4.3 Il labile confine tra carnefice e vittima
4.3.3. La dialettica carnefice-vittima
La questione del rovesciamento dei ruoli in ambito totalitario è complessa, perché la cosa che viene più spontaneo fare è giudicare i carnefici e commiserare le vittime. Dunque, descri- vere il boia come una vittima, e la vittima come complice del boia può risultare a prima vista fuori luogo e politicamente scorretto. Tuttavia, il Totalitarismo dovrebbe averci ormai abituato a questi rovesciamenti, essendo animato da una logica che differisce di molto dalla nostra. E in questo senso, anche riconoscere nel funzionario totalitario una vittima, così come nel deportato il braccio indispensabile della guardia, è necessario a comprendere nella sua poliedricità il fe- nomeno che stiamo trattando.
In ogni caso, vi è forse un versante della questione che ci è più semplice analizzare. Pare, infatti, risultare più faticoso vedere nel carnefice una vittima, che non nel prigioniero del Lager un vero e proprio carnefice. Ciò è valido anzitutto in riferimento a categorie specifiche di inter- nati, come i criminali, cui spesso è affidata la gestione dell’ordine dei prigionieri nel campo.
522 OT, cit., p. 459. In proposito, si veda R. Bernstein, Riflessioni sul male radicale: Arendt e Kant, p. 7: «È in
questo senso che i manovratori dei regimi totalitari manifestano tutta la loro pericolosità, perché non si limitano a trattare le vittime come qualcosa di superfluo, ma trattano se stessi come se le leggi della natura e della storia trascendessero anche loro».
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Ma, al di là di questo, sono gli stessi internati sopravvissuti alla guerra a descrivere i terribili compromessi cui sono scesi per restare in vita e la distorsione del loro modo di pensare. Gli esempi di tutto ciò sono numerosissimi, per cui mi limito a proporne qualcuno a partire dai testi che ci stanno accompagnando nella presente indagine.
In Into that Darkness, Gitta Sereny riporta anche il dialogo avuto con Stanislaw Szmajzner, sopravvissuto al campo di sterminio di Sobibor, cui rivolge una domanda piuttosto scomoda, chiedendo quali sono – secondo lui – le caratteristiche necessarie per riuscire a rima- nere in vita nel Lager. Il quesito è in realtà ancor più profondo, dato che la giornalista lo pone in questi termini: «What sort of person did you have to be, to survive these camps?»524.
Szmajzner comprende perfettamente il nocciolo della questione, e ammette che l’inter- nato, per sopravvivere, doveva lasciarsi corrompere dal sistema concentrazionario, scendere a patti con esso e adottarne le forme e gli strumenti.
“Yes, we too were corrupted, of course: life was everything. I remember how furious we used to be when the transports came from the East rather than the West. Those coming from Germany, Holland, Austria, Hungary – they brought clothes and above all, food; we could go and choose anything we liked. The ones from Poland and points east had nothing, and then we went compar- atively hungry. It is true, you see, if there hadn’t been gold, we wouldn’t have lived. So, in a sense, their death meant our life”525.
Szmajzner e i suoi compagni di prigionia arrivano a disprezzare i trasporti dell’Est, perché molto più poveri di beni rispetto a quelli provenienti da Ovest; arrivano a sperare, nei giorni in cui i trasporti si fanno più radi, che essi riprendano al ritmo delle settimane precedenti; arrivano – in sintesi – ad esser contenti della morte di altre persone, perché la morte di queste rappresenta per loro la vita. Richard Glazer, internato a Treblinka, esprime di fatto il medesimo concetto di Szmajzner, riferendosi ai periodi in cui beni e trasporti scarseggiavano: «You can’t imagine what we felt when there was nothing there. You see, the things were our justification for being alive. If there were no things to administer, why would they let us stay alive?»526.
