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4.1 Il conseguimento del dominio totale

4.1.2. L’uccisione del soggetto morale

Il secondo momento della riduzione dell’uomo a living corpse è rappresentato dall’ucci- sione del soggetto morale. Privando l’individuo della possibilità di agire eticamente, secondo valori universali e condivisi, sospendendo l’etica, quasi essa non fosse che prerogativa di pochi privilegiati, si aspira a cancellare, progressivamente, la stessa umanità quale carattere specifico dell’uomo. Ma ciò non basta. Non possiamo semplicemente dire che il Totalitarismo voglia ridurre il soggetto ai suoi tratti animali, perché anche questi gli vengono negati. L’animale che, vivendo in branco, protegge il suo simile e – se non in situazioni particolari – lo rispetta, finisce per essere ben distante dal cittadino totalitario o dall’internato del campo di concentramento. Il processo di atomizzazione tenta di ridurre realmente l’uomo a una monade senza porte né fine- stre419, costringendolo a compiere azioni che non tengono conto che l’altro, davanti a lui, è egli stesso un essere vivente e un uomo.

Il discorso che stiamo facendo vale, parallelamente, per carnefici e vittime del Sistema totalitario. Gli uni paiono lasciare fuori dal Lager, nel mondo, ogni riferimento morale, tant’è che – vedremo – un padre di famiglia esemplare può essere anche un efficiente comandante delle SS; le altre, invece, rischiano di perdere via via ogni valore, assumendo come unico fine la propria sopravvivenza e adottando comportamenti e svolgendo compiti analoghi a quelli delle guardie. E lo stesso, infine, si può dire del comune cittadino dello Stato totalitario, il quale – nella maggior parte dei casi – tende unicamente, proprio come l’internato, a conservare se stesso e i suoi cari, privato del mondo dal Regime e reso Weltlos420.

In ogni caso, però, è nel campo di concentramento tedesco o nel Lager sovietico che l’uccisione del soggetto morale giunge a compimento e mostra i propri risvolti più tragici. Qui, infatti, la morte stessa è spogliata del suo valore e viene negato all’uomo ciò che, da tempo immemore, nelle forme più diverse, è praticato: il culto e il ricordo dei morti.

418 Ibidem.

419 Cfr. Gottfried Wilhelm von Leibniz, Monadologia, in Scritti filosofici, vol. I, a cura di D.O. Bianca, UTET,

Torino 1967, pp. 283-284.

420 Cfr. D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, cap. III, § 22. Si veda anche p. 239: «Gli uomini sono respinti in

128 The concentration camps, by making death itself anonymous (making it impossible to find out whether a prisoner is dead or alive) robbed death of its meaning as the end of a fulfilled life. In a sense they took away the individual’s own death, proving that henceforth nothing belonged to him and he belonged to no one. His death merely set a seal on the fact that he had never really existed421.

Due sono gli elementi centrali di questo passaggio.

Innanzitutto, la morte è resa anonima, e ciò avviene sia per la necessità di tenere segreto quanto accade nel campo di concentramento, sia per il disprezzo riservato agli internati e l’ef- ficienza del meccanismo volto alla loro rapida eliminazione. I cadaveri non sono altro che pezzi, Stücke, parti di una catena di montaggio422: se ce ne sono centinaia al giorno, come un prigio- niero potrebbe anche solo pensare di rendere omaggio a ciascuno di loro, specie quando lui è ancora in vita? Obiettivo ultimo di tutto ciò – e questo è il secondo elemento che sottolineo – è la cancellazione dell’esistenza stessa dell’individuo. L’omicidio è l’atto di massimo disprezzo della vita, la negazione dell’altro in quanto uomo, individuo, valore, ma la morte, privata del suo significato e realizzata come annientamento, rischia di svuotare del suo significato anche la vita.

È chiaro che l’ideologia totalitaria può condurre a una facile razionalizzazione di quello che accade nel campo di concentramento. Infatti, se gli internati non sono nemmeno uomini, allora ucciderli non è un atto riprovevole, non rappresenta un omicidio. Quando poi la loro uccisione si configura come un vero e proprio annientamento, ecco che ciò rende manifesto al mondo quanto dovrebbe essere già da sempre lapalissiano: costoro non sono mai realmente esistiti.

