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Il controllo del corpo sociale L’offensiva moralizzatrice

1. Capacità di esercitare il comando, capacità di farsi obbedire Primi esperimenti di disciplinamento.

Dopo aver discusso il problema del mantenimento dell’ordine politico all’interno della civitas e il perfezionamento di logiche di penale egemonico negli Statuti fiorentini del 1409-1415 comunque funzionali a contrastare e reprimere i crimini che quell’ordine turbano e sovvertono, vogliamo, con il presente capitolo, affrontare il problema del mantenimento dell’ordine sociale interno. Il punto di saldatura con i due blocchi tematici precedenti è chiaramente rappresentato dal concetto di ordo, nonché dalle misure che l’élite di uomini al governo della Repubblica fiorentina nei primi anni del Quattrocento – l’élite albizzesca – seppe predisporre ed attuare a salvaguardia dell’ordo civitatis, frammento di quella trama più ampia e onnicomprensiva che è, appunto, l’ordo.

L’idea profondamente radicata nella cultura del tempo è quella per cui la tenuta dell’ordo civitatis presuppone un’opera di attenta conservazione non soltanto delle leggi e delle istituzioni, ma anche dei costumi e della società intera, così come sono. Pertanto, è compito primario e ineludibile dell’autorità politica curare che non venga scardinata neanche una delle tante tessere tenute insieme dall’ingegno divino a comporre il grande mosaico della natura delle cose1. Invero, possono celare minacce o pericoli allo status

1 Cfr. GROSSI, L’ordine giuridico medievale, cit., p. 176: «un grande ordine unitario che si realizza per il tramite di un formidabile strumento di unità. Dio è la garanzia di questo ordine armonico, e l’equità è la dimensione ordinante. Dimensione e strumento della benefica azione divina che discende per gradi dal metafisico (la divinità) al fisico (le cose, la natura delle cose) all’umano (la volontà degli uomini),

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quo – e quindi, indirettamente, alla perpetuazione del potere – tanto i comportamenti

sediziosi e proditori, quanto tutti quegli atti o comportamenti che riflettono le più turpi nefandezze morali, quali le forme di sessualità deviata o contro natura, la prostituzione, il gioco d’azzardo e la corruzione dei pubblici ufficiali2.

Questo il principale motivo che indusse, fin dai primissimi anni del XV secolo, il regime albizzesco a promuovere – con gli esiti che diremo – il controllo della moralità civica. È chiaro, poi, che l’operazione veniva ad assumere significati via via più specifici a seconda dell’ambito di intervento. Così, ad esempio, motivi più che altro di natura fiscale furono alla base della legislazione volta a limitare le spese suntuarie (vestiti e gioielli). Viceversa, le misure predisposte contro la sodomia e la violazione della clausura conventuale erano motivate dalla convinzione che simili azioni offendessero direttamente Dio e fossero, perciò, un pericolo per la città stessa di fronte alla collera divina3. Tali furono l’impegno e l’attenzione profusi nell’attività di contrasto al vizio morale, che da tempo è emersa negli studi dedicati al fenomeno la proposta di qualificare questa campagna, sia pure dai risultati incerti e problematici, come offensiva moralizzatrice4.

Non bisogna, però, pensare che tutta questa offensiva sia stata condotta dall’élite al potere nel segno di una drastica ed inflessibile repressione. Infatti, valutata l’inefficacia della rigida normativa trecentesca che comminava pene – queste sì – estremamente dure contro i sovvertitori dell’ordine morale, gli uomini di governo presero coscienza del fatto che alcune pratiche viziose – ad esempio, la prostituzione o il gioco d’azzardo – non potevano essere eliminate tale era il loro grado di radicamento nel tessuto sociale urbano ed extraurbano, ma solo regolate al fine di ridurre al minimo la loro incidenza5. Il risultato

divenendo giustizia e manifestandosi infine in un sistema di norme scritte o consuetudinarie su quella fondato e costruito».

2 Cfr. SBRICCOLI, Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 103: «Tutto ciò è ordine, ma non solo ordine politico e, in quanto tale, almeno in teoria, criticabile e rovesciabile: tutto ciò è anche ordine morale, ordine naturale e ordine cosmico. Chi lo infrange pecca mortalmente contro il corso naturale delle cose, impugna il piano divino della conservazione e della salvazione del mondo. Chi attacca un solo momento, anche il più secondario e periferico, della grande gerarchia cosmica che tutto organizza ed ingloba, si rende responsabile della sua integrale messa in pericolo, e sarà interesse di tutti impedirgli di nuocere e metterlo al bando». 3 Cfr. BRUCKER, Firenze nel Rinascimento, cit.

