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Il superamento e il rinnegamento dell’umanità dell’uomo

4.2 Il soggetto disumanizzato

4.2.6. Il superamento e il rinnegamento dell’umanità dell’uomo

Cosa resta dell’uomo privato della spontaneità, della ricchezza che proviene da ciò che lo differenzia dall’altro, della libertà, del calore di una famiglia e di un gruppo di amici, dell’uomo considerato superfluo, isolato politicamente e socialmente estraniato, dell’uomo che non ha più nemmeno interesse alla propria sopravvivenza?

Personalmente, fatico a dire che l’esito del processo per il dominio totale dell’uomo sia un esito disumanizzante, che priva il singolo della sua umanità. Parlerei, piuttosto, di un supe- ramento-in-negativo dell’umanità dell’uomo, ma non di un suo annullamento. Tale supera- mento-in-negativo avverrebbe tanto nel Nazista o Comunista convinto, che eccede oltre ogni limite umano conosciuto in crudeltà e senso di abnegazione verso il Regime, tanto nella vittima del Sistema totalitario, che viene fatta decadere oltre ogni limite umano a noi noto. Certo, il Totalitarismo aspira alla distruzione dell’umanità dell’uomo, forse sfiora l’obiettivo, ma alla fine si risolve soltanto a rinnegare a parole ciò che gli riesce impossibile annientare in concreto.

Esplicito meglio il concetto con riferimento ad alcune testimonianze preziose.

Franz Stangl, nella lunga intervista di Gitta Sereny, evita ripetutamente di riferirsi ai pri- gionieri ebrei come a delle persone, e insieme di usare termini espliciti circa la fine che essi facevano, una volta giunti al campo nei carri bestiame. A un certo punto, la giornalista domanda al comandante se parlasse mai con i deportati, ed egli risponde di non averne avuto, general- mente, l’occasione, ma riferisce un episodio in cui uno di loro si sarebbe lamentato del tratta- mento riservatogli da una guardia lituana. Allora la Sereny, provocatoriamente, chiede che fine ha fatto, poi, colui che ha sollevato la lamentela:

“I don’t know”, he said vaguely. “Of course, as I said, usually I’d be working in my office – there was a great deal of paper work – till about 11. Then I made my next round, starting up at the

152 time the 5,000 to 6,000 people who had arrived that morning were dead: the ‘work’ was the dis- posal of the bodies which took most of the rest of the day and during some months continued during the night. I knew this, but I wanted to get him to speak more directly about the people, and asked where the people were who had come on the transport. His answer continued to be evasive; he still avoided referring to them as ‘people’474.

Credo che evitare di riferirsi agli Ebrei come “persone” non dipenda solo dal riconosci- mento della loro inferiorità, ma sia anche – e forse soprattutto – ciò che consente di portare avanti il “lavoro”, e dunque di trattarli appunto come “non-persone”. È una sorta di stratagemma mediante il quale il funzionario del Lager cerca di convincere prima di tutto se stesso, poi gli internati, che il suo agire non si rivolge a uomini. Pure l’assenza di riferimenti espliciti a camere a gas o forni crematori testimonia una certa difficoltà – credo – a fare davvero i conti con la realtà del campo di concentramento. È chiaro che tale difficoltà emerge, in molti dei carnefici, solo a cose fatte, magari di fronte a un tribunale che chiede ragione delle atrocità compiute. Mi piace però pensare, forse adottando una prospettiva troppo idealistica dell’animo umano e della sua bontà di fondo, che questa mancata identificazione Ebreo-persona sia più sintomo di un’in- conscia ammissione di colpa e della fatica a riconoscerla pubblicamente, che della piena cre- denza nell’ideologia totalitaria. È perché i funzionari dei Lager sono messi di fronte alla verità di quello che hanno fatto, che cercano inconsapevolmente una giustificazione con il distinguere gli Ebrei dalle persone.

Per esplicitare ulteriormente il concetto sopra esposto, ritengo utile riprendere ora un epi- sodio narrato da Frankl. Egli scrive di una volta in cui, lavorando all’aperto su una linea ferro- viaria, viene picchiato da una guardia per essersi preso un attimo di pausa. Dalle sue parole, traspare un senso profondo di sofferenza non per le percosse in se stesse, quanto per il modo non-umano con cui ci si rapporta a lui: Frankl non ha perso la propria umanità, non si considera decaduto dalla sua condizione di uomo, ma nonostante ciò è trattato come un animale. Scrive in proposito:

Questa guardia non si degna neppure di rivolgere un’ingiuria alla spregevole figura avvolta di stracci, che ricorda solo di lontano una creatura umana, alla figura, insomma, che rappresento per lui. Quasi per gioco, raccoglie una pietra da terra, e me la getta. Si fa così, pensai, quando si vuole risvegliare l’attenzione di una bestia; è così che si ricorda il “doveroso lavoro” a un animale do- mestico, a un animale al quale si è così poco legati, da non volerlo “neppure” punire475.

474 ITD, cit., p. 170.

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Se questi due esempi ci mostrano il superamento-in-negativo del limite umano prevalen- temente dalla prospettiva del carnefice, può essere interessante guardare come tale superamento si manifesta nella vittima. Riporto un brano della testimonianza di una sopravvissuta alla Shoah, Liliana Segre, della quale credo non si possa non apprezzare la limpidezza e la trasparenza nella narrazione, anche là dove molti di noi sarebbero portati a falsare il racconto o nascondere i fatti, vuoi per vergogna, vuoi per il solo desiderio di dimenticare. La Segre narra delle tre selezioni che supera ad Auschwitz, e in particolare di quando nella prima, una volta salva, non riesce a pensare ad altro che alla sua vita che continua, mentre una ragazza che conosce da mesi è di- chiarata inabile al lavoro e avviata alle camere a gas.

[…] Il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile. Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire. Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure, non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e cam- minare, pur di vivere. Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci. Il ri- morso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità476.

Il testo non ha bisogno di commento, credo.

In conclusione, ribadisco che personalmente ritengo che il Totalitarismo conduca al più a un superamento-in-negativo dell’umano, mai a un suo annullamento. Il prigioniero si sente trattato come non-umano, ma sa di essere un uomo; il carnefice agisce da non-umano, ma non perde mai la consapevolezza di essere un uomo, se non altro nel momento in cui esce dal campo e torna in famiglia. Egli, infine, tratta gli internati come non-uomini, ma in fondo sa che è proprio con uomini che ha a che fare, sebbene considerarli tali non faciliterebbe la sua opera di sterminio.

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