere a gas e lui, in qualità di comandante, si limitava a eseguire gli ordini senza condividerne le motivazioni retrostanti, ecco che egli si sentiva al di sopra di ogni responsabilità e poteva lavorare come un qualsiasi amministratore, che mai si sporca le mani con gli affari della sua azienda.

577 Ivi, p. 163 [corsivo mio].

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Più oltre, la giornalista domanda a Stangl se davvero non approvasse i pregiudizi razziali del Regime e non avesse mai nutrito odio nei confronti degli Ebrei.

“Well, you were part of this: did you hate?”

“Never. I wouldn’t let anybody dictate to me who to hate […]”.

“What is the difference to you between hate, and a contempt which results in considering people

as ‘cargo’?”

“It has nothing to do with hate. They were so weak; they allowed everything to happen – to be done to them. They were people with whom there was no common ground, no possibility of com- munication – that is how contempt is born. I could never understand how they could just give in as they did. Quite recently I read a book about lemmings, who every five or six years just wander

into the sea and die; that made me think of Treblinka”.

“If you didn’t feel an overriding sense of loyalty to the Party or its ideas, what did you believe in during that time in Poland?”

“Survival,” he said immediately. “In the midst of all that death – life. And what sustained me

most was my fundamental faith in the existence of just retribution”.

“But […] how is it that you were not as afraid of this ‘just retribution’ you were certain existed

and which, when it came, was bound to include you?”

“It was all part of the way I construed it for myself; I am responsible only to myself and my God.

Only I know what I did of my own free will. And for that I can answer to my God. What I did without, or against my free will, for that I need not answer…”578.

In questo passaggio, emerge di nuovo il desiderio di sopravvivere, che forse si fa anche più forte nel luogo dove impera la morte, e assieme ad esso è espressa una credenza distorta in una forma altrettanto alterata di retribuzione. Stangl si considera al di sopra di ogni colpa, poi- ché tutto ciò di cui è accusato lo ha fatto senza o contro la sua volontà. Dinanzi a Dio, rispon- derà – così crede – solo di quanto ha compiuto volontariamente, non di quanto – parafrasando – gli è stato ordinato di fare.

Quest’idea si pone in antitesi col modo in cui affronta la questione della colpa Jaspers, che riconosce non essere sufficiente tenersi lontano dal male o vivere nel male con distacco per risultare esenti da colpe. È anzi colpevole e responsabile di quello che accade pure colui che non protesta, che non cerca di cambiare la realtà, che esegue gli ordini per paura. Egli è colpe- vole politicamente, moralmente, metafisicamente – come vedremo – e, nel caso di Stangl, anche penalmente, sebbene quest’ultimo non sia disposto ad ammetterlo.

Mi avvio a concludere.

Fin qui, non è emerso alcun riconoscimento di responsabilità e di colpa da parte di Franz Stangl, e per questo stupiscono le risposte alle domande conclusive dell’intervista.

578 Ivi, p. 232 [corsivo mio].

189 “My conscience is clear about what I did, myself”, he said, in the same stiffly spoken words he had used countless times at his trial, and in the past weeks, when we had always come back to this subject, over and over again. But this time I said nothing. He paused and waited, but the room remained silent. “I have never intentionally hurt anyone, myself”, he said, with a different, less incisive emphasis, and waited again – for a long time. For the first time, in all these many days, I had given him no help. There was no more time. He gripped the table with both hands as if he was holding on to it. “But I was there”, he said then, in a curiously dry and tired tone of resigna- tion. These few sentences had taken almost half an hour to pronounce. “So yes”, he said finally, very quietly, “in reality I share the guilt… Because my guilt… my guilt… only now in these talks… now that I have talked about it all for the first time…”

He stopped. He had pronounced the words “my guilt”: but more than the words, the finality of it was in the sagging of his body, and on his face.

After more than a minute he started again, a half-hearted attempt, in a dull voice. “My guilt”, he said, “is that I am still here. That is my guilt”.

“Still here?”

“I should have died. That was my guilt”.

“Do you mean you should have died, or you should have had the courage to die?” “You can put it like that”, he said, vaguely, sounding tired now579.

Ripeto non essere nostra intenzione né esprimere un giudizio morale sull’operato di Stangl – giudizio che per di più sarebbe superfluo e scontato – né cercare di capire se egli sia veramente pentito quando pronuncia queste affermazioni. D’altra parte, perseguire un siffatto obiettivo implicherebbe un misconoscimento di quanto si è detto finora, con Jaspers, sulla re- sponsabilità morale. Solo Dio e la coscienza del comandante sanno, e solo loro possono perciò giudicarlo moralmente con cognizione di causa. Quello che ci interessa è piuttosto che Stangl arrivi ad ammettere una qualche colpa, che identifica con il semplice fatto di “essere stato lì, presente, nei campi di sterminio, di aver vissuto nella società dei campi di concentramento, di essere sopravvissuto ad essa e a quanti essa ha condannato a morte”. Al netto di tutto, rifiutando l’accusa di essere un criminale della peggior specie e un uomo privo di valori morali, il gerarca nazista finisce per riconoscere quella colpa che la stessa indagine di Jaspers conduce a scoprire, la colpa metafisica, di cui ora ci occupiamo.