4 Così ZORZI, L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica fiorentina, cit., pp. 56-63. 5 Cfr. M.S. MAZZI, Cronache di periferia dello Stato fiorentino: reati contro la morale nel primo Quattrocento, in «Studi Storici», XXVII (1986), pp. 609-635, in part. p. 612: «La complessità dei motivi che ispirarono la serie di provvedimenti […]» affonda «nell’humus ricco e controverso di un delicato

115 è un atteggiamento che alla repressione degli anni passati sostituisce o unisce un maggiore disciplinamento «nella sua duplice funzione di attitudine all’obbedienza da parte del soggetto e di capacità di esercitare il comando da parte dell’autorità»6, con lo scopo di promuovere un adeguamento dei comportamenti dei cives all’ordo civitatis così come interpretato in quel preciso momento storico dall’autorità politica7.

Esiste, infine, un altro aspetto che accomuna il problema del mantenimento dell’ordine politico con il problema del mantenimento dell’ordine sociale interno: il fatto che quest’offensiva moralizzatrice passa attraverso la creazione di nuove magistrature riservate a membri del ceto di governo, con iurisdictio in criminalibus quali gli Ufficiali dell’Onestà (1403), i Conservatori dell’onestà dei monasteri e delle monache (1421), i Conservatori delle Leggi (1429) e, da ultimo, gli Ufficiali di Notte (1432). Nell’arco di trent’anni la Signoria e i Collegi istituirono, dunque, quattro magistrature collegiali composte da cittadini, incaricate di razionalizzare la legislazione esistente, redigere nuovi ordinamenti e statuti, e amministrare una giustizia tendenzialmente sommaria. Proprio come stava accadendo con il magistrato degli Otto di Guardia, questi uffici si affiancarono al tradizionale apparato giudiziario incardinato sui Rettori forestieri, cui per statuto competeva intervenire anche sul vizio morale e sulla corruzione dei funzionari, finendo per sostituirlo8.

momento di passaggio, nel quale all’inquietudine dei tempi di crisi si sovrapponeva una sorta di esaltante volontà di organizzazione del nuovo. Tensione e ansietà politica, difficoltà economiche e finanziarie, generano da parte delle autorità un più severo, rigido controllo della moralità pubblica, per motivi che sono di ordine sociale ma rivelano contemporaneamente una più radicata, antica attitudine alla riparazione nei confronti di un potere sovrannaturale. Il sacrilegio della violazione della clausura conventuale e la deviata sessualità “contro natura” della sodomia espongono, per esempio, la collettività alla collera e alla punizione divina, che diventa imperativo evitare attraverso un’azione repressiva del crimine. Convive con questo atteggiamento, però, un sentimento più spregiudicato e più laico, che ispira una più placata volontà di disciplina e di buon governo, di una gestione sapiente e oculata anche del vizio, come nel caso della prostituzione o del gioco d’azzardo».

6 P. SCHIERA, Legittimità, disciplina, istituzioni: tre presupposti per la nascita dello Stato moderno, cit., p. 21. Sul concetto di disciplinamento, cfr. anche Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Annali dell’Istituto storico italo-germanico, Quaderno 40, Bologna, Il Mulino, 1994.

7 Sempre secondo Schiera, la disciplina, assieme con la legittimità, è «in grado di entrare profondamente nel vivo del rapporto politico, toccandone il centro più segreto e misterioso che è appunto quello in cui comando e obbedienza si incontrano nella determinazione fisica delle persone e dei sudditi e nella fissazione concreta dei loro comportamenti individuali e di ceto, in una convivenza opportunamente regolata», (p. 21). 8 Dopo gli Otto di Guardia, quest’utilizzo della pena come strumento di disciplinamento, unito alla creazione di altre magistrature cittadine con iurisdictio in criminalibus, rappresenta – nella nostra ipotesi

116 Riteniamo, pertanto, indispensabile, per apprezzare le novità del percorso quattrocentesco, effettuare, prima, una breve ricognizione della normativa dettata al riguardo dalla legislazione statutaria del 1322-1325 e del 1355.

Vigevano, in primo luogo, numerose disposizioni che proibivano i giochi d’azzardo. Era vietato, a pena di lire venticinque, giocare a qualsiasi gioco nelle case e sotto le logge; si doveva, viceversa, giocare in pubblico, nelle strade o nelle piazze, purché non si trattasse del gioco «zare, vel aliossorum, vel germinelle, vel ad ludum qui dicitur Caderasse», che erano tassativamente vietati a pena di lire dieci, o della frusta, o della prigione, a libero arbitrio del giudice9. Chi veniva sorpreso in queste bische, era arrestato anche se fosse stato semplicemente ad assistere. Inoltre, i birri dovevano «frangere seu frangi facere lapides et tabulerios aptos ad ludendum». I tenutari di case da gioco, sui quali si poteva inquisire anche con il ricorso alla tortura, erano colpiti in lire cinquecento, non pagando le quali, la casa veniva distrutta. Sempre nell’ottica di contrastare il vizio quale principale fattore di disordine, coloro che prestavano denaro ai giocatori venivano puniti in lire duecento e con l’annullamento del contratto di mutuo.