È comprensibile, però, che una moglie, un marito, un figlio non accettino di non cono- scere le sorti della persona che amano. Cercare di sapere “che fine ha fatto” un proprio caro è

421 OT, cit., p. 452.

422 Cfr. Martin Heidegger, L’impianto, in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, tr. it. di F. Volpi e G. Gurisatti,

Adelphi, Milano 2002, pp. 45-70, pp. 49-50: «L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso [das Selbe] della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso [das Selbe] del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idro- geno». Di fatto, Heidegger paragona la procedura altamente meccanizzata, basata sulla catena di montaggio, dello sterminio degli Ebrei, alla meccanicizzazione dell’agricoltura. Si veda anche D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, p. 244, dove si parla della morte degli Ebrei intesa come annientamento: «L’annientamento ha significato soprat- tutto questo: che la morte è stata preclusa. Di qui la domanda: “muoiono?”, Sterben sie? Piuttosto, diventati Be-

standstücke, “pezzi di riserva”, come tali vengono unauffällig liquidiert – liquidati senza dare l’occhio, in modo

inosservato. In questa liquidazione della questione ebraica ciò che viene trattato nelle officine hitleriane è già stato ridotto a pezzo di riserva. Le SS chiamavano gli internati Stücke, pezzi, e per i cadaveri parlavano di Figuren». In proposito, si può vedere altresì il film Il figlio di Saul (Saul fia, László Nemes, 2015). Il protagonista, Saul, è membro di un Sonderkommando, addetto alle camere a gas in un campo di concentramento. Qui i cadaveri degli uomini uccisi non sono più considerati tali, ma chiamati semplicemente “pezzi”, Stücke, diversamente da quello che riporta la Di Cesare.

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– per certi versi – l’ultimo anello che ancora congiunge chi è libero e chi è prigioniero, o chi, fatto prigioniero, è separato dai suoi familiari. In quest’ultimo caso, ottenere informazioni – certe – è davvero difficile, ed è anzi spesso più proficuo non averne, potendo esse risultare spiacevoli. Altro, infatti, è sapere che non è più in vita nessuno di quelli che amiamo, altro non sapere se costoro siano in vita o meno, e poter comunque continuare a sperare. La speranza tiene in vita, là dove la disperazione accelera il processo verso la morte.

Paradossalmente, Viktor Frankl non sarebbe d’accordo con quest’ultima affermazione. Egli narra come, durante i mesi di prigionia, abbia tratto gran conforto dal pensiero della mo- glie, e linfa dall’amore nutrito per lei e ricambiato:

[…] sperimento in me la verità che l’amore è, in un certo senso, il punto finale, il più alto, al quale l’essere umano possa innalzarsi. Comprendo ora il senso del segreto più sublime che la poesia, il pensiero umano ed anche la fede possono offrire: la salvezza delle creature attraverso l’amore e nell’amore! Capisco che l’uomo, anche quando non gli resta niente in questo mondo, può speri- mentare la beatitudine suprema – sia pure solo per qualche attimo – nella contemplazione interiore dell’essere amato423.

Fino a qui, forse, nulla di strano, trovandosi anzi un ritratto molto bello dell’amore tra due persone, ma poi Frankl aggiunge:

[…] In quell’attimo mi turba un pensiero: non so affatto se mia moglie vive! E capisco una cosa – l’ho imparata in questo momento: l’amore non si riferisce affatto all’esistenza corporea di una persona, ma intende con profondità straordinaria l’essere spirituale della creatura amata […]. Che la persona amata sia viva o no, non ho quasi bisogno di saperlo: tutto questo non riguarda il mio amore, il mio pensiero amoroso, la contemplazione amorosa della sua immagine spirituale. Se avessi saputo che mia moglie era morta, credo che questa consapevolezza non m’avrebbe affatto turbato424.