Coloro che, tuttavia, forse più di tutti sono provati da ciò che si costringono a fare per sopravvivere nel campo sono i membri dei Sonderkommandos. Si tratta di gruppi di prigionieri, in prevalenza Ebrei, che collaborano con i funzionari dei Lager nazisti nelle operazioni di ster- minio, e dunque nella preparazione dei deportati per le camere a gas, nello svuotamento delle stesse dai cadaveri e nella procedura di cremazione. Al pensiero di ciò, a fatica riusciamo a
524 ITD, cit., p. 130 [corsivo mio]. 525 Ibidem.
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respingere una domanda che nasce spontanea: perché lo facevano? Perché degli Ebrei accom- pagnavano alla morte altri Ebrei? La risposta è presto data: ancora una volta, perché la morte di quelli era la sopravvivenza di questi.
Un’idea piuttosto vivida di cosa significasse essere membri di un Sonderkommando è fornita dal film – già citato in precedenza – Il figlio di Saul, film che ci consente di fare una riflessione ulteriore attorno ai condizionamenti cui il comportamento degli internati è soggetto. Saul, il protagonista della pellicola, svolge in modo abitudinario il lavoro nel Sonderkommando di cui fa parte, entrando in contatto con centinaia di cadaveri al giorno, cadaveri trattati alla stregua di oggetti da buttare. Non è minimamente toccato da quello che vede e pare del tutto insensibile alla realtà che lo circonda, finché un giorno scopre i Nazisti nell’atto di uccidere un giovane che era sopravvissuto alla gassazione. Da quel momento, per Saul esiste solo quel gio- vane, che dice poter essere suo figlio e al quale desidera dare degna sepoltura.
Ciò che voglio sottolineare è la paradossalità della situazione: ci sono centinaia di morti ogni giorno, ma a Saul interessa il ragazzo. Tutti gli altri non sono considerati, né da lui né dai Nazisti, quali persone, ma quel giovane, che non è nemmeno sicuro esser suo figlio, è diverso. Qui vediamo da un lato come nel Lager si verifichi una semplificazione delle emozioni e la loro contemporanea intensificazione; dall’altro, assistiamo alla degenerazione dell’internato, che fi- nisce per trattare i compagni di prigionia, le vittime, alla maniera dei carnefici. Per contrasto, però, dal comportamento di Saul emerge anche un residuo di umanità, prova ulteriore del fatto che l’uomo non perde mai la sua essenza più profonda.
Dunque, per quale motivo il Regime totalitario si serve degli stessi prigionieri alla stregua di carnefici, all’interno dei campi di concentramento? Perché così «hatred is diverted from those who are guilty (the capos were more hated than the SS), [and] the distinguishing line between persecutor and persecuted, between the murderer and his victim, is constantly blurred»527. Rousset, cui si riferisce la stessa Hannah Arendt, ribadisce come, a lungo andare, gli internati dei Lager vengano ad avere un comportamento sempre più simile a quello delle guardie, e ag- giunge altre possibili motivazioni del loro sfruttamento da parte del sistema concentrazionario:
L’existence d’une aristocratie de détenus, jouissant de pouvoirs et de privilèges, exerçant l’auto- rité, rend impossibles toute unification des mécontentements et la formation d’une opposition homogène. Elle est enfin (et c’est dans l’univers concentrationnaire sa raison suffisante et défini- tive d’être) un merveilleux instrument de corruption528.
527 OT, cit., pp. 452-453.
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Ora, una breve considerazione a partire da quelle vittime rappresentate dagli uomini li- beri. Sì, perché come si è detto non soltanto i deportati sono vittime del Regime, ma gli stessi cittadini che vivono all’interno dello Stato totalitario, condividano o meno l’ideologia loro som- ministrata, e – paradossalmente – altresì gli Stati che con tale Regime hanno in qualche modo a che fare. Ebbene, tanto gli uni, quanto gli altri finiscono per adottare comportamenti e atteg- giamenti indotti dal Sistema totalitario e tipicamente totalitari.
Basti un unico esempio a chiarire il concetto.
In Europa, una certa insofferenza nei confronti dell’elemento ebraico è diffusa da ben prima dell’avvento del Nazismo in Germania o dei pogrom in Russia, senza che questo abbia mai reso impossibile la convivenza. L’ideologia totalitaria nazista ha però l’effetto di acuire i motivi di discordia e malcontento in primis dei Tedeschi, ma ben presto anche di altri popoli e governi. Una conseguenza di questo è la tristemente nota Conferenza di Evian del 1938, alla quale partecipano molti Stati per discutere del sempre maggior numero di Ebrei apolidi, in fuga dai territori occupati dalla Germania e in cerca di una patria. Di fatto, le diverse Nazioni non comprendono che la mancata accoglienza delle comunità ebraiche si sarebbe poi tradotta nel loro sterminio e così, rifiutandosi di ospitare gli Ebrei nel proprio territorio o stabilendo delle quote per il loro ingresso, approvano implicitamente i piani nazisti. Ora, noi sappiamo bene quanto infausta sia stata questa decisione per il popolo d’Israele.
Emblematica, in proposito, è l’affermazione di un pastore di Basilea di fronte all’ecces- sivo numero di Ebrei in cerca di rifugio in Svizzera, e alla conseguente presa di posizione del Governo contro questo esodo: «If these people clamouring for admission were politically op- pressed, prisoners of war or deserters they would and could be accommodated. It is the fact that they are Jews that excludes them from receiving the traditional sanctuary of our country»529. Inutile dire che decisioni e fatti dei nostri giorni concernenti l’accoglienza dello straniero o la chiusura di porti e frontiere mostrano che, sebbene i Regimi totalitari siano storicamente crol- lati, non è venuto meno un modo di pensare totalitario.
Per quanto concerne la figura del carnefice, mi limito ad un’analisi più rapida.
In sostanza, di chi è vittima il carnefice? Del Sistema totalitario in cui è inserito e dal quale non è in grado, una volta entrato a farne parte, di uscire, o semplicemente di distaccarsi
529 ITD, cit., p. 217. Si veda anche l’intervento alla Conferenza di Evian del Ministro rappresentante dell’Aus-
tralia che, sostenendo che il proprio Paese non poteva accogliere gli Ebrei apolidi, conclude: «It will no doubt be appreciated also that as we have no real racial problem, we are not desirous of importing one by encouraging any scheme of large-scale foreign migration… I hope that the conference will find a solution of this tragic world problem». Cfr. Australian House of Representatives, Selection Committee, Report No. 23, 28 February 2018, p. 5 [https://www.aph.gov.au/Parliamentary_Business/Committees/House/Selection].
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per mezzo di un pensiero agente autonomo. Così, nel campo di concentramento il carnefice è innegabilmente in posizione di vantaggio, ma è condizionato dal clima che ivi si respira in maniera analoga agli internati: alla fine, «neither the tormentors nor the tormented, and least of all the outsider, can be aware that what is happening is anything more than a cruel game or an absurd dream»530. L’atmosfera di irrealtà che percepisce il deportato è la medesima che viene
percepita dalla guardia, costretta a vivere in mezzo agli stessi orrori, costretta ad abituarsi alla morte, costretta a farsi complice della morte stessa. La rassegnazione e l’abitudinarietà che caratterizzano gli internati sono atteggiamenti che identificano anche i funzionari del Lager, i quali finiscono per credere di non avere altra scelta e possibilità che non sia quella di continuare a svolgere gli incarichi loro affidati.
È chiaro che è difficile scorgere nel carnefice una vittima, ancor più che – si diceva – vedere nella vittima un carnefice, come è chiaro che capiamo maggiormente il deportato che, per sopravvivere, accetta un compromesso, rispetto alla guardia che può scegliere liberamente la vita che intende condurre e accetta di lavorare in un campo di concentramento. Nel capitolo successivo, in particolare, ci interrogheremo proprio sulla questione della colpa e della respon- sabilità dell’uomo di fronte alla barbarie cui il ‘900 ci ha, purtroppo, abituati. Vedremo che, per quanto in misure diverse e secondo una certa interpretazione, siamo tutti colpevoli e tutti vittime dinanzi a una realtà come i Lager nazisti; infatti,
to achieve the extermination of these millions of men, women and children, the Nazis committed not only physical but spiritual murder: on those they killed, on those who did the killing, on those who knew the killing was being done, and also, to some extent, for evermore, on all of us, who were alive and thinking beings at that time531.
530 OT, cit., pp. 445-446.
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CAPITOLO QUINTO
Responsabilità e colpa
Diese Schandtaten: Eure Schuld!
These Atrocities: Your Fault!
Frase della propaganda alleata contro la Germania occupata532
«Ma io non sono colpevole», disse K., «è un errore. Come mai può essere colpevole un uomo? E qui siamo tutti uomini, l’uno come l’altro».
Josef K., Il processo533
Non è semplice trattare di responsabilità e colpa in riferimento al Totalitarismo, e dev’es- sere stato ancor più difficile affrontare la questione in tribunale, a partire dal Processo di No- rimberga (1945-46). Che ci siano delle colpe, che ci siano delle responsabilità è innegabile, ma la loro attribuzione non è altrettanto automatica, come non lo è riconoscere che parte abbia avuto un certo soggetto in una determinata operazione, o stabilire delle pene che siano commi- surate alle colpe stesse.
I Regimi totalitari ci mettono di fronte ad atrocità indescrivibili, tanto che viene sponta- neo chiedersi: a che pro esprimere un giudizio? A che pro comminare una pena? Cos’è la pri- gione a vita o la sentenza capitale, per un uomo che ha fatto uccidere migliaia di persone? Forse le vittime traggono qualcosa dalla condanna del loro carnefice534? Si tratta di domande che ci poniamo in questo contesto, dove tutto appare in scala più grande, ma in realtà sono le mede- sime domande che nascono dinanzi a una qualsiasi delle tragedie che accadono ai nostri giorni.
Il tutto assume poi un carattere grottesco quando si vogliono – o si devono – evidenziare delle differenze, delle distinzioni tra i carnefici: se un omicida merita l’ergastolo, che dire di chi ha fatto dell’omicidio, per anni, il suo mestiere? E la faccenda diventa quasi ironica quando è lo stesso imputato a promuovere considerazioni di questo genere, a mostrare come, nel Male, egli sia stato meno malvagio di tanti altri. Franz Stangl, ad esempio, si trova a dover rispondere
532 Dopo la conclusione della Guerra, nella Germania occupata dagli Inglesi vengono diffusi una serie di ma-
nifesti e volantini che mostrano immagini dei campi di sterminio nazisti e recano la scritta: “Questa è la vostra colpa”. Si veda, ad esempio, https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/04/Eure Schuld.jpg.
533 DP, cit., p. 174.
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di molteplici accuse, in specie di aver guidato il programma di eutanasia nel Castello di Har- theim e di essere stato il comandante di due campi di sterminio, ma accetta più facilmente queste pesanti accuse, che non quella – mossa da un sopravvissuto – di aver sparato in mezzo a un gruppo di prigionieri appena giunti a Sobibor. Scrive Gitta Sereny in proposito:
Stangl, insisting that he had never shot into a crowd of people, appeared to be more indignant about this accusation than about anything else, and to find irrelevant the fact that, whether he shot into the group or not, these very same people died anyway, less than two hours later, through actions ultimately under his control535.
In questo capitolo, ci accompagneranno poi altre domande, come le seguenti: si danno mai realmente delle situazioni in cui viene meno qualsiasi possibilità di scelta, o vale l’antico principio del diritto romano per cui «etsi coactus tamen volui»536?
E ancora: che valore ha la giustificazione, più volte invocata, che in guerra si obbedisce semplicemente a degli ordini? Il sacerdote, che con Josef K. sta cercando di cogliere il messag- gio del racconto sul guardiano della legge, riferisce anche questa, possibile interpretazione: «Alcuni sostengono che questa storia non dà a nessuno il diritto di giudicare il guardiano. Co- munque egli ci appaia, è pur sempre un servitore della Legge, dunque appartenente alla Legge, dunque sottratto al giudizio umano»537. A detta del sacerdote, il guardiano, in quanto servitore della Legge, non va soggetto al giudizio dell’uomo, il quale non può giudicare la Legge, ma soltanto essere giudicato secondo la Legge. Dunque, possiamo noi, autoproclamandoci servi- tori di una Legge giusta, giudicare chi ha servito una legge totalmente diversa?
Tali sono le questioni che ci guideranno nel presente capitolo, unitamente – in particolare – a un testo di Karl Jaspers, Die Schuldfrage, che offre una buona prospettiva di lettura del problema. Per questo, gli esempi e i riferimenti storici che proporrò saranno principalmente connessi al Regime nazista e alla specifica colpa tedesca, così come ce ne parla Jaspers.