La legislazione suntuaria era diretta a frenare le spese spropositate e a mantenere l’austerità dei costumi, trattenendo quanto possibile i cittadini dall’usanza di gareggiare nel lusso delle vesti, delle gioie, delle cerimonie e in ogni genere di vanità. Si pretende di regolare praticamente tutto10. È vietato alle donne di portare corone di perla o di oro o di carta colorata e certi gioielli, a pena di lire cento e la confisca degli oggetti stessi. Sulle vesti non potevano neppure essere sovrapposti ornamenti cuciti, ricamati o a rilievo. Si

ricostruttiva – il secondo pilastro del nuovo ordine penale pubblico a proiezione territoriale, che si sta sviluppando in parallelo alla crescita della compagine territoriale di potere. Ne rappresenta il secondo pilastro nel senso che il penale, mescolando il reato con il peccato e i criminali con i peccatori, vede allargare progressivamente i suoi confini repressivi al settore dei crimini contro la religione, i costumi e l’ordine sociale della civitas-respublica. Indicativo circa la forte commistione tra reato e peccato il passaggio del proemio degli Statuti di Firenze del 1415 dove si ricorda che il libro terzo sulle cause criminali commina pene ai peccatori; cfr. vol. I, p. 3, dell’edizione a stampa.

9 ASF, Statuti del Podestà di Firenze del 1355, 16, rubrica 97, III, cc. 159v-161r, consultabili digitalizzati sul sito www.archiviodistato.firenze.it/archividigitali/complesso-archivistico. Cfr. anche Statuti della Repubblica fiorentina, cit., Statuto del Capitano del Popolo del 1322-1325, rubrica 6, III, De ludis vetitis et mutuantibus ad ludum et ludos retinentibus et de contractibus factis causa ludi.

10 Cfr. Ivi, rubrica 13, V, De ornamentis perlarum, coronis vel vestibus non portandis; in part. l’incipit della rubrica: «Ut pompe Florentinorum tollantur in quas occasione ornamentorum et vestium lascive didicerunt incurrere, ob quas indecentes expensas temere subierunt».

117 legiferava sopra i bottoni, fissandone il numero e la qualità, quindi, sulle cinture, sulla lunghezza delle sottane, sopra il numero e il colore delle vesti del corredo della donna promessa in sposa, sui doni che lo sposo poteva fare alla sposa e su quelli che era loro concesso di fare agli amici. Perfino i convivi nuziali erano regolamentati. Era compito dell’Esecutore e del Capitano fare osservare queste disposizioni. Le loro squadre fermavano per le vie le gentildonne viziose che, dopo aver dato le generalità, dovevano consegnare i gioielli incriminati, poi confiscati dal Comune. Gli uomini, invece, venivano arrestati e rimessi in libertà solo dopo aver dato malleveria di pagare multe che andavano da lire venticinque fino a lire cinquecento11.

Taverne e postriboli erano costantemente sorvegliati12. Nelle taverne, che dovevano essere distinte col giglio rosso, simbolo della civitas, per essere riconoscibili dalle squadre dei birri, era proibito giocare, vendere golosità che potessero corrompere i ragazzi, accogliere sodomiti e donne di malaffare. Queste ultime non potevano abitare a distanza di cinquanta braccia da determinate strade dove erano ubicati monasteri, pena la distruzione della casa e pesanti multe. Nessuna meretrice poteva stare e andare per Firenze di giorno, pena la fustigazione, eccetto il lunedì dopo l’ora nona ma astenendosi dal prostituirsi13.