La riflessione dell’autore è particolarmente interessante, ma leggendo la sua testimo- nianza direi che si coglie l’esperienza di una personalità molto forte, che non viene meno nep- pure nelle condizioni peggiori, mentre riconosce che non tutti godono della stessa sicurezza e saldezza d’animo. Numerosi, infatti, sono anche i casi di individui che, venuto meno l’oggetto delle loro speranze, decidono di lasciarsi andare, senza possibilità di ritorno.

Al di là di queste considerazioni, resta il fatto che l’ignoranza non soddisfa – se non altro – gli uomini liberi: gli internati possono anche arrendersi alla mancanza di informazioni, ma un cittadino che vede improvvisamente sparire la moglie? Dire che egli pretenda delle risposte è

423 V. Frankl, Uno psicologo nei lager, cit., p. 74. 424 Ivi, pp. 75-76.

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forse eccessivo, perché sono presto evidenti i rischi che si corrono mostrando un legame troppo forte con le persone che vengono internate, e tuttavia ci sono situazioni in cui il Regime è co- stretto a dar ragione della sorte di certi individui, dinanzi alle pressanti richieste dei familiari. Allora è chiaro che non riferirà il vero, ma ciò nondimeno deve costruire una qualche verità che possa essere accettata dai parenti della vittima.

Con ciò, si torna alla questione della menzogna come fondamento del Totalitarismo, il cui confezionamento è molto più macchinoso rispetto alla semplice registrazione della verità fattuale. Franz Stangl, ad esempio, riferisce a Gitta Sereny come, nel contesto dei procedimenti e degli esperimenti di eutanasia messi in atto nel castello di Hartheim, venissero restituiti ai familiari delle vittime i loro effetti personali, unitamente alle loro ceneri, e fossero compilati falsi certificati di morte, nei quali si attribuiva il decesso a un attacco di cuore o a qualcosa di simile425. Dunque, la precisione dell’apparato burocratico totalitario si esprime in modo tutto speciale nella costruzione della menzogna, che dev’essere in ogni aspetto credibile e accettata come vera da coloro ai quali si rivolge. È infatti evidente che, nel caso specifico, la mancanza di risposte avrebbe insospettito i familiari, mentre non sarebbe stato assolutamente possibile rispondere fornendo dati reali: in entrambi i casi, gli esperimenti di eutanasia sarebbero dovuti essere interrotti.

Per inciso, la questione dell’eutanasia ci consente di fare una riflessione ulteriore. Stangl riferisce alla sua intervistatrice che le persone, siano esse anziani, giovani, bambini, condotte nel castello di Hartheim o in altre cliniche per ricevere assistenza, venivano in realtà uccise e la loro morte spacciata per morte naturale. Ebbene, tutto ciò suscita l’indignazione dei posteri che, venuti a sapere quanto descritto, hanno condannato e continuano a condannare comportamenti di questo genere. Si consideri, in proposito, il seguente episodio, nel quale Stangl riferisce di una sua visita a Hartheim e del dialogo avuto con la Superiora lì in servizio e un sacerdote:

“We talked for a moment and then she pointed to a child – well, it looked like a small child – lying in a basket. ‘Do you know how old he is?’ she asked me. I said no, how old was he? ‘Six- teen’, she said. ‘He looks like five, doesn’t he? He’ll never change, ever. But they rejected him’. [The nun was referring to the medical commission.] ‘How could they not accept him?’ she said. And the priest who stood next to her nodded fervently. ‘Just look at him’, she went on. ‘No good to himself or anyone else. How could they refuse to deliver him from this miserable life?’ This really shook me”, said Stangl. “Here was a Catholic nun, a Mother Superior, and a priest. And they thought it was right. Who was I then, to doubt what was being done?”426.

425 Cfr. ITD, p. 58.

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Credo un episodio del genere susciti in ciascuno una profonda repulsione e il desiderio di prendere le distanze da quanto è narrato. Di fronte a tale reazione sorge però una domanda: perché? Perché fa scalpore l’eutanasia in questo contesto, mentre al giorno d’oggi non è infre- quente, al contrario, combattere in suo favore? Perché ci provoca leggere di persone – per di più di una suora e un prete – convinte che la vita di un ragazzo non valga la pena di essere vissuta, se nel presente molte coppie sarebbero disposte a selezionare gli embrioni in chiave eugenetica? Non si crede dunque anche oggi che certe vite non siano degne dell’uomo e possano essere soppresse? Temo che scandalizzarsi di ciò che altri hanno fatto prima di noi non sia sufficiente a distinguerci da loro, a sostenere che sono stati compiuti dei passi avanti rispetto al passato. Vi sono aspetti notevoli e tragici del Totalitarismo che si ravvisano pure nella società attuale, segno che, se mezzi e tempi cambiano, non sempre le ideologie svaniscono.

Tornando invece, più da vicino, al tema del presente paragrafo, si diceva che l’internato e il cittadino libero sono progressivamente privati dal Regime del loro sistema di valori e della loro personalità morale. L’apice è raggiunto – secondo la Arendt – corrompendo «all human solidarity [and] by making martyrdom, for the first time in history, impossible»427. In linea di principio, l’affermazione qui fatta non è scorretta, ma rischia – a mio parere – di non dar piena ragione di ciò che l’uomo è e di ciò che egli può fare. Credo si possa convenire con Agostino428,

anche tralasciando il riferimento a un Dio trascendente, che tutto ciò che esiste è, almeno in certa misura, buono. C’è una bontà – provenga essa o meno da un Creatore – insita in tutte le cose, bontà che può essere marcata o fievole, in crescita o in diminuzione. Così, parlare di una corruzione della solidarietà umana ha senso nella misura in cui riconosciamo che la solidarietà è qualcosa di buono e che essa, come quanto vi è di buono nel mondo, può corrompersi429. Propriamente, però, la corruzione non implica l’annullamento di ciò che si corrompe o il suo definitivo decadimento a realtà malvagia, ovvero la perdita totale del bene, bensì una diminu- zione di bene. Qual è il punto?

427 OT, cit., p. 451.

428 Cfr. Sant’Agostino, De libero arbitrio, in Opere di Sant’Agostino. Dialoghi II, intr. di A. Trapè, tr. it. di D.

Gentili, testo latino dall’edizione dei Maurini, Città Nuova Editrice, Roma 1976, 1, 20.54, p. 279. Cfr. anche QD, p. 376 [XIX, 23]: «È insito nell’idea del bene comprendere il male come una negatio: l’idea permette sempre soltanto di riconoscere ciò che è una cosa, e, by implication, che tale cosa non è questo o quello. Sotto l’idea del letto vi sono soltanto letti e oggetti che sono non-letti. Se l’idea del bene è l’idea suprema, allora esiste soltanto il “bene” e una molteplicità di cose che sono definite non-buone; esse hanno tutte la stessa qualità puramente nega- tiva di non essere buone e cioè cattive».

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Il punto è che qui – a mio parere – troviamo uno dei limiti fondamentali del Totalitarismo, rappresentato dall’impossibilità ultima di rendere l’uomo altro da quello che è. La stessa soli- darietà umana è corrotta, non eliminata, perché è l’umanità dell’uomo a non poter essere, in ultima istanza, cancellata. Essa sarà pure misconosciuta – in ciò consiste l’essenza del campo di concentramento – ma non potrà mai essere annullata. Ecco il fallimento vero di qualsiasi Regime totalitario, il quale non riesce a conseguire il suo scopo primario che, fin dall’inizio di questo lavoro, si è visto coincidere con la volontà di mutare l’essenza stessa dell’uomo. Sono molti i casi in cui la solidarietà tra gli internati emerge a portare luce nell’oscurità del campo, e rappresentano anche le pagine più belle della letteratura e le immagini più commoventi dei film che sul tema sono state scritte e girate. Il Totalitarismo, e specialmente l’esperienza del Lager, ha molto da insegnarci: negativamente, “perché non si ripeta più ciò che è stato”; e positiva- mente, perché pure nel luogo della massima abiezione l’uomo resta, in ultima istanza, uomo. E così quella solidarietà che già costa in condizioni normali, tanto più edifica vederla all’opera in condizioni estreme, ed induce i singoli a chiedersi – qualora si lascino davvero toccare – se facciano realmente abbastanza nella loro quotidianità.