11 Per farsi un’idea di come tali disposizioni trovassero poi concreta applicazione, cfr. BRUCKER, Firenze nel Rinascimento, cit., p. 347, dove è riportato lo stralcio di una sentenza di condanna emessa il 14 giugno del 1397: «Hec sunt condempnationes contra […]: dominam Bartholomeam vocatam alias Meam, uxorem Mei Puccini Orlandi de Florentia, populi Sancti Pieri Scaragii […] maiorem decem annis contra quam processimus […] quod dicta Mea inventa fuit inducta per eundem offitialem ire per civitatem Florentie in via publica in populo Sancti Stefani ad Pontem, iuxta apothecam Filippi Nati ab uno latere et iuxta apothecam Marci Berti ab alio latere […] et secum habere et portare in dorso et ad dorsum quandam cioppam sive vestimentum actum ad induendum, coloris nigri, cum manigirum, in fraudem et contra iuris formam statutorum et ordinamentorum comunis et civitatis Florentie […]». La donna confessò e fu multata in lire 37 e soldi 10; pagò lire 28, soldi 2, denari 6. La sentenza che lo storico americano riporta è contenuta in ASF, Giudice degli Appelli, 65, carte non numerate. Di fronte al Giudice degli Appelli era dato ricorrere contro i lodi, le sentenze, i provvedimenti degli ufficiali intrinseci ed estrinseci e anche contro le sentenze civili del Podestà e del Capitano. Le penali erano invece inappellabili: solo rivolgendosi ai Consigli cittadini si poteva modificarle. L’attività del Giudice degli Appelli – anche lui un Rettore forestiero – si interruppe nel 1411 e il fondo archivistico così denominato contiene anche atti riferibili ad altre magistrature. 12 Cfr. Statuti della Repubblica fiorentina, cit., Statuto del Capitano del Popolo del 1322-1325, rubrica 32, V, Quod nullus teneat tabernam vel coquat res gulosas vel vendat.

13 Ivi, Statuto del Podestà del 1325, rubrica 115, III, De postribulis et meretricibus et eorum roffianis et mulieribus non emendis predicta de causa, et eorum pena; cfr., altresì, ASF, Statuti del Podestà di Firenze del 1355, 16, rubrica 161, III, cc. 183v-184v, consultabili digitalizzati sul sito www.archiviodista- to.firenze.it/archividigitali/complesso-archivistico.

118 Il Podestà aveva arbitrio «in congnoscendo et in procedendo», fra le altre cose, su «operibus sodomiticis», pratica nefanda che poteva legittimare, in presenza di indizi, la sottoposizione del reo a tortura14. Le severe leggi del XIV secolo prevedevano la castrazione (1325)15 o la morte (1365)16 per i sodomiti, mentre ai loro partners passivi, se minori, venivano inflitte multe o punizioni corporali, sempre ad arbitrio del giudice. Lo stesso Podestà doveva procedere come a lui piacesse contro chi osasse offendere il Vescovo17, nonché perseguire la blasfemia contro Dio, la Vergine o un santo18. In quest’ultimo caso, il reo era condannato a lire cento e, per provare la sua colpevolezza, era sufficiente la testimonianza di due persone degne di fede. Se poi il bestemmiatore fosse rimasto insolvente, il Podestà doveva disporre che fosse denudato e trascinato per tutta la città a colpi di frusta.

In considerazione degli scandali che avvenivano spesso nelle terme o “stufe” – come si chiamavano a Firenze – si stabiliva che vi si dovessero recare un giorno i maschi e un giorno le femmine19. Erano, infine, proibiti i travestimenti a pena della fustigazione, da eseguirsi in pubblico partendo dal palazzo della Signoria e camminando fino al luogo dove fosse stato trovato il colpevole20.

Le rubriche statutarie selezionate, soprattutto quelle della redazione del 1322- 1325, denotano come fin dai primi decenni del XIV secolo le autorità avessero a cuore contrastare quelle abitudini comportamentali contrarie al generale sistema di valori e di codici morali della civitas, elaborando a tal fine un complesso di norme criminali particolarmente severe, inclusive di pene corporali e di sottoposizione ai tormenti. Tuttavia, studi compiuti qualche tempo fa sui documenti giudiziari hanno riscontrato la sostanziale inefficacia di queste, pur rigide disposizioni, mettendo in luce quanto

14 Statuto del Podestà del 1325, rubrica 75, III, De arbitrio Potestatis in maleficiis.

15 Ivi, rubrica 54, III, De puniendo sodomitas: «Statutum et firmatum est precise quod quicumque soddomita pollutus cum aliquo puero inventus fuerit ambo testiculi eius penitus abscindantur».

16 ASF, PR, 52, c. 128rv, on-line su www.archiviodistato.firenze.it/archividigitali/complesso-archivistico. 17 Statuti della Repubblica fiorentina, cit., Statuto del Podestà del 1325, rubrica 6, III, De puniendo qui rixam fecerit in palatio episcopatus.

18 Ivi, rubrica 13, III, De puniendo qui blasphemaverit nomen Domini.

19 Ivi, Statuto del Capitano del Popolo del 1322-1325, rubrica 82, V, De modo eundi ad stufas. 20 Ibidem.

119 sporadica, ammonitrice e circoscritta agli episodi più clamorosi fosse stata in realtà la repressione di tali reati21.

Consapevoli di ciò, gli uomini del reggimento albizzesco maturarono quel diverso atteggiamento che descriveremo nei prossimi paragrafi. Avvertiamo fin da ora che si trattò di un percorso niente affatto semplice e, soprattutto, lineare, bensì costantemente teso tra forti accelerazioni e altrettanto brusche decelerazioni.