Un esempio tra tutti – che riporto nella sua essenzialità – ci è offerto da Massimiliano Kolbe che, nel campo di concentramento di Auschwitz, si offre di prendere il posto di un altro internato, condannato a morire nel bunker della fame. San Massimiliano è l’esempio concreto dell’incapacità del Totalitarismo di annientare l’umanità dell’uomo, e con ciò della possibilità di continuare a vivere umanamente e in modo solidale verso il prossimo anche nelle situazioni peggiori. Egli ci mostra, inoltre, che il martirio è ancora possibile, sebbene forse in forme di- verse rispetto a quelle che siamo soliti considerare, relegando la nozione di “martirio” all’ucci- sione per motivi di natura prettamente religiosa.

Di fatto, Hannah Arendt risulta spesso radicale nelle sue affermazioni, radicalità che si registra, ad esempio, nella critica alla dialettica hegeliana, che presenterebbe una concezione troppo positiva del mondo e del ruolo che il negativo ha in esso. Così, parlando della coscienza, l’autrice riconosce al Totalitarismo «its most terrible triumph when it succeeded in cutting the moral person off from the individualist escape and in making the decisions of conscience abso- lutely questionable and equivocal»430. E tuttavia, l’io è proprio ciò che il Regime totalitario non

può mai definitivamente annientare, e le decisioni della coscienza sono certo rese ambigue, ma mai in maniera assoluta. Perché il singolo, se ben educato, non dimentica la distinzione tra bene

430 OT, cit., p. 452 [corsivo mio].

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e male nemmeno nel regno del male e, messo di fronte a una scelta tra due mali, è in grado di individuare il minore, per quanto non sempre sia anche disposto a sceglierlo.

Con ciò – sia chiaro – non intendo negare la difficoltà nel prendere determinate decisioni, nel Lager o nel mondo esterno, né i rischi cui esse sono esposte, sebbene una buona percentuale del fattore di rischio non dipenda dall’internato, ma dalla guardia, così che il primo dovrebbe fare la sua scelta al netto di tale percentuale. Mi spiego. Tra gli esempi che propone, la Arendt si riferisce all’opzione del suicidio, per cui ipotizziamo un prigioniero lo scelga come soluzione al compromesso di tradire i compagni del campo o la famiglia. Ebbene, anche il suicidio è rischioso, nella misura in cui potrebbe avere conseguenze sugli internati o i familiari della vit- tima mentre, quand’anche il deportato non lo scegliesse e accettasse il compromesso, delle con- seguenze ci sarebbero di certo. Dunque, qual è la decisione di fronte alla quale è messo il pri- gioniero? Tradire la famiglia o i compagni del campo. Cos’è in suo potere? Scegliere chi tradire, o non tradire nessuno, dandosi la morte. In ciò si risolve il residuo della sua libertà, mentre tutto ciò che accade una volta presa la decisione non è in suo potere, tanto più che – qualsiasi sia la scelta – non vi è certezza essa trovi il rispetto della guardia.

Vedremo poco oltre come la difficoltà ad agire secondo coscienza, nel campo di concen- tramento come nello Stato totalitario in genere, sia alla base di un fenomeno quale quello del rovesciamento della vittima in carnefice e del carnefice in vittima. E questo è proprio ciò che accade a Josef K. ne Il processo, che da vittima del Sistema e delle guardie che per il Sistema lavorano, si trasforma in carnefice delle stesse, punite per le lamentele di K. di fronte al giudice istruttore. In questo frangente, in più, egli è soggetto a un ulteriore cambiamento, per cui all’ini- zio si sente responsabile della punizione inflitta ai due funzionari, mentre successivamente sca- rica la sua responsabilità, convincendosi di aver fatto il possibile per impedire la bastonatura. È notevole vedere come Kafka dedichi un’intera pagina alle giustificazioni che K. cerca di tro- vare a sua discolpa: egli era ormai riuscito a corrompere il bastonatore, ma una delle guardie aveva gridato; K. avrebbe anche potuto prendere il posto delle sue guardie, ma certo non gli sarebbe stato permesso; sentendo uno dei funzionari gridare, K. gli aveva dato una spinta